Una storia conosciuta da pochi

Per rimanere in tema di ambienti alpini presi di mira dalle devastazioni, lascio questo interessantissimo ed istruttivo articolo dell’avv. Fabio Balocco, consigliere di Pro Natura. L’escursione indimenticabile che ho fatto nell’anno 2005 nel Vallone di Vassola, è stata completata, il giorno successivo al pernottamento al Gran Lago di Unghiasse, con il rientro a Vonzo scendendo per il Vallone di Unghiasse, il vallone parallelo (direzione ovest) rispetto a quello di Vassola. Un altro gioiello della Val Grande di Lanzo, che, con mio stupore, ho scoperto che doveva essere oggetto di una costruzione di una pista agro-silvo-pastorale nel 1998.

Perché i mass-media ogni tanto non ci raccontano queste storie? Non sarebbe importante far sapere che per fortuna nel mondo ci sono donne e uomini che, operando nell’ombra, ci reglano con le loro nobili lotte, mondi meravigliosi? Che grazie a loro possiamo ancora godere di luoghi stupendi, lasciati stare così come sono affinché anche altri, dopo di noi, possano goderne?
Grazie Fabio.
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VALLONE DI UNGHIASSE
Una storia conosciuta da pochi
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La storia
Il Vallone di Unghiasse è un vallone sito sulla sinistra orografica della Val Grande di Lanzo, nelle Alpi Graie Meridionali.
Nella parte bassa esso è colonizzato da un bosco misto con diverse essenze, dal faggio alla betulla al larice. Sopra al bosco segue un pianoro (Pian delle Riane), e sopra ancora seguono balze rocciose disseminate di piccoli alpeggi che preludono ad una zona lacustre che racchiude ben tre laghi, il Lago della Fertà, quello di Unghiasse ed il Lago Grande di Unghiasse.
Questa descrizione vuol dire tutto e non vuol dire niente. Bisogna andarci nel Vallone di Unghiasse per capirne ed apprezzarne la bellezza sublime. Difficile trovare in tutto l’arco alpino occidentale una zona così ricca di ambienti e così intatti.
Ciò detto, si può immaginare il terrore che colpì me ed altri amici che condividono con me l’amore per l’ambiente montano, quando, nel dicembre del 1998, venimmo a sapere che la Regione Piemonte aveva autorizzato una pista (strada in terra battuta) che avrebbe dovuto risalirlo per buona parte, al fine di raggiungere degli alpeggi, peraltro abbandonati (!) siti nello splendido Pian delle Riane.
La prima cosa che facemmo fu il procurarci la delibera autorizzatrice e ci accorgemmo che essa contraddiceva in pieno una precedente delibera, del 1994. Nel 1994, per una pista lunga 4.640 metri, di larghezza tre metri e piazzole ogni duecento metri, l’autorizzazione era stata negata con la seguente motivazione “considerato che la pista in oggetto determinerebbe una grave ed irreversibile modificazione dello stato dei luoghi, con negativi effetti diretti ed indiretti sugli stessi”. Nel 1998, per una pista lunga 4.640 metri, di larghezza 2,5 metri e piazzole ogni quattrocento metri, l’autorizzazione veniva rilasciata con la seguente motivazione “la realizzazione proposta, se condotta con opportuni accorgimenti atti a mitigare il più possibile l’incidenza dell’intervento sul territorio, può essere eseguita senza alterare il contesto ambientale della località“ (!).

Ciò ci indusse, come associazioni ambientaliste, Federazione Nazionale Pro Natura e WWF, a dare mandato ad un avvocato affinché impugnasse la delibera.

Sconfortante fu l’esito del primo grado di giudizio. Il TAR Piemonte, infatti, respinse la richiesta di sospensiva della delibera ritenendo “che, nel bilanciamento degli interessi, appare prevalente l’interesse pubblico posto a base del provvedimento impugnato rispetto a quello privato fatto valere dai ricorrenti” quasi che le associazioni ambientaliste fossero state proprietarie del vallone e non già portatrici di interessi dell’intera collettività!

Per fortuna, l’esito del primo grado fu ribaltato dal Consiglio di Stato, nel mese di giugno del 1999, il quale sospese il provvedimento autorizzatorio.
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Il conflitto fra ecologia ed economia
La piccola storia che ho appena raccontato è, nel contempo, esemplare ed unica.
Perché esemplare? Perché essa dimostra come, purtroppo, l’Italia sia piena di buone leggi, spesso però totalmente disapplicate, e spesso proprio da parte di quella Pubblica Amministrazione che dovrebbe porle in essere e vigilare che siano osservate. E’ qui il caso della normativa sul vincolo paesaggistico, risalente al 1939 ma “resuscitata” dal cosiddetto “decreto Galasso” (in realtà, legge n. 431 dell’8 agosto 1985), che estese il vincolo paesaggistico ad intere categorie di beni, tra i quali le montagne sopra al limite dei 1.600 metri.

Purtroppo, così come la legge originale non aveva dato i frutti sperati (si pensi, a titolo di esempio, che il Breuil a Valtournenche era una zona protetta da un apposito decreto e poi ci costruirono Cervinia!), non ottenne migliore sorte il decreto Galasso. Alla fin fine, esso diede un po’ più di lavoro a chi voleva costruire nelle zone vincolate, dato che doveva chiedere un’autorizzazione in più, ed alle Regioni, deputate a rilasciare (quasi sempre) o a negare (quasi mai) l’autorizzazione. La morale è che se politici e funzionari avessero anche solo un compiuto senso del bello (non dico dell’ambiente) non commetterebbero le nefandezze che commettono.

La storia di Unghiasse dimostra appunto che, a fronte di una motivazione economica, o presunta tale, qualsiasi bene ambientale rischia di andare distrutto. E questo ad onta della normativa che lo dovrebbe proteggere e ad onta dello stesso insegnamento della Corte Costituzionale, il custode delle leggi, che più volte ha avuto occasione di affermare, giustamente, che il bene ambientale deve venire prima del bene economico.
Perché unica? Perché, a mia memoria, questo è stato l’unico caso in cui le associazioni ambientaliste sono riuscite a salvare una zona di montagna ricorrendo all’arma giudiziaria.
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In particolare, le piste agro-silvo-pastorali
La vicenda del Vallone di Unghiasse si presta però anche ad una considerazione più specifica, relativa alle condizioni di vita negli alpeggi dell’arco alpino occidentale. Infatti, nella parte alta del Vallone (che peraltro la pista non avrebbe servito) sono tuttora attive alcune malghe, e le condizioni di vita nelle stesse non sono certo delle migliori. Si potrebbe eccepire che qualcosa bisogna pur fare in un caso del genere per salvare l’attività economica o, quanto meno, per renderla meno onerosa.
Ed io mi posso trovare d’accordo con questa osservazione. Quello che non posso accettare è che in casi del genere l’unica soluzione concepita sia un collegamento stradale con il fondovalle (sarebbe come dire che tutti i rifugi custoditi debbono essere raggiunti da strade!), e, purtroppo, solo questa, sistematicamente, è stata la soluzione proposta dai privati ed accettata dalla Pubblica Amministrazione.
Io invece dico: in primis, tuteliamo l’ambiente (come peraltro afferma la legge), l’ambiente, che è un bene unico e che una strada non può che rovinare definitivamente. In secundis, valutiamo se e come si possa altresì tutelare l’attività economica.
Purtroppo, fino ad oggi, non si è ragionato in questo modo e, volendo monetizzare il bene ambiente (anche se questo è brutto), si può affermare che forse non vi è nessuna attività economica che sia costata così tanto alla collettività quanto la pastorizia di montagna. Per limitarsi al Piemonte, ricordo il caso della pista che ha distrutto l’incantevole fondo della Valchiusella per raggiungere un isolato alpeggio dove operava un’unica famiglia.
Eppure ci sarebbero tanti modi per salvaguardare le attività economiche e l’ambiente dove esse operano. Sicuramente, innanzitutto, si possono modernizzare gli alpeggi e migliorarne le condizioni igieniche. Per fare ciò, i materiali in quota possono essere trasportati per via aerea o, al limite, possono essere realizzate apposite teleferiche. Sempre nell’ottica di migliorare lo standard abitativo, si possono poi prevedere metodi di produzione di energia elettrica in loco, sfruttando acqua, sole e vento. Come estrema ratio, venendo alle vie di comunicazione, si può sempre ricorrere, piuttosto che alle piste per autoveicoli, a quelle per piccoli trattori od agli impianti a fune. Occorre ricordare, a mero titolo di esempio, che le attività di alpeggio nelle aree protette proseguono, quasi sempre senza che vi siano collegamenti viari.

E’ chiaro che gli oneri per le migliorie non dovrebbero gravare sui margari, ma sulla mano pubblica. A tale proposito, una specifica normativa in materia di piste ad uso agro-silvo-pastorale, sarebbe quanto mai opportuna. In Piemonte, ad esempio, nell’ambito della normativa sul vincolo idrogeologico, esisteva una norma che prevedeva che l’amministrazione dovesse valutare le alternative ad una pista, quando fosse stata richiesta. Peccato che quella buona norma sia stata poi abrogata col bel risultato che oggi i competenti uffici non hanno più la possibilità di fare una comparazione fra la pista ed altri mezzi.

In generale, nel merito, consiglio la lettura del saggio “Piste o peste”, edito da Pro Natura Torino, che sviscera il problema e suggerisce le soluzioni.(1)

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Un sogno durato quarant’anni
Il Vallone di Unghiasse è una meta molto ambita dagli escursionisti. Ma pure dai pescatori, anche se la ricchezza di pesci nei laghi (salmerini e trote) è frutto di immissioni.
In proposito, ricordo l’aneddoto raccontatomi di un pescatore che, andando a pescare di notte, “arpionò” una barca di altri pescatori. Vero, falso? Chissà. Carino, però.
Di sicuro c’è che qualcuno sul Lago Grande di Unghiasse ci ha navigato in canoa. Quel qualcuno è Ezio Capello, anni 72, che quando mi parla al telefono, nel settembre del 2006, sta per partire per il Monte Rosa per fare alcune ascensioni alpinistiche.
“Da bambino, durante la guerra, io vivevo con la famiglia a Bonzo (NdA, frazione di Groscavallo). Un giorno, avevo 9 anni, nel luglio del 1943, salii con mio padre al Lago Grande di Unghiasse, e ne rimasi talmente colpito da pensare che un giorno avrei dovuto navigarlo su una canoa indiana. Un sogno durato più di quarant’anni. Passati i quali costruii la canoa e, nell’estate del 1991, con altri quattro amici e due muli che portavano la canoa, salimmo, risalendo il Vallone della Vercellina, fino al Colle della Crocetta, da dove, abbandonati i muli, portammo a spalle la canoa sul Colle della Terra, ridiscendendo al Lago della Fertà e raggiungendo infine il Lago Grande di Unghiasse. Fu un’esperienza indimenticabile navigare sulle sue acque. Il lago è lungo quasi un chilometro, largo 120 metri, ma, soprattutto, raggiunge la profondità di 40 metri, eppure dalla superficie, data la limpidezza delle acque, il fondo si vede benissimo. Esso è cosparso di roccioni e ti dà un grande senso di vertigine. Dopo, rifeci esperienze analoghe sopra altri laghi, e raccolsi le storie in un libro.” (2)
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L’itinerario
L’itinerario che descrivo di seguito è in parte circolare e permette di visitare i due laghi più grandi del Vallone. Pressoché per tutto l’itinerario, la vista spazia sulle cime site al fondo delle Valli di Lanzo, Uja di Ciamarella, Uja di Bessanese, Cima d’Arnas, Croce Rossa. Il sentiero è ben visibile, salvo che nel tratto dall’Alpe del Laietto al Lago della Fertà, dove occorre seguire solo il segnavia.
Con l’auto raggiungere la frazione San Grato (metri 1.400), sopra Pialpetta, comune di Groscavallo, splendido belvedere sulla testata della valle.

Da qui si diparte la mulattiera, con segnavia bianco e rosso, che sale con modestissima pendenza fin quasi a raggiungere il Bec di Mea. Qui una piccola deviazione si impone per raggiungere la sommità di questo panettone di granito che domina la valle. La salita si effettua con una brevissima, elementare arrampicata.

Dopo, la mulattiera piega verso nord mantenendosi all’interno di uno splendido bosco misto.
Superata una cappella votiva, si raggiunge un magnifico pianoro solcato da rivi all’altezza di circa 1.770 metri. E’ il Piano delle Riane, già citato sopra, e che avrebbe dovuto essere meta della pista.
Da qui la mulattiera cede al sentiero. L’itinerario, non più nel bosco, risale più ripido la sinistra orografica del vallone, e, puntando poi dolcemente verso nord, raggiunge prima l’alpeggio Gias Vecchio e poi l’Alpe del Laietto (splendida vista del laghetto in primo piano e dell’Uja di Ciamarella sullo sfondo).
Da qui, anziché continuare sul sentiero col segnavia bianco e rosso, seguire il segnavia rosso, che si diparte sulla sinistra. Si raggiunge così l’Alpe Becco degli Uccelli ed il Lago della Fertà (m. 2.557), ai piedi del canale che conduce al Colle della Terra, da cui, attraverso il successivo Colle della Crocetta, si può scendere in Val Locana.
Dal lago, girando a destra, si riprende il segnavia bianco e rosso. Superato un piccolo dosso, si scende al bellissimo specchio lacustre del Lago Grande di Unghiasse. Attenzione, al lago un cartello indica la quota m. 2.648: è errata, la quota è metri 2494.
Dal lago, sempre seguendo il segnavia, ridiscendere all’Alpe del Laietto e, da qui, per il sentiero di salita, tornare all’auto.
Dislivello in salita circa m 1180 m. Tempo totale circa sette ore.
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Fabio Balocco
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1) Balocco, Gubetti, Perotto – Piste o peste – Edizioni Pro Natura Torino, Torino, 1994
2) Ezio Capello, Asini, muli e canoe, Editrice San Rocco, Grugliasco (TO), 1994
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21 pensieri riguardo “Una storia conosciuta da pochi

  1. Come è ben riferito, la storia è esemplare: siamo il Paese delle troppe leggi e leggine, il più delle volte disattese perché si trova il cavillo legislativo, l’iter è astruso, la vigilanza poca e mal indirizzata. In campo ambientale, poi, spesso si rasenta il delirio. Non entro nel merito dell’opportunità o meno di piste e strade interpoderali. L’impressione è che la crescente “pressione allo sviluppo” nasconde semplicemente la voglia di far “girare soldi” – di tutti – a beneficio di pochi.

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  2. Rovescio della medaglia: Densità viabile media (m/ha) Alpi Orientali 30 m/ha. Valsesia 1,6 m/ha.
    C’è bisogno di una foto per vedere dove il territorio e il paesaggio sono maggiormente gestiti?
    Dal mio punto di vista la gestione territoriale è molto difficile per la presenza di soli vincoli (paesistico, ambientale, idrogeologico, aggiungiamoci tutti i SIC, ZPS&C.) tanto che ogni tentativo di intervento stenta sotto il mare di carta (2 anni per ottenere un’autorizzazione per una sistemazione di un pendio in frana…). Questo non significa piste ovunque, anzi in alcuni casi sono più un ulteriore problema che una soluzione, ma tutto andrebbe accuratamente pianificato… ma non esiste il PFT??
    Rimanendo in tema: meglio una pista larga 3m con piazzole ogni 400 m che una pista larga 2 che non serve a niente.

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  3. A fronte di questi due ultimi commenti, aggiungerei che gli Italiani sono “creativi” e la maggior parte di essi ritenendo un disonore assoggettarsi alle regole di buona civilta’ preferisce furbescamente inventarsi il sistema di svicolare la legge….. purtroppo in tutti gli ambiti non solo quello ambientale.

    Serpillo

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  4. Rilancio su @John Deer: la complessità e cavillosità sono un ostacolo sia per chi vuol “fare” sia per chi vuol “tutelare”, e questo non aiuta nessuno che voglia muoversi nel rispetto di leggi e permessi. Hai messo il dito sulla piaga: ciò che manca è una pianificazione seria, onesta e che venga rispettata e verificata nel tempo. In altre parole, una politica di lungo respiro, che si dia obiettivi e mete sulla base dei decenni. Quand’ero piccolo si derivano i piani quinquennali di un certo sistema: ora che siamo nel villaggio globale, in cui tutto va fatto subito prima che passi l’occasione, non ho ancora capito se va meglio.
    Concordo sul fatto che se si deve fare una pista, almeno che serva: se vanno bene i 3 metri, siano quelli.

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  5. in più occasioni mi sono espressa, anche pubblicamente, a favore delle piste che colleghino gli alpeggi al fondovalle.
    quando facevo il censimento degli alpeggi (2003-2004) nelle province di TO e CN, il 99% degli intervistati degli alpeggi raggiungibili solo a piedi, alla domanda “quali miglioramenti sarebbero necessari qui” ha risposto “una strada”
    non possiamo pretendere che si continui a vivere in alpe come 100 anni fa… e nessuno aiuta i margari portando su il necessario con l’elicottero, visti i costi.
    le piste però devono essere UTILI (cioè realizzate laddove servono), fatte BENE (con l’impatto minore possibile e non in posti dove la prima pioggia le rende inutilizzabili e pericolose), CHIUSE a tutti, tranne agli aventi diritto.
    l’avere una strada consente a certi giovani di continuare l’attività in montagna (perchè si può scendere a portare i bambini a scuola, perchè si può andare avanti ed indietro dalla cascina situata nel fondovalle o in pianura, perchè la moglie che fa un altro lavoro può venire su nel fine settimana… sono tutti casi che conosco davvero, non esempi di fantasia)
    potrei poi parlarvi della mia esperienza e su come, grazie ad una pista agro-silvo-pastorale posso pensare a costruirmi un futuro

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  6. In Val d’Ala (Valli di Lanzo) in un km in linea d’aria sono state realizzate negli ultimi anni 2 ben piste agro-silvo-pasotarli: una è in stato di abbandono (la scorsa primavera un’auto di merenderos ha addirittura tentato l’assalto ma è rimasta bloccata poco dopo la partenza!) e l’altra serve giusto una famiglia (le vie legali, in questo caso, non sono servite a nulla). In questo ultimo caso avevo chiesto ad un mio amico se aveva il tempo per fare una piccola relazione sulla vicenda (davvero triste). Ma il tempo si vede che non l’ha trovato.

    Blacksheep77: se hai tempo e voglia, leggerei volentieri della tua esperienza in merito alla pista.

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  7. JohnDeere: la penso come te. Non so dire se sia così in tutte le valli, ma è certo che in quelle che conosco io è proprio come dici tu: non è possibile considerare l’ambiente alpino nel suo complesso perché ogni comune, ogni piccolo villaggio è un’entità a sé. Tutti vanno da qualche parte senza però mai incontrarsi per progettare in comune. Tra l’altro non si rendono conto che i turisti questo aspetto lo percepiscono molto e negativamente.

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  8. ovviamente le piste devono essere fatte laddove c’è l’esigenza… non dove ormai l’abbandono regna sovrano! devono PREVENIRE l’abbandono
    la mia esperienza… bhè, sono cose private. comunque, senza la strada che raggiunge l’alpeggio, forse la mia storia sarebbe stata diversa ed adesso non saremmo qui a pensare al matrimonio. invece, pur essendo difficile, l’estate mi vede comunque fare avanti ed indietro durante la settimana… 2-3 giorni in alpeggio, con la possibilità di scendere in poco meno di due ore ed essere pronta ad occuparmi del mio lavoro

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  9. Nessuno dice che quando viene fatta una pista che taglia un sentiero, magari storico, il sentiero non viene più ripristinato! Questa è la solita dittuatura del mezzo motorizzato e della sua bella strada che se ne infischia della c.d. viabilità pedonale… Chi apprezza fare escursionismo, lasciando in città le maledette strade, avrebbe ancora il piacere, almeno in montagna, di non ritrovare una strada! Perché non si rispettano i pedoni siano essi in città o in montagna? Perché non diamo più valore al’incedere lento di chi cammina?

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  10. @blacksheep77: concordo con te. Ho avuto diversi spiacevoli incontri con moto mentre stavo camminando o riposando (e non sul ciglio della strada ma dopo ore di camminata). Questi individui erano passati su sentieri e stavano scorazzando in un caso su acque sorgive (valle Tesso e Malone) e in un altro (Val Grande di Lanzo) in mezzo alla natura rinsecchita da mancate piogge e a rischio di incendio. Ma la cosa che piu’ mi ha deluso sono state le telefonate che abbiamo fatto ai Carabinieri ed alla Guardia Forestale per denunciare questi episodi.
    Questa e’ l’Italia? Le multe rimangono sempre sulla carta e son pure ridicole…

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  11. ha ragione l’anonimo: la nuova strada non dovrebbe “uccidere” il sentiero. ovviamente può capitare che lo intersechi, ma ci si dovrebbe preoccupare di mantenerlo e far sì che sia comunque percorribile per chi vuole salire a piedi.
    ricordiamoci però che la montagna vive se c’è qualcuno che continua a lavorare (in questo caso i margari ed i pastori): per il nostro piacere estetico di escursionisti non possiamo pretendere che quelle persone continuino a vivere come 100 anni fa.
    sul controllo (CFS, guardie ecologiche & C.), no comment

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  12. l’abbandono dei sentieri intersecati da strade è però purtroppo dovuto anche agli escursionisti stessi (o a molti di loro, quantomeno)… che preferisco camminare su queste ultime, che spesso comportano anche un allungamento dei tempi di percorrenza, lasciando così i sentieri senza un passaggio continuo di persone che in molti casi è però sufficiente al mantenimento stesso del sentiero.
    un caso esemplare

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    1. è il sentiero che parte dalle ultime case della frazione Rivotti di Groscavallo e si ricollega con la sterrata che porta ai vari alpeggi fino alle Fontane. Ormai è praticamente sconosciuto e di difficile individuazione, ma accorcia di un buon quarto d’ora il percorso e scoprire appena prima di salire sulla strada un pilone votivo e un’ottima sorgente, L’unica acqua disponibile in quella zona.

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      1. la pista che parte da pera berghina (rivotti) e che porterà alla vacerì (vaccheria) ha già cominciato ad aprirla e non mi pronuncio sullo scempio. non so però successivamente come debba proseguire.

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          1. pardon, ho visto solo ora la risposta.
            stasera controllo, ma temo di non aver fatto foto in quel tratto.
            quanto a farle L’unica problema è solo quando… purtroppo questo sabato lavoro e domenica sono di servizio per la proloco alla festa patronale a groscavallo. Se riesco faccio un salto, altrimenti vado il prossimo we

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