
Ringrazio sentitamente la redazione di Panorami-Vallate Alpine per avermi concesso la possibilità di riportare qui l’interessantissmo articolo di Gian Marco Mondino, sulle pietre che raccontano nelle Valli di Lanzo, pubblicato nel numero di Gennaio – Febbraio e di cui vi ho parlato nel post “Letture ed appuntamenti“.
Le foto che vedete qui sono mie e rappresentano solo una piccola parte di quelle che si trovano invece nella versione stampata. Mi scuso con l’autore e l’editore se non posso riprodurre anche tutte le immagini, davvero molto significative.
Nell’articolo viene citato il signor Giacomo Bossonetto. Costui è un “montanaro doc”, una persona straordinaria di cui avevo parlato nel post “Sentieri ritrovati“.
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Quando le pietre raccontano
Formazioni rocciose, pietre sacre e macigni verticali: prodigi della natura da sempre venerati dagli uomini
GIAN MARCO MONDINO
La pietra, osserva Claude Lecouteux, uno dei maggiori studiosi dell’argomento, ricorre in modo costante nelle credenze e nelle tradizioni dei popoli europei, onnipresente nella storia umana con forme e poteri disparati, dalla Bibbia alla mitologia greco-romana ed alle leggende medievali. In tutta l’Europa meridionale, tra i popoli pre-indoeuropei, il culto della pietra fu così radicato da influenzare i conquistatori successivi, che ne continuarono certi moduli di espressione del sacro, in primo luogo nei megaliti. Le pietre erano viste non come elementi inanimati, ma nate dalla madre-terra, di cui conservavano ed emanavano i poteri e le energie vitali (G. Barbadoro – R. Nattero, “Il Cuore antico”, 2010). Perciò, in quanto sede di forze soprannaturali, esse erano capaci di proteggere, guarire ed esaudire, e come tali erano venerate.

Certe credenze continuarono in epoca cristiana, sia pur sotto nuova veste, ad esempio legate al culto di un santo. Per questo sinodi e concili, già dal V secolo, ne condannarono, ma invano, l’implicito paganesimo. Gli antichi culti sopravvissero, o mascherati o protetti dalle remote sedi di montagna dei praticanti. Alle pietre restò, oltre alla funzione magica, quella protettiva e terapeutica. Santi e profeti famosi, come Alberto Magno ed Ildegarde di Bingen, attribuirono loro poteri particolari, sia pur all’interno della magia naturale.
L’epoca moderna ridusse all’ambito puramente fisico ed economico il ruolo della pietra, ma non cancellò del tutto usanze che, prive ormai di alone magico, conservarono certe forme materiali, per abitudine o per attaccamento da parte della gente, senza che se ne ricordasse più l’origine mitica. Poi il neocapitalismo ha annientato ogni traccia della realtà contadina e montanara, sradicando i legami con il trascendente.
Percorrendo i sentieri, girando paesi e borgate, parlando con gli ultimi anziani, possiamo cogliere alcuni frammenti di cui conservare il ricordo. La riscoperta di tali memorie, oggi, permette di ascoltare l’impercettibile sussurro delle pietre che raccontano.
I “prodigi” del paesaggio naturale
L’uomo primitivo sapeva di muoversi in un mondo di forze soverchianti e misteriose, che doveva combattere o rendersi favorevoli con ogni mezzo, se voleva sopravvivere. Nella natura esisteva un ordine, in sé rassicurante, ma pur sempre precario. Bastava un “errore”, una stranezza, un “anello che non tiene”, per rimettere in pericolo ogni certezza, a meno di riuscire ad esorcizzarlo.
Tale era anche il caso della pietra: un masso erratico isolato “inspiegabilmente” nella piana, una roccia di forma o colore “strani” (cavità, venature), un insolito pinnacolo, diventavano il prodotto di forze malefiche o, talvolta, benefiche, nel qual caso dovevano essere venerate. Esempi famosi, nelle nostre valli, furono la “Pera Cagni” (o “roc dou Diau”), celebre per leggendari ritrovamenti d’argento, e la Balma ‘d Vouns, sopra Chialamberto, le cui strane cavità (probabilmente frutto di erosione, quando il masso emergeva appena in superficie) furono attribuite alle masche.

Le Valli di Lanzo, come un po’ tutte le zone montane, mostrano i casi più svariati. Così, una roccia con un sedile naturale e tanto di braccioli, divenne la “careja dou diau”, sotto Pian ‘d le Riane (Unghiasse) e presso la torbiera di Lussel (inverso di Cantoira); nella zona di Pien Bracoun (Traves) due pietroni con un caratteristico incavo furono “el carejess del masquess”; un altro macigno particolare, al Colle Rivalsa (Ceres-Cantoira), era addirittura “lou banc dou diau”. A Pian Fium, sul valico tra Roca Moross e Monte Marmottere (Tornetti di Viù), gli inconsueti macigni verticali diventarono masche ingabbiate e pietrificate.
E pensiamo ai “ciuchè”, imponenti pinnacoli isolati (giganti o masche trasformati in rocce?), come lo stupendo torrione del Colle di Nora (spartiacque Chialamberto-Locana), occasione tra l’altro per una gita in luoghi straordinariamente intatti. Poi ecco il Bec Ceresin nella conca del Trione (originariamente “Turrione”), e ricordiamo che in patois “ceresin” era il nano; il grande monolite al Passo dell’Ometto; il pilastro sagomato a forma di volto presso il Gias Süit dell’Alpetta, per finire con le “incredibili” “Pere (o Roc) Ciapel”, massi erratici in precario equilibrio sopra quelli sotto stanti, lungo il sentiero balcone per Sagnasse o sotto le Coubassere.
Salendo verso il Ciavanis (Chialamberto), sul versante opposto i fianchi della Bellavarda pullulano di guglie, che nel fluttuare della nebbia incutono timore. Nel pendio sotto Vonzo ecco i Castei ‘d le Rive, colonne detritiche sovrastate da un masso, come i Ciciu di Villar S. Costanzo.

Simili “prodigi” di natura, ritenuti punti di emanazione delle energie telluriche, ma anche, nella loro verticalità, vie di elevazione verso il cielo, furono, su tutto il pianeta e soprattutto in montagna, oggetto di venerazione ed ispirarono probabilmente la creazione dei menhir, sulla cui funzione sacrale non penso esistano dubbi, e delle torrette di pietra come a San Bernè. Anche i dolmen naturali, tipo quello sopra i Rivotti o l’altro sotto la rocca dell’alpe Colombin (di cui si discute circa la reale origine), erano “prodigi” da ricreare. Pensiamo infine alle centinaia di “Roc”, ognuno con il proprio nome, come una persona, legato alla forma, al luogo, ad una leggenda. Un po’ ovunque a certi macigni fu attribuito il potere di guarire chi vi si strofinava, persino le donne con problemi di sterilità. “Vissero le pietre e le rocce, vissero i monti un dì”, potremmo dire parafrasando Leopardi.
La “balma” (o “barma”) è un rifugio naturale sotto una roccia sporgente, da sempre utilizzato dai pastori. Spesso tali ripari furono ampliati con scavi e protetti da muri esterni, per ricavarne locali più ampi non solo per gli animali. Alcuni margari vivevano sotto queste rocce, praticamente all’aperto, con le loro bestie. Molte divennero insediamenti stabili, sostituite poi dalle baite, nel qual caso passarono a “crote” (cantine) o “veilin” (depositi per conservare latte e burro), vedi il caso delle Benne, sopra l’Albone.

Un macigno a balma era utile come appoggio o riparo per la costruzione di baite, stalle (magari con un solo spiovente) o “freitè” (magazzino per tome). Tuttavia, se l’aspetto era “strano” o il luogo sembrava cupo e tenebroso, la balma diventava sede di forze malefiche ed era utilizzabile solo a patto di esorcizzarla. Presso il santuario di Santa Cristina ad un masso che forma una piccola balma è attribuito “da sempre” il potere di curare il mal di testa. Si scomodarono, invece, le masche per la Balma ‘d Vouns o la Barmafrè (Ovarda), presso cui fu poi costruita, appunto per esorcizzarla, la cappella di S. Bartolomeo. Nel caso della conca di Balmamassiet, in Val di Sea, il nome originario era Balmamaschiett, poiché gli enormi pietroni ivi “misteriosamente” franati e proprio li concentrati, con la loro mole ed i loro anfratti, evocarono la presenza delle masche, se non del demonio stesso. Sono poi innumerevoli, nelle valli, le caverne naturali (“boiri” o “bouirri”) “abitate” a suo tempo da masche, fate (come a Malpassett sopra Vrù), “foulat” (folletti) o “selvaggi” (es. presso un pilone votivo, salendo da Candiela a Chiappili).

In tale quadro di sacralità e magia dell’elemento naturale, non può non collocarsi la montagna stessa, su cui sono state spese parole illuminanti da studiosi come Claude Lecouteux e Pier Carlo Jorio. In quanto luogo di fenomeni misteriosi e terribili, come lampi, fulmini, nuvole nere e fitte nebbie, essa fu dapprima divinizzata e poi diventò sede delle divinità (“la montagna come tale, osserva Jorio, era già sacra prima che nascessero gli dei”). Un monte di forma particolare, altissimo ed aguzzo come il Rocciamelone, o situato in una posizione di risalto, come la Rupe di Santa Cristina, isolata lungo la dorsale Cantoira-Ceres, o posto a chiusura di una valle, come, vista da Forno, l’imponente ed appuntita Bellavarda, poteva diventare oggetto di stupore e di culto. A proposito di quest’ultima cito le osservazioni di Ariela Robetto (“Il segno dei giorni”, 2002): la traduzione del nome in “Bella vista” la tarda reinterpretazione di un appellattivo antichissimo, del quale si era perso il significato originario. “Bel” riconduce a Beleno, divinità montana del fuoco e della luce, mentre “Var” e “Gar” sono radici preindoeuropee che stanno per “monte”. Luoghi come la rupe di S. Cristina ed il monte Bastia con S. Ignazio, oltre che per la “straordinarietà”, si imponevano anche, nel loro isolamento, come siti per cerimonie sacre e riunioni, tanto che gli studiosi li considerano sedi di templi pagani precedenti la cristianizzazione.
I segni e la pietra
Se la pietra, nelle sue varie forme naturali “prodigiose”, è carica di forze positive o negative, l’uomo primitivo pensa di poter ricreare le prime e combattere le seconde attraverso una serie di riti propiziatori e protettivi, non solo orali, ma legati ad una serie di atti materiali incentrati sulla pietra stessa: incisioni e graffiti rupestri, manufatti, luoghi rituali strutturati, di cui restano molte testimonianze nelle valli alpine.

Sono innumerevoli le incisioni, sia preistoriche sia pastorali, su architravi e muri di baite, balme e massi isolati. In tempi meno lontani, con tali scritte e figure, i pastori intendevano soprattutto testimoniare la propria presenza, lasciare un ricordo di sé, ma è probabile che il gesto implicasse anche un fine propiziatorio, sia pur senza più alcun alone sacrale. Usando simboli e decorazioni stereotipe, essi ripetevano i moduli di pratiche magiche e tradizioni remote, che in montagna si erano conservate più a lungo e che, ancora oggi, ci parlano di un mondo così diverso dal nostro. Per gli antichi, infatti, la scrittura rivestì una funzione magico-religiosa indiscutibile. In Nepal una credenza attribuiva potere curativo a certe formule sacre scritte sui muri di un tempio, capaci di guarire chi, semplicemente, vi passava davanti. In Europa, nella sostanza, le convinzioni non erano diverse. A simboli pagani come il sole, la luna, la ruota, con il Cristianesimo se ne aggiunsero altri, primo fra tutti la Croce. Questa, da segno di riconoscimento per gli adepti della nuova religione, divenne ben presto un simbolo protettivo e perfino magico.

Nelle Valli di Lanzo, tra i tanti, il reperto secondo me più prezioso è una stupenda stele situata presso l’Alpe Rossa, sopra il Pian della Mussa, la quale reca incise scritte ed immagini simboliche. Proseguendo di lì per il magnifico lago del Ru, nel vallone delle Piane si incontrano numerosissime incisioni pastorali. Anche al Colle Battaglia, a cui è bellissimo salire al tempo delle fioriture, troviamo caratteristiche incisioni sulla “pera doussa”. Sigle datate 1871 e motivi simbolici furono graffiti persino sull’aerea e dirupata cresta tra il Colle della Crocetta ed il Moriond, non a caso presso uno slanciato monolite. Invece, risalendo da Pian Benot (sopra Usseglio) verso il Colle delle Lance, presso una roccia isolata si trova un masso con coppelle, che ricorda un altare, ed altre sono visibili in Val d’Ala ai piedi delle Courbassere. Sopra Malciaussia, nell’immensa conca dei Lombardi, un macigno-balma è coperto di scritte ed immagini simboliche.
Le coppelle sono uno dei più celebri, ma indecifrabili lasciti degli uomini preistorici sull’arco alpino. E’ assai probabile una loro funzione sacra e rituale, ma alcuni studiosi, per quelle unite fra loro da sistemi di canaletti, pensano anche a mappe relative a sorgenti o simili. D’altro genere ancora potrebbero essere quelle sul masso della Pereuva, sopra Mondrone, disposte a raggiera. Con il tempo, perso ormai ogni alone magico, in montagna esse conservarono però, fino a tempi abbastanza recenti, un ruolo propiziatorio, ad esempio per impetrare la pioggia.
Il menhir, uno dei più tipici monumenti preistorici, ci parla di un “sacro” del tutto differente, quello della verticalità, dell’elevazione al cielo. Gli studiosi hanno espresso varie ipotesi sulla sua funzione presso i primitivi. Soprattutto per quelli antropomorfi, che recano incise fattezze umane, si è pensato alla celebrazione o divinizzazione di re o eroi. Altri ritengono che i menhir contraddistinguano delle aree sacre, dove si celebravano dei riti connessi con il culto solare, la misura dei cicli del tempo o i flussi di energie telluriche. Al momento nelle Valli di Lanzo non si conoscono altri reperti, se non quello, di notevoli dimensioni, presso Cernesio (Ceres). Questa roccia, isolata sul limitare del bosco, sembra davvero narrarci le storie di un mondo remoto.

Uno dei siti votivi più importanti delle nostre valli è vicino all’alpe San Bernè (Chialamberto), sotto l’appuntita vetta del Gran Bernardè. Qui è concentrato un insolito numero di “bonhom” (torrette di pietra), particolarissimi per dimensioni ed accuratezza di fattura, che esclude il mero spietramento e li rende peculiari rispetto ad altri omologhi, tipo la Val Sarentina (Trentino).
Nelle Valli di Lanzo, e più in generale sull’arco alpino, i “bonhôm” sono comuni (come anche le più modeste “calette”), ma sono sempre isolati, non formano un “sistema” come a San Bernè. E’ il caso di quelli, davvero notevoli, sparsi sui monti di Biella (F.M. Gambari-A. Vaudagna, in “Rivista Biellese”, aprile 2006). Tanto più che a San Bernè, appena sotto le baite, si ammira un imponente allineamento di “mongioie”, grandi parallalelepipedi di pietre di straordinaria perfezione, assai diverse da quelle, pur ben rifinite, del Trione, alcune delle quali fornite persino di “sc-ialè” (gradini di lastroni pensili), o dai disordinati cumuli di semplice spietramento (“li mürgìa”).
Tutto fa pensare, per San Bernè, ad una sede votiva: probabilmente non preistorica, ma risalente almeno a parecchi secoli or sono, a testimonianza di come certi moduli costruttivi antichissimi, di funzione magico-rituale, si siano mantenuti nel tempo, sia pur in misura “alleggerita” rispetto al sacro significato d’origine.
Sulla funzione di tali “bonhôm” possiamo solo formulare delle ipotesi: ad esempio che dovessero stornare i fulmini, piuttosto frequenti nella zona, da pascoli e case, come è accertato in alcune valli lombarde; catalizzare energie telluriche come i menhir; impetrare la pioggia, essendo l’acqua piuttosto scarsa nella zona. Potrebbe anche trattarsi di voti individuali, propiziatori o gratulatori (al pari dei nostri quadretti ex-voto).

In tempi più recenti, poi, la costruzione di questi torricini diventò solo più imitazione o mezzo per testimoniare la propria presenza, come quelli bellissimi di Pian Gioè (sopra il Pian ‘d le Riane) e dell’alpe “lou Rous”, in Val d’Ala, ma nulla esclude che nella mente dei costruttori l’opera fosse legata, sia pur in modo non più stretto e consequenziale come in passato, all’idea di una “fortuna” favorevole.
Dagli antichi “bonhôm”, la cui tradizione è continuata così a lungo, derivarono in epoca cristiana “li piloùn”, i piloni votivi dedicati alla Vergine o ad un santo, per grazia ricevuta o per esorcizzare un luogo di apparizioni malefiche.
Per quelli di Mezzenile consiglio l’interessante volumetto-catalogo edito dal Comune. Se oggi sono in gran parte rivestiti d’intonaco, capita ancora di vederne di pietra grezza, come quello lungo il sentiero verso la Cappella Giardino di Mezzenile, che esprime un sapore particolare.
La nicchia del pilone, con quadri o statuette votive, ritorna non solo sui muri di case e baite a protezione degli abitanti, ma anche scavata nella roccia, con la valenza sacrale che l’atto comporta. Stanno a memoria di altrettante guarigioni i magnifici esemplari del vallone Saulera di Mezzenile, presso le “muande” del Cinaveri e di Rosta. I sentieri di montagna, specie quelli più marginali, conservano ancora dei tesori da riscoprire.
Lungo i sentieri d’un tempo

Degli antichi tracciati solo una parte è scampata all’abbandono o, peggio ancora, alla recente costruzione di strade e trattorili. Alle quote più basse esse hanno spesso cancellato le “viassi”, ampie mulattiere lastricate e fiancheggiate da muretti. D’altronde la regola imposta dalle autorità forestali è questa: dove esiste già un taglio (leggi: un sentiero), di lì passa la strada. Non importa se, così facendo, si distruggono testimonianze storiche, come il bel tracciato fra i Colle del Lys e quello di Portia. Solo perché, per mera convenienza, alcune carrozzabili hanno seguito altri percorsi, si sono salvati gli stupendi muretti presso Piazzette di Usseglio o le “viassi” da Cantoira a Lities e da Chialamberto a Vonzo e Candiela o il tratto che da Forno A.G. sale verso i Gabi: opere che parlano della fatica dei montanari, ma anche della loro genialità nel superare ripide pendenze e punti disagevoli con sapiente uso della pietra.
Dove i luoghi erano più dirupati, si sfruttavano le cenge naturali o se ne costruivano di artificiali con incredibili muraglioni a secco: pensiamo a certi passaggi nel vallone Saulera dopo la Cappella Giardino (Mezzenile); al tratto che, in Val di Sea, precede il noto Passo di Napoleone; all’ardito tracciato che dal Ciavanis conduce al lago del Bojret. Il fondo di una mulattiera poteva essere costituito da acciottolato (“sterni”), usata anche nelle stalle, oppure lastricato. Si possono ammirare tratti spettacolari per la perfezione del lavoro, come, sopra Chialamberto, nel vallone della Lombarda o in quello dei Funs (nemmeno segnato sulle carte), ma soprattutto, nell’Alpetta, la Vi’ di’ Palas tra Gias Costa e Pian ‘d le Cialme (tutte mete per escursioni). Spesso il pendio era così acclive da richiedere che il tracciato fosse protetto da muri di contenimento (“mü countratera”) anche imponenti, come certi tratti della “Vi’ Merchenda”, che risaliva da Mezzenile a Vana, Almesio ed al Ponte delle Scale.

I muretti erano necessari anche per stabilizzare le cenge coltivate (“mü da champ”), accumulando massi enormi per ricavare appezzamenti talvolta minimi. Chi non aveva diritto di passaggio per accedere ad un podere (o dove c’era poco spazio), costruiva uno “sc-ialè”: nel muro a secco erano conficcati, a diverse altezze, dei lastroni sporgenti, che formavano una scala pensile. Ricordiamoci che i montanari vi salivano e scendevano disinvoltamente, curvi sotto pesanti carichi.
Le “viassi” erano fiancheggiate da muretti per impedire che gli animali uscissero dal tracciato (cosa non necessaria per le “vi’ di’ gens”). Di solito le pietre erano disposte orizzontalmente una sull’altra. Talvolta, però, su una base orizzontale, se ne collocavano di grosse in verticale, una stretta all’altra, in modo che l’opera resistesse di più. Altrove si conficcarono nel terreno, verticalmente, dei lastroni chiamati “dentelles”, usati anche per le “roie”, come i due filari che bordano il sentiero fino alla candida cappella dei Rivotti. Le più spettacolari che io ricordi si trovano però sopra Celle, in Val di Susa. Gli studiosi ritengono che tali manufatti ricalchino la cultura “verticale” dei cromlech e dei menhir preistorici, cosa che ce li rende ancora più suggestivi.

Spesso capita di vedere, lungo un sentiero, un breve tratto isolato di muretto ben squadrato, simile ad un altare: è una “posa” (o “arposa”), su cui i montanari appoggiavano il carico per rifiatare. E ne avevano bisogno, visti i pesi che trasportavano. Un anziano montanaro di Mottera, Giacomo Bossonetto, mi ha raccontato dei suoi interminabili “viaggi”, curvo sotto i fasci di legna, che richiedevano nove “pose”. Parimenti è frequente notare sul percorso un pilone votivo, specie nei crocicchi: talvolta veniva eretto per esorcizzare un punto di passaggio in cui si erano verificati fenomeni “strani” o apparizioni misteriose, di demoni, masche o simili. Così potevano diventare oggetto di leggende certi suggestivi passaggi scavati nella roccia, il più noto dei quali è il Passo delle Mangioire (tra la Val di Viù e quella d’Ala), l’ascesa al quale è una delle mete più interessanti.

Per superare le maggiori pendenze, si costruivano passaggi gradinati, talora con curve e controcurve. La scalinata contraddistingue anche l’ultimo tratto di salita a noti santuari, costituita in genere, secondo una tradizione che richiama antichi rituali, da un numero di gradini pari ai giorni dell’anno. Ricordiamo quelle di accesso al Ciavanis (Chialamberto), alla Frassi (Mottera) ed a Santa Cristina (Cantoira-Ceres). Tale era anche il caso del Santuario di Forno (il cui bosco maestoso fu in tempi remoti, probabilmente, una sede cerimoniale pagana), finché la scala non è stata rifatta stravolgendo anche il numero dei gradini.
Il passaggio di un torrente costituiva sovente una difficoltà. Se si optava per un ponte di pietra, occorrevano maestranze specializzate, che ci hanno lasciato autentici capolavori, iniziando da Lanzo per continuare con Forno di Lemie o la Vana di Ceres (purtroppo è scomparso quello delle Scale). Nel Pian di Vassola, sopra Chialamberto, esistevano due piccoli gioielli: uno ad arco, più a monte, ha resistito, mentre il primo, ad ogiva, è stato spazzato via dall’alluvione. Ma una soluzione, per i corsi d’acqua minori, era il ricorso a possenti lastroni di pietra, come nel caso dell’alpe Balmot, in Vassola, e dello stupendo esemplare, che definirei “megalitico”, sul Rio Brissoud vicino a Vrù (Cantoira). Passando sulla strada, quasi non lo si nota, ma anche lui ha storie da raccontare.
Ho attinto, come al solito, alle competenze dei signori Ariela Robetto e Pietro Tetti, che ringrazio per la cortese disponibilità.
Gian Marco Mondino
intrigante.. sulla voce delle pietre ci sarebbe tanto da dire.. e da scrivere.
gp
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Grazie Gp!
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Se le pietre potessero parlare….racconterebbero dell’ingegnosita’ e della fatica dei montanari, della loro religiosità, della loro paura dell’ignoto…
Serpillo1
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In un’epoca così immateriale, virtuale, liquda ed effimera come la nostra, è quasi terapeutico “prendere contatto” con la cultura materiale dei montanari.
La pietra e le rocce sono i primi elementi che possono indurci a scoprire un mondo altro, ricco di valenze culturale e spirituali.
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F. Guccini – Radici
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Grazie!
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