«Che cosa posso imparare da un salmone?», chiedeva un esploratore bianco ad un indiano Kwakiul. In quella domanda c’era tutta l’arroganza che scaturisce da una presunzione irrecuperabile nei confronti di una conoscenza antica, atavicamente adagiata in ognuno di noi. Il bozzolo dell’educazione, della cultura metropolitana, del pratico «tutto subito» hanno distrutto la nostra capacità di sentire la terra e il suo canto, il silenzio delle pietre, il disperato urlo della valanga, il tenue sibilo delle piante.
Nell’ermetica chiusura della nostra cultura, che ci offre luoghi deputati per ogni cosa, che ci ha imposto lo stupore della neve, il fastidio del vento, l’esaltazione per un volo migratorio d’anatre, noi sentiamo impellente la necessità di ritrovare il sentimento della terra. Abbiamo bisogno di riscoprire l’«originalità interiore», con i suoi segni elementari, con la sua matrice selvatica. La vita sintetica, spesso programmata, sembra non offrire vie di fuga, e anche i probabili itinerari più spontanei e umani, pare siano lontani, ricchi d’avversità, difficili da trovare. Ma è in quel «trovare» la chiave del nostro vivere: è necessario ritornare sui nostri passi e cercare il selvaggio che, alla fine, ci salverà la vita. Continua a leggere “Il selvatico fuori e dentro di noi”