Forse qualcuno di voi si ricorderà dei post che ho scritto sulla leggenda dell’Uomo Selvatico riportando il pensiero di Annibale Salsa e di Massimo Centini. E forse qualcuno di voi sa quante volte in questo spazio virtuale abbiamo parlato della Val Grande di Lanzo (Torino) e di Vonzo (frazione di Chialamberto).
Massimo Centini, nel libro L’Uomo Selvaggio, Antropologia di un mito della montagna (Priuli & Verlucca), di cui ho parlato per la prima volta qui, riporta alcune fonti sull’Uomo Selvaggio raccolte sul campo nel corso di un’indagine condotta proprio nella Val Grande di Lanzo oltre a quella fatta in Val Grana (Cuneo).
Prima di riportare le interviste fatte ad alcuni abitanti della zona di Vonzo, vorrei fare una piccola introduzione su questo tema, così complesso e delicato, parlandovi di un altro libro di Massimo Centini molto interessante, uscito solo qualche giorno fa, che si intitola Creature fantastiche, viaggio nella mitologia popolare in Piemonte, Ligura e Valle d’Aosta (Priuli & Verlucca) nella cui premessa viene subito fatta chiarezza sulla serietà di questi argomenti che attengono al mito e alle leggende popolari:
Chiariamo subito un aspetto importante: questo libro tratta un argomento serio. Anche se il titolo potrebbe indurre in tentazioni semplicistiche, indirizzando verso àmbiti considerati “inferiori” e poco importanti, in realtà nelle pagine che seguono il lettore si imbatterà in un universo che – è vero – non esiste nella realtà, anche se però è ben presente nella tradizione popolare. E, mi sia concesso, non solo nella tradizione popolare… E’ infatti presente in quella complessità che si chiama mito ed è costituito da esperienze antiche come l’uomo: archetipi, bisogni ancestrali, che si coagulano in leggende e figure spesso impossibili, attraverso le quali l’inconscio ci invia segnali, ponendo a nudo il nostro cuore in cui riverberano echi di un mondo atavico mai sopito. […]
Ma oggi, nella nostra epoca, così protesa verso la scienza e la tecnologia, quest’ultima davvero alla portata di tutti o quasi, (pensiamo, ad esempio, a quanto può, o quantomeno dovrebbe, aiutarci la Rete a sconfiggere i “mostri” dell’ignoranza rispetto a chi non aveva in passato questo straordinario mezzo), è ancora concepibile dare ascolto a chi ci parla di questo cose? Possono essere considerate ancora attuali?
Colui che mi ha introdotto ad inseguire le tracce dei miti, delle leggende e a ripercorrere le orme dei montanari, quelle sobriamente e sommessamente disseminate da quella straordinaria civiltà che ci ha consegnato la Montagna, quella autentica, quella vera, quella che amo e che non smette di commuovermi, è stato il past President del Club Alpino Italiano, Annibale Salsa, che qui, come voi sapete bene, mi piace sovente citare perché è colui che mi ha aperto gli occhi verso questo luogo unico. E allora lo voglio fare ancora una volta, per farvi trasportare dai suoi pensieri grazie al suo libro Il tramonto delle identità tradizionali (Priuli & Verlucca). Pensieri che ci accolgono per spalancarci le porte verso ciò che nella nostra quotidianità ci sfugge disgraziatamente, persi come siamo ad inseguire il mondo finto e privo di senso delle società massmediatiche.
Le nuove generazioni sono già profondamente convertite alla virtualità, cioè al non-luogo. Dal mondo naturale, ai mondi sociali, ai mondi individuali, è un cammino che ci conduce dalle arcaiche società dominate dal determinismo della natura, nelle quali per vivere in montagna bisognava fare i conti con le costrizioni ambientali, all’emergere della società ordinata, in cui la natura viene governata e trasformata in paesaggio culturale. Viceversa, dove c’è passaggio veloce non vi può essere radicamento territoriale e dove non c’è radicamento territoriale c’è spaesamento. Da tali dinamiche socio-culturali discende l’odierno predominio totalitario del non-luogo, dell’artificiale, in cui il territorio riconoscibile e il paesaggio culturale nativo si eclissano irreversibilmente. È il trionfo dell’individualismo e dell’isolamento di massa, la solitudine dell’uomo-massa: siamo in tanti, ma siamo da soli. Ma è anche l’attuarsi di quella vendetta della natura che i pre-moderni – il mondo di ieri – temevano e si sforzavano di propiziare ritualmente, rigenerando in modo ciclico dispositivi di tipo simbolico: leggende, credenze, favole. La montagna è piena di queste strategie. Che cos’è il mito, percepito come racconto fantastico dei vecchi, se non il racconto originario idealizzato di una strategia per adattarsi a vivere dove è normalmente difficile vivere? Qual è dunque la vera sfida per la montagna? Nella società odierna, la sfida passa attraverso la capacità di coniugare tradizione e modernizzazione, salvando l’efficacia simbolica di taluni dispositivi del passato ed innestandola nell’orizzonte della nuova razionalità programmatica e pianificatoria.
Ecco le interviste riportate sul libro L’Uomo Selvaggio, Antropologia di un mito della montagna:
“[…] Riportiamo alcune fonti sull’Uomo Selvaggio raccolte sul campo nel corso di un’indagine condotta nella Val Grande di Lanzo (Torino) e Val Grana (Cuneo), su un campione di trenta persone intervistate (con età comprese tra i 28 e gli 87 anni) che non hanno mai abbandonato, se non per brevi periodi, il luogo di nascita; solo otto sostengono di non aver mai sentito parlare dell’Uomo Selvaggio. Venti degli intervistati sono contadini, mentre dieci svolgono professioni di vario tipo; il grado di istruzione è così suddiviso: laurea (uno); diploma (tre); licenza media (nove); elementari (dieci, non sempre completate); analfabeti (sette). Tra gli elementi caratterizzanti l’Uomo Selvaggio che rintracciamo con maggiore frequenza abbiamo: è peloso, nascosto, pascola le capre, teme il vento, si incontra con difficoltà. In genere, quasi tutti gli informatori sono concordi nell’affermare che esistono ancora discedenti del Selvaggio e li identificano con quelle persone, spesso malformate o deprivate del linguaggio, che vivono in abitazioni distanti dal centro abitato. Per evitare inutili ripetizioni, proponiamo alcuni stralci di interviste.
Domanda) Ha già sentito parlare dell’Uomo Selvaggio?
Risposte) Vonzo, Candiela, Balma Venera, ognuna aveva un selvaggio e i fatti che si raccontavano erano sempre molto simili. Aveva il corpo peloso, quindi non aveva bisogno di vestiti e faceva il pastore, pascolando gli animali della frazione. Per esempio, a Candiela, ognuno portava le capre a questo uomo selvaggio e se uno aveva tre capre, per tre giorni consecutivi portava le capre in questa località detta Pian delle Faudette. Lì veniva il selvaggio a prenderle, gridando: lu selvaggio guerna tout; allora mettevamo la merenda attaccata alle corna di una capra e la mandavamo con le altre verso di lui senza mai vederlo. Alla sera l’uomo selvaggio le riportava in quello stesse posto, riconsegnandole a chi gliele aveva portate al mattino» (P.D.anni 70).
Non lo riuscivo mai a vedere ma gli portavo, con gli altri, le capre e gliele lasciavo perché le facesse pascolare. Poi a sera, quando le tornavo a prendere, c’erano sempre, ma lui era già lontano e nascosto; non so dove, non l’ho mai visto (B. M. anni 70).
Quando faceva vento urlava: Quando fa vento fa cattivo tempo, quando fa vento fa cattivo tempo, e in quel giorno non prendeva le capre. Ricordo che un giorno di vento volevo portare fuori le mucche, ma mio zio mi disse di lasciar perdere, perché con quel tempo neppure il selvaggio ci sarebbe andato (G. F. anni 62).
Il selvaggio era un uomo che stava nei boschi della Fenà, che era il pezzo di bosco che sale da Vonzo. Tutti dicevano che era un brav’uomo. Un giorno, nel luogo dove gli lasciammo le capre, c’era una lepre, ed egli pensò che fosse da accudire e la tenne tutto il giorno. A sera, gridò di non portargliela più perché aveva dovuto fare troppi salti. Quelli di Vonzo volevano prenderlo, ma non sapevano come fare e pensarono di farlo ubriacare. Una mattina gli portarono, con la merenda, una damigiana di vino e gli dissero di bere. Egli aprì la damigiana e si versò del vino in bocca e gridò: Il vino è buono ma bisogna berlo con giudizio, poi pigliò la damigiana e scappò (P D. anni 70).
Domanda) Di che cosa si nutriva abitualmente?
Risposta) Mangiava della roba nel bosco e si faceva la toma tenendosi un po’ di latte delle bestie che portava a pascolare. Poi mangiava anche le cose che noi gli mandavamo in un cestino di vimini legato alle corna di una capra (B. M. anni 60).
Domanda) Aveva delle caratteristiche particolari?
Risposte) Era selvatico. Chi è riuscito a vederlo dice che è barbuto, pieno di capelli e di peli. Veniva giù dalla montagna (G. F.anni 62).
Aveva dei poteri particolari: poteva guarire e anche mandarti una specie di fisica (malocchio). Comunque era un guaritore (G. M. anni 33).
Qualcuno racconta che sapesse dove c’era l’oro: i selvaggi facevano il gioco dei paletti, come facevamo noi da piccoli, ma loro usavano dei paletti d’oro. Forse l’oro lo trovavano nella miniera in cui vivevano, ma va a sapere! Tanto l’hanno cercato, ma nessuno l’ha trovato mai (B. P. anni 64).
Domanda) C’era un solo selvaggio?
Risposta) No, una volta erano tanti su per qua dietro; vivevano soli, ma erano parecchi. Vivevano tutti così, nei boschi, nascosti (B. M. anni 60).
Domande) Ci sono ancora dei selvaggi?
Risposte) Adesso non ci crediamo più, ma i vecchi, come mio zio, dicevano che era nero e che il selvaggio esisteva (G. F. anni 62).
A Cantoira c’era un uomo che tutti chiamavano lu ricet perché aveva capelli ricci come quelli di un negro. Dicevano che fosse figlio di un selvaggio. Era bianco, ma la faccia sembrava quella di un negro: i capelli ricci, il naso largo, gli occhi incavati. Era talmente peloso che non si metteva la maglietta neanche quando nevicava forte. Viveva in una specie di grotta, dove aveva messo degli scaffali di legno fatti da lui. Non sapeva nemmeno parlare, ma sapeva fare un mucchio di cose: se tu gli facevi vedere una macchina lui, senza averla mai vista prima, riusciva a smontarla e a rimontarla. Sapeva inventare un mucchio di cose (L. F. anni 72).
Era gente che viveva nella miniera. So che un selvaggio c’è ancora, vive su in montagna con le capre (B. P. anni 64).
Domanda) Come vivono?
Risposta) Sono degli asociali e anche le loro case non sono proprio come sono le altre. Vivono come gli altri, lavorano. Adesso hanno persino il trattore. È gente che ne sa parecchie di cose (G. M. anni 33).
Passiamo in Val Grana, nel Cuneese, per ascoltare alcuni brevi racconti direttamente in un gruppo di anziani contadini della zona.
Il protagonista è sempre l’Uomo Selvaggio, che qui viene chiamato Sarvàn o Sarvanot, e ripropone chiaramente la nota immagine del trickster, una figura molto attiva nel patrimonio leggendario popolare.
C’era il sarvanot era come un folletto, ma non era cattivo, faceva dispetti, soprattutto alle donne: quando stendevano i panni, lui li buttava giù. Scambiava il sale con lo zucchero, ma non era come le masche, quelle facevano solo del male. Dicono che avesse un cappello a punta (Tristin, anni 80).
Il sarvàn, non l’ho mai visto. Una volta entrava nella stalla e scambiava le catene alle mucche e poi dava tutto il fieno a quelle che voleva lui, togliendolo alle altre (Pettu, anni 75).
I vecchi lo raccontavano sempre: c’erano i sarvanot che andavano su di lì. Di giorno non si muovevano mai, stavano nelle barme. Non facevano del male, erano persone normali, solo che si aggiravano di notte, come il curs, una specie di processione di fantasmi, su per la montagna. Non facevano niente, bisognava solo lasciarli passare (Batista, anni 70).
Le masche erano tutte donne e i sarvàn erano uomini, facevano dispetti alle ragazze e alle donne: facevano cadere la biancheria stesa, alzavano le gonne, le spaventavano quando erano sui sentieri da sole, ma non erano cattivi. Adesso se ci fossero ancora li ammazzerebbero subito… (Toni, anni 73).
L’ultima affermazione di Toni è particolarmente interessante, poiché, se da un lato si propone come una rassegnata accettazione di una mutazione socio-culturale che comunque ha investito le aree più isolate, dall’altro conferma la diversità dell’Uomo Selvaggio, in quanto portatore di un’anomalia temuta e pertanto demonizzata. “
Massimo Centini
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E allora come non invitarvi a rintracciare le orme dell’Uomo Selvatico tra le nostre bellissime montagne, magari proprio in quelle dietro casa, quelle che distano solo qualche decina di chilometri dalla nostra società così ordinata, dai nostri non-luoghi quotidiani?
Appena trovo il tepo dileggere tutto con attenzione…. per ora complimenti per la messa adisposzione del materiale! Gp
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Grazie!
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Scusa la forma poco chiara del testo, invece di correggere è partito il commento…
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Invito accolto!!
E’ bello saper volare riconoscendo le atmosfere e la cultura orale dei nostri “vecchi”.
Tradizioni in cui mi specchio e mi sento parte.
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Personalmente ritengo che tutte quelle strategie per adattarsi a vivere dove è normalmente difficile vivere (come appunto quelle rappresentate dai miti e dalle leggende, come ci spiega Salsa) sono di terribile attualità se pensiamo che anche noi cittadini, in quest’epoca, stiamo vivendo in un mondo difficile e pericoloso dal punto di vista ambientale. Basta pensare agli sconvolgimenti climatici, giusto per fare un esempio.
Essersi rinchiusi nelle metropoli non ci garentisce l’immunità di fronte al mondo naturale anzi, abbiamo talmente preso le distanze da quel mondo, relegando la salvezza (nostra) alla tecnologia,che oggi ci troviamo di fronte a problemi catastrofici.
Ma la tecnologia di per sé non ci salverà se crediamo di poter fare a meno del mondo naturale.
E’ drammatico credere che comunque vadano le cose, ci sarà la “buona tecnologia” che ci salverà da tutto, anche dai nostri errori (gravi).
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Purtroppo e’ quello in cui ci hanno fatto credere……
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Ricordo un articolo di molti anni fa su Airone e sui miti in Val di Mello, molto simili a quelli da te descritti. In rete non ho trovato nulla, ti avrei segnalato l’indirizzo perchè di tuo sicuro interesse.
Uomini e storie fantastiche, credenze e simili disseminano le valli, e quante volte ci aspetteremmo che da sotto una siepe di selci uscisse uno gnomo.
Se trovo l’articolo ti dico il resto (ma cercare nel cartaceo è lunga) 🙂
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Grazie, spero che troverai l’articolo. Sarebbe un modo carino per “collegare” aree alpine un po’ distanti fisicamente ma, credo, per alcuni aspeti, molto vicine dal punto di vista culturale. Magari potresti scrivere tu qualcosa sul tuo blog. No?
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Bellissimi questi racconti che hai raccolto!
Bravo a metterli in rete, chissà che un pò alla volta si possano “rilegare”!
rok 64
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Grazie! Finalmente ti fai risentire!
Sarebbe una buona idea!
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