Ometti, cairns, bounòm e mongioie

Scopro per caso un interessante articolo di Giorgio Inaudi (scritto per “Barmes News“, la rivista semestrale del piccolo villaggio alpino di Balme, ricca di spunti culturali e di curiosità) che ci parla di quei monticelli di pietre che sovente si incontrano lungo i sentieri di montagna. Ce ne sono di diversi tipi, da quelli piccoli che ci indicano la direzione di marcia, a quelli giganteschi, veri e propri monoliti misteriosissimi, come quelli che si incontrano sui pascoli posti a mezzogiorno della Val Grande di Lanzo (per saperne di più, al termine dell’articolo di Inaudi lascio alcuni link per eventuali approfondimenti).

Ometti, cairns, bounòm e mongioie

Giorgio Inaudi

Chi frequenta l’alta montagna, soprattutto se ama uscire dai sentieri segnati, ha certamente avuto occasione di smarrirsi nella nebbia. È un’emozione certamente spiacevole, ma in qualche modo emozionante. Si perde completamente il senso dell’orientamento, non si capisce più se si sale o si scende, tratti brevi di strada appaiono lunghissimi e altre volte il contrario, creste e costoni perdono rilievo oppure si ingigantiscono come non mai, fino a confondere la nozione dello spazio e persino del tempo. Spesso si finisce per girare in tondo, soprattutto quando il terreno è innevato e può capitare di trovarsi a calpestare le proprie tracce e persino di seguirle fiduciosi, convinti di aver finalmente ritrovato il giusto cammino. Un’illusione che dura poco, il tempo di passare di nuovo davanti a quella certa roccia o di ritrovare il fazzoletto di carta lasciato cadere non molto tempo prima.

Nella nebbia l’ometto di pietre è davvero provvidenziale per non perdere la giusta direzione di marcia

Che sollievo, allora quando l’occhio scorge finalmente una colonnina di sassi, soprattutto quando di qui se ne vede un’altra, e poi un’altra ancora, che appare e scompare tra le ombre! Finalmente una traccia sicura, che certo porta da qualche parte.

Questi umili ma importantissimi punti di riferimento sono stati eretti proprio con questo obiettivo, aiutare il viandante nei luoghi impervi, dove non esistono punti di riferimento e meno ancora qualcuno cui chiedere informazioni. Probabilmente sono vecchi di secoli, se non di millenni, distrutti senza posa dalle intemperie (e qualche volta dalla stupidità di coloro che non ne conoscono l’utilità) e ricostruiti dai passanti, preoccupati per il proprio ritorno e del cammino degli altri.

Ometto di pietre

In qualche caso addirittura l’ente pubblico si incaricò di costruirli, come fece il governo sardo-piemontese lungo la via del Col de l’Iseràn, vitale linea di comunicazione tra la Maurienne e la Tarantaise. In questo caso furono costruite addirittura vere e proprie piramidi di sassi, cave all’interno in modo che il viaggiatore potesse trovare riparo dalla bufera.

La parola italiana, ometti, si spiega da sola e si riferisce soprattutto alle colonnine di pietra che sorgono sulle vette, simili nell’aspetto ma con uno scopo molto diverso, quale segno di presa di possesso. Di qui deriva anche il nome di Colle dell’Ometto, dove però quello che a grande distanza appare come un ometto di pietre è invece uno spuntone roccioso, che sorge proprio in mezzo al passo. Il termine francese, cairn, è di origine celtica e si ritrova dalla Bretagna alle Alpi Occidentali, nel senso generico di pietra, rupe. Questo termine è ancora ben vivo nel patois di Balme, dove troviamo car (per esempio di Saulera) che indica appunto “dirupi”, càra, che significa “lunga pietra piatta” (per esempio la Cara d’l’Abbà, la roccia levigata dal ghiacciaio sulla quale sorge il Routchàss), senza dimenticare i carrèl, i caratteristici semi della “stipa pennata”, detti anche piumetti o “lino delle fate”, che si raccolgono nel mese di giugno sulle balze rocciose che sovrastano le case di Balme e di Averòle.

Bounòm è il termine usato in bassa valle, quasi a esprimere una gratitudine a quegli ometti di cui ogni montanaro vero riconosce la provvidenziale utilità.

Bounòm “scalfà” a monte di San Berné (Val Grande di Lanzo)

Infine il vocabolo Mongiòia, ancora in uso tra i vecchi di Bessans e di Balme, e che si ritrova un po’ dappertutto nelle Alpi Occidentali (Monjovet, Monjoux, ma anche passo dei Giovi, fino al nostro Pian di Gioé…). Qui siamo in presenza di Giove in persona, o meglio di qualche divinità celto-ligure poi assimilata nel Giove dei Romani, lo stesso Iovi Optimo Maximo cui è dedicata la lapide romana conservata a Usseglio. Il “Monte di Giove” è appunto il cumulo rituale di sassi eretto dai passanti sui valichi, dove ognuno deponeva religiosamente una pietra, devoto omaggio alla divinità del luogo, ringraziamento per la felice ascesa nella speranza di una discesa altrettanto felice sull’altro versante, fino a riguadagnare le terre abitate, lontano da quelle lande inospitali, infestate da fantasmi e demoni, che diventeranno poi, con l’avvento del Cristianesimo, le anime in pena del Purgatorio. Un uso, quello di aggiungere una pietra alla piramide sul valico, che si ritrova anche in altri “luoghi alti” della terra, come le montagne e gli altopiani dell’Asia Centrale.

Passo delle Mangioire (2765 m)

Il famoso Passo delle Mangioire, angusto intaglio che mette in comunicazione il bacino di Bellacomba con il Pian della Mussa, era noto anticamente come Pass d’la Mongiòia, e come tale è ancora ricordato a Bessans, prima che il termine, non più compreso nel suo significato, venisse interpretato in lingua piemontese nel senso di “valico delle mandibole”. Certo dovette giocare la strettezza della spaccatura nella roccia, soprattutto prima degli anni Sessanta, quando uno sciagurato capitano degli alpini lo deturpò facendolo allargare a forza di mine, per agevolare il passo ai muli carichi dei pezzi degli obici. Certo non fu la più grave delle follie della guerra, ma fu comunque una profanazione di un luogo sacro a passaggi millenari, sull’uno e sull’altro versante, dove probabilmente sorgeva una statua di un dio o di un santo. Un idolo o una immagine votiva come la statua lignea emersa dai ghiacci del Collerìn nell’estate del 2004, dottamente descritta da Francio Tracq sulle pagine di Panorami.

Mòngiòje

Religiosità pagana e poi cristiana, radicata nel senso della natura che è proprio degli uomini che vivono ai limiti del consorzio umano, dove l’ambiente è più ostile e la vita più precaria, dove l’uomo si sente più solo e maggiormente ha bisogno di credere in qualcosa o in qualcuno che possa aiutarlo.

Ricordo, in qualche luogo della Savoia, la scritta su un piccolo oratorio di montagna, dedicato alla Vergine, invocata come: “D’un sur chemin infallible montjoie”.

Giorgio Inaudi (da Barmes News n. 26 – luglio 2006)

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Per approfondimenti (link ad altri post su questo blog):

L’impero nascosto

L’impercettibile sussurro delle pietre

Verso il Gran Bernardé

3 pensieri riguardo “Ometti, cairns, bounòm e mongioie

  1. Post molto interessante. Ricordo che da ragazzo con gli scout, una delle prime che si imparava era segnare il percorso con dei sassi, proprio per ritrovare agevolmente la strada al ritorno specie dove il sentiero era appena tracciato. Se ci fosse maggior rispetto per le cose e capire che i sassi non si impilano da soli, sai quanti chili di vernice si potrebbero risparmiare 🙂

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    1. Giorgio Inaudi è davvero molto bravo a divulgare la cultura di montagna.

      Lungo un sentiero purtroppo non sempre sono disponibili le pietre per fare gli ometti… Comunque quando posso li faccio volentieri… soprattutto risistemare quelli che sono un po’ malconci perché qualche pietra è caduta.

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