La Contessa del Lago fantasma

Pian dell'UccelloIl silenzio di questi luoghi dove nulla vive, nulla si muove, dove il fracasso del mondo abitato non giunge… tutto concorre a rendere le meditazioni più profonde, a dar loro quel tono severo, quel carattere sublime ch’esse acquistano quando l’anima plana… sugli abissi del tempo.

R. De Carbonnières

Paologiac a novembre, con Storia e Preistoria a Cantoira, ci ha parlato di presenze megalitiche in Val Grande di Lanzo, precisamente a monte di Cantoira (To), e noi camosci, il 9 di dicembre, ci ritroviamo proprio su quel sentiero 301A che unisce questo Comune con il “Santuario di Santa Cristina in rupe“.

L’idea di fare un giretto nella zona del Dolmen nasce inizialmente da un commento di Gp (blog Ventefioca).

Dopo essermi soffermato sull’estratto della carta n. 8 sulle Valli di Lanzo edita della Fraternali (già segnalata nel post e qui sotto riportata) parlo con paologiac e ci troviamo immediatamente d’accordo su organizzare l’uscita.

C’è qualcosa che mi ha molto incuriosito osservando la zona del Dolmen del rio Combin. Intanto devo dire che è da tempo che avevo in mente di esplorare quel ramo di sentiero che permette di raggiungere il santuario di Santa Cristina da Cantoira. Quando ho effettuato il giro ad anello Ceres-Santa Cristina-Cantoira ho sempre percorso il sentiero 301 per rientrare a Ceres perché più diretto (per maggiori dettagli, qui il post).

Fraternali editore-Carta n.8
Estratto della carta n.8 delle Valli di Lanzo (Fraternali editore)

Il dubbio sulla praticabilità del sentiero 301A (quello che passa da Fontana Combin dove si trova il Dolmen) viene subito dissolto grazie a quanto ha scritto e documentato paologiac nel suo post. Fino a Case Senale (1085 m) non ci sono problemi di percorrenza ed io sono molto curioso di conoscere questo sentiero e questo alpeggio che, studiando la carta, mi invita a proseguire fuori sentiero verso Nord Ovest in direzione di quel vasto pianoro – rappresentato sulla carta da isoipse più distanziate le une dalle altre – presidiato da un piccolo insediamento denominato “Uccello” (1102 m).

Conosco un po’ quel versante all’inverso che so essere boschivo ma non particolarmente fitto. Sebbene non ci sia una traccia di sentiero – da quanto deduco dalla carta topografica – non dovrebbe essere troppo complicato inoltrarsi verso quelle baite visto che si percorre una zona pianeggiante. E comunque, anche se vi fosse la traccia di sentiero, con un po’ di neve tenderebbe a scomparire e quindi largo ai quei pochi ma indispensabili strumenti che mi permettono di fare un po’ di orientamento. La direzione da prendere da Senale è Nord Ovest seguendo, grazie ad un altimetro molto preciso che ho sempre al polso (insostituibile compagno di viaggio che vive di energia solare), una curva di livello avente quota 1080 – 1090 metri.

Paologiac e gli altri amici del blog (ventefioca, flaco, martellot, Donatella e serpillo) sono entusiasti di questa meta che giace appartata al di fuori dei sentieri segnalati dalle carte escursionistiche.

verso senales
Da sinistra: flaco (blog “Vettenuvole”), paologiac e martellot

Prima di dirvi qualcosa di questa bellissima uscita, fatta agli inizi di dicembre in compagnia di persone straordinarie, mi piacerebbe catturare la vostra attenzione sue due aspetti molto curiosi di quest’angolo remoto delle Valli di Lanzo:

– un pianoro – quello appunto rintracciabile a NO di Senale – molto ampio come raramente si incontrano lungo i sentieri, soprattutto a certe quote (circa 500 metri di lunghezza: stima ricavata dalla Carta Fraternali n. 8 in scala 1:25000);

– un toponimo alpino – Uccello – molto bizzarro e che non penso lo si ritrovi in altre vallate alpine (se qualcuno di voi l’ha già notato, è pregato di segnalarmelo).

Per quanto riguarda il toponimo, a dire il vero martellot mi ha fatto giustamente notare che sul versante solatio della Val Grande di Lanzo esiste un alpeggio denominato “Alpe Becco degli Uccelli”, a ben 2530 metri di altezza, adagiato a Sud Est dei Laghi della Fertà (molto probabilmente uno degli alpeggi più in quota di tutte le Alpi Occidentali). Il perché di questo toponimo è però di facile individuazione una volta che si ha l’accortezza di fare un giro da quelle parti e poi di voltarsi all’indietro appena superate quelle baite.

Alpe Becco degli Uccelli
Alpe Becco degli Uccelli (2530 m). Ai confini del cielo.

Quindi martellot, ornitologo di professione, è una presenza più che propizia per tentare di capire l’insolito nome dato ad un alpeggio.

Cosa c’entrano i volatili con un insediamento alpino? Ce ne saranno in abbondanza? Oppure esiste una specie particolarmente rara da quelle parti?

Chi ama scandagliare la toponomastica alpina sa perfettamente che i nomi attribuiti a luoghi significativi per la vita delle genti alpine avevano molto spesso un collegamento con il territorio circostante: il toponimo doveva immediatamente comunicare qualcosa di importante, che tendeva a marcare indelebilmente il luogo per un qualche aspetto significativo.

Ad esempio, per Usseglio (villaggio sito a circa 1200 metri in Val di Viù, il più alto di questa valle), che non cito a caso, Attilio Bonci in Toponomastica delle Valli di Lanzo (pubblicato dalla Società Storica delle Valli di Lanzo nel 2012) ci segnala che:

L’etimo deve rifarsi alla voce celtica uxellos, col valore collettivo di “gli alti”, per indicare gli abitanti dell’alte valle. […]

Usseglio è citato come Uxel nel 1183, Uxellis nel 1188 e Uxeillo nel 1224.

Così, forse, i Celti indicavano i residenti di questo villaggio alpino: “gli alti”.

Nel libretto “Valli di Lanzo” (Toponomastica Bilingue – 2010), si legge:

Usseglio, anticamente chiamato “Uscelli”, viene citato in documenti medievali come “Uxeillo” o “Uxellis”, termine di origine celtica, nel significato di monte alto.

Un’altra ipotesi identifica Usseglio con Ocelum, località indicata dagli storici romani come località di confine con la Gallia Cisalpina. […]

Ho preso il toponimo Usseglio come esempio – nella sua probabile origine celtica – perché è l’unico che potrebbe avere una certa assonanza e che mi è venuto in mente quando ho letto quell’insolito nome sulla carta della Fraternali, ma anche le altre carte escursionistiche delle Valli di Lanzo (come quella edita dall’Istituto Geografico Centrale carta n. 110, o la carta transfrontaliera Mont-Cenis-Ciamarella e la carta n. 3, Val d’Ala e Val Grande, edita dal Cai di Lanzo) indicano “Uccello”.

Usseglio

Avendo con noi un ornitologo, la prima cosa che faccio è proprio quello di chiedergli se secondo lui c’è attinenza con i volatili. La risposta, come c’era da aspettarselo, è ovviamente negativa.

Non è certo questo un caso isolato di trascrizione errata di un toponimo che sicuramente è stato copiato da altre carte (penso alla Carta Tecnica Regionale o alle carte dell’Istituto Geografico Militare). Proviamo solo per un attimo ad immaginare i topografi di qualche tempo fa, magari di origine non proprio francoprovenzale, intenti a ricopiare da antiche mappe i toponimi sbiaditi, forse illeggibili, delle vallate alpine.

Forse voi penserete che queste sono cose di poco conto, praticamente trascurabili. In fin dei conti, per fare un bel giro in montagna, ci basta indossare gli scarponi e scegliere una meta tra le tante individuate su di una carta qualsiasi o magari suggerita dall’amico escursionista del CAI.

Se provate ad aprire una delle carte che ho appena citato, magari volgendo la vostra attenzione verso la Val d’Ala, magari a valle dell’imponente vetta dell’Uja di Mondrone, magari proprio nei dintorni della bellissima borgata di Mondrone, vi accorgerete che c’è un alpeggio che ha un nome davvero curioso: si chiama “i Sardi” ed è situato a circa 1300 metri di quota nel versante solatio.

Estratto carta transfrontaliera Mont-Cenis Ciamarella
Carta transfrontaliera “Mont-Cenis Ciamarella” scala 1:25.000

Spesso mi sono chiesto, scrutando appunto la carta topografica, cosa fossero venuti a fare da queste parti i sardi. Che avessero conquistato la Val d’Ala in epoche remote? O forse c’entra in qualche modo il Regno di Sardegna?

Qualche tempo dopo, grazie a Gian Marco Mondino, che sul bimestrale Panorami (n° 73 di luglio-agosto del 2000) ha scritto proprio di Mondrone con un articolo molto interessante Mondrone, un viaggio nel tempo, scopro che i sardi (intesi come abitanti della Sardegna: sinceramente non conosco altri significati) non c’entrano proprio niente.

Mondino, soffermandosi in particolare sulle muande (e qui, solo su questo termine, potremmo partire per un viaggio senza fine: penso alla stupenda tesi di laurea di Laura Solero ) che attorniano Mondrone, ci racconta (il grassetto è mio):

[…] L’ameno versante a l’adret, compreso tra i rii del Pis (verso Martassina) e del Maian, ospita le “miande” e vastissimi alpeggi. Nelle prime, più soleggiate del paese che in inverno l’astro illumina un’ora al giorno, ricomparendo al mattino solo a febbraio, le famiglie sostavano quanto meno da aprile a novembre, se non tutto l’anno come al Ciampass, compatibilmente con la disponibilità di fieno, coltivando segala, patate e canapa. La principale è il Lajett (1520 m), dove in tempi lontani risedettero fino a 12 famiglie; prende il nome da un piccolo bacino temporaneo poco sotto la miniera di pirite, sfruttata fino ai primi del ‘900.

Le altre, tutte in splendida posizione, sono Caudrè (“noccioleto”), il Ciampass ed i Sart (da “ex-sartum”, terreno dissodato per le coltivazioni). […]

Ecco cosa cela quel nome dell’alpeggio “i Sardi” che tutti possiamo leggere consultando una delle qualsiasi carte escursionistiche in commercio che dovrebbero aiutarci a farci conoscere il territorio delle Valli di Lanzo con i suoi immensi “tesori”.

Questo non è che un esempio di errori (orrori?) grossolani commessi durante le stesure delle carte topografiche.

Ora, partendo proprio dal post di paologiac sui dolmen, di misteri distesi sul versante a l’invers del tratto iniziale della Val Grande di Lanzo ce ne sono quanto bastano per farci girare la testa.

Il Dolmen di Rio Combin
Il Dolmen di Rio Combin (798 m). I dolmen sarebbero riconducibili alla cultura megalitica che trovò la sua massima espressione nel neolitico (3000 – 2500 a.C.)

Abbiamo un monumento megalitico con pochissime informazioni in merito (siamo comunque in attesa di un post di paologiac che è stato dal sottoscritto accompagnato nella tana del lupo, ovvero nella dimora di chi ha studiato i dolmen delle Valli di Lanzo).

Abbiamo un pianoro insolito, appartato, quasi nascosto dagli sguardi distratti degli escursionisti che scendono dal santuario di Santa Cristina.

E poi abbiamo un toponimo bizzarro, estraneo. Alieno.

Tutti questi misteri sono dominati da Santa Cristina, che da lassù soffia echi di “voci” che provengono da tempi lontanissimi.

Tutto passa in questa vita. Anche noi che inseguiamo ombre di selvatico nelle asprezze delle montagne. Ma è vibrante percepire che certe luoghi alti, come la Sacra di San Michele, come Santa Cristina, diffondono, come fari nelle tempeste della nostra esistenza, un senso profondo di eterno. Come colonne dell’anima, questi luoghi dal vigoroso sapore di roccia e cielo, tramutano il nostro fragile e traballante incedere in passi fermi e decisi lungo il corso della nostra vita.

Santa Cristina
Il santuario di Santa Cristina (1340 m; in alto a sinistra) visto da Cantoira

Al termine di questa affascinante escursione, che ci ha condotto ai confini del domestico e dell’intelleggibile, per noi umani alieni in terra alpina, per noi che giungiamo da altri mondi, ci chiediamo chi si occuperà di raccontare il tutto qui, su queste montagne virtuali.

Mi tocca il compito. All’unanimità vengo scelto come colui che dovrà raccontare una storiella “da quattro amici al bar” che si ritrovano, dopo un caffè mattutino, alle prese con un territorio alpino che pulsa di voci lontane, avvolte da un velo di bianco, come questa neve che tutto ha ricoperto.

Era il nove di dicembre, e ora sono qui a cercare di scrivere qualcosa su quelle recondite pendici del Monte Rosso. Cima questa che, sebbene più alta, quasi si dissolve di fronte all’altezza della rupe dove sorge Santa Cristina.

Avrei voluto postare già da tempo in merito a questa uscita, anche semplicemente in segno di ringraziamento verso gli amici che hanno colto al volo l’idea di quest’escursione nell’ignoto. Anche per il fatto di averli tirati giù dal letto durante una fredda mattina dicembrina.

Verso Senale
Verso Senale sul sentiero 301A

Eppure qualcosa mi ha sempre bloccato. C’era qualcosa che mi diceva che non era ancora giunto il momento di parlare del Dolmen di Cantoira e di un sentiero che conduce negli oscuri aspetti delle montagne.

Qualcosa ronzava nella mia anima. Qualcosa mi suggeriva che non avrei saputo rendere giustizia ad un luogo magico e sfuggevole.

Nei meandri delle Alpi alcuni luoghi parlano terribilmente per chi ha orecchie per ascoltarli. Sovente mi sento come trapassato dall’eco dei millenni. I paesaggi che si srotolano davanti ai miei occhi, parlo soprattutto di quelli segnati dal lavoro delle genti alpine, imbevono la mia anima assorbendoli lentamente come una spugna che si immerge nell’acqua. E iniziano a lavorare dentro.

Penso sia difficile spiegare cos’è l’empatia verso il territorio. E’ come un cortocircuito che si innesca quando i propri sensi e il mondo circostante si compenetrano, confondendosi gli uni con gli altri. E’ una frazione infinitesimale di secondo, come un scatto rapidissimo di una fotocamera, che sa cristallizzare il brivido di un istante, di un frammento del nostro mondo alpino che rigurgita di infiniti racconti.

C’è qualcosa di magico e di soprannaturale nel paesaggio collinare che s’insinua nella mente e nei sensi. Si dimentica tutto, si dimentica perfino il proprio essere: non si sa più dove ci si trova” (Da “Cime Misteriose” di Fergus Fleming nella sua citazione de La Nouvelle Héloïse romanzo pubblicato nel 1761 da Jean-Jacques Rousseau).

E’ come una luce affilatissima, tagliente, che si infilza tra i tuoi sensi illuminandoli. Senza che ti accorgi di niente. O quasi.

C’è un paesaggio, osservato proprio lassù, tra quei due mondi lavorati dall’uomo che è rimasto indelebilmente impresso nella mia anima. E quando l’altro giorno mi sveglio, ancora imprigionato dai mondi onirici, mi ritrovo quel rapidissimo scatto di mondo perduto mentre mi proietto nella realtà mattutina, nella quotidianità dei nonluoghi.

Forse è un lago. Quel pianoro, stretto dalla morsa di quei due minuscoli insediamenti, forse ospitava un lago. Quel luogo mi parla attraverso le vie ad altissima velocità del mio inconscio.

Il terrazzamento pleistocenico

Le foto che ho fatto durante l’escursione sono ancora stipate nella fotocamera digitale. Alcune di esse lo sono anche nel mio inconscio.

Scarico le foto sul pc, gli do un’occhiata veloce. Mi accorgo, tra i 240 scatti, che ce ne sono anche un paio che riguardano la piccola bacheca che si trova all’inizio del sentiero 301A. Spesso mi capita, per risparmiare un po’ di tempo, di non soffermarmi a leggere. Tanto, dico io, faccio una foto che poi mi godo con calma a casa (ma in questo caso la verità è che era più interessante distrarsi perdendosi nelle chiacchiere di una magnifica compagnia).

Questo pannello esplicativo, che abbiamo incontrato in partenza, è dedicato al Monte Rosso (quello che rimane in “ombra” rispetto all’imponenza della rupe).

Quella bacheca è il primo “indizio”. Nel frattempo, mentre la mia mente mi proiettava un probabile lago (ma di che epoca?), un libro (il secondo “indizio”) giace tra gli interstizi frenetici della mia vita cittadina, mentre rincorro i bus per andare al lavoro, mentre rimango compresso dai ritmi delle pianure metropolitane che non permettono all’anima di respirare. So che in quel libro, si parla anche di Santa Cristina.

Ma ecco cosa ci racconta la bacheca all’inizio della nostra piccola esplorazione:

L’estrema propaggine orientale della costiera di spartiacque tra la Val Grande termina con l’elevazione di Santa Cristina 1348 m. Se risaliamo brevemente con gli occhi questa costiera verso monte, si delineerà tra le sue forme arrotondate una zona dal profilo decisamente pianeggiante: il Pian dell’Uccello.

Si tratta di un terrazzamento di origine morenica, deposto dalle glaciazioni pleistoceniche, la cui morfologia lascia presupporre che un tempo ospitasse un lago di origine glaciale, poi colmatosi. […]

Quindi il primo indizio ci dice che probabilmente il “Pian dell’Uccello” ospitava un lago. E in effetti le sembianze attuali sono proprio quelle che richiamano le torbiere che in genere si formano proprio quando i laghi si estinguono (la fine che prima o poi toccherà a tutti i laghi stupendi che oggi possiamo contemplare lungo i nostri sentieri).

La bacheca anonima
La bacheca sul Monte Rosso e il “Pian dell’Uccello”

Questa bacheca, pur trasmettendoci importanti informazioni scientifiche, non ci spiega però l’origine di quel toponimo. Forse non sarà così importante? Forse, nella “lettura” di un luogo alpino, dalle molteplice valenze, è trascurabile?

L’ornitologo che ci accompagna (anche lui esponente di una scienza) ci informa che “Uccello” non ha alcuna attinenza con questa area alpina.

Il tempo passerà ed io non riuscirò a tirare giù il post. Ho solo un indizio per un toponimo buffone.

L’escursione si dimostrerà alquanto soddisfacente. Dopo aver esplorato, e poi immortalato, Case Senale, nella loro desolante trascuratezza, mi diverto ad usare carta, bussola ed altimetro per disegnare idealmente nella mia anima una “via” verso l’ignoto.

Interno di una baita di Senale
Interno di una baita di Senale (1085 m). Il tempo pare cristallizzato sulla scena di un “crimine”

Noto che le tracce di sangue che incontriamo fin dai primi passi del nostro giro, continuano anche  verso Uccello, accompagnate dai passi di probabili cacciatori che si sono inoltrati vero il nostro pianoro durante la loro battuta.

Non bado più di tanto a quelle orme ma sto soprattutto attento a camminare a quota 1080-1090 metri utilizzando la tecnica di orientamento denominata “marcia a quota costante” che suggerisce, se il terreno lo permette, di seguire fedelmente una isoipse, identificata sulla nostra carta, che mi dirige, come fossero dei binari, verso la meta scelta per la nostra insolita domenica.

I miei compagni di escursione proseguano in ordine sparso, seguendo qualche traccia o, forse, semplicemente il loro istinto.

L’ambiente che ci viene incontro è molto affascinante, si respira odore di mistero tra questi boschi che risaltano sul bianco della neve che, come un tappeto, ricopre la terra sotto i nostri scarponi.

Ombre e bianco celano i miesteri delle montagne

Ci sono opere straordinarie, come i muretti a secco, che non si comprende se siano delle canalizzazioni o semplicemente delle vie per instradare le bestie verso i pascoli. L’area del piano che si estende ai margini, verso il fondovalle, è recintata da muretti di pietra, come a delineare un confine.

muretti di pietra

Percorriamo, in senso longitudinale, tutto il pianoro, dove ogni tanto rischiamo di trovarci immersi nell’acqua, ma non c’è traccia della nostra muanda. Dov’è?

Ripenso a quella voce celtica uxellos.

“Gli alti”.

Forse, confrontando la quota di Uccello (che secondo la carta Fraternali, è posto a 1102 metri di quota) con quella di Usseglio (1200 metri circa), possiamo pensare che anche in questo caso l’origine sia la medesima? Due luoghi alpini dove risiedevano “gli alti”?

Mi trovo incoraggiato a sposare quest’ipotesi anche pensando agli indizi che si rintracciano nel versante solatio, proprio di fronte a noi, dalle parti di Vrù (1039 m) dove è probabile che ci fosse un insediamento di origine celtica. Addirittura in una antica carta c’è un toponimo “Dri” che attualmente è scomparso. Quell’etimo significa “bosco di querce” ovvero il luogo prediletto dalle popolazioni celtiche per riunirsi a celebrare i loro riti pagani.

In questo fiutare di tracce, non gioca di certo a mio favore però il fatto che Usseglio è un luogo alpino che si trova nell’alta valle di Viù, a differenza di questo minuscolo ed insignificante puntino perso tra le pieghe della carta topografica e situato nella bassa Val Grande.

Continuiamo a seguire i resti dei manufatti delle genti alpine ma soprattutto continuo a stare dietro a Ventefioca che mi accorgo essere molto convinto del suo fiuto. Tra i boschi non riusciamo ad intravedere alcuna baita. Eppure i segni di un insediamento alpino non mancano: sono dappertutto intorno a noi.

E infatti non trascorre molto tempo.

“Ecco, guarda lassù” sussurra Ventefioca, quasi a non volere spaccare il silenzio che regna alle pendici del Monte Rosso. Un silenzio condito da qualche cinguettio, come sei quei piccoli volatili intendessero confermare quel toponimo così colorito che oggi ci stava quasi sfuggendo in questo azzurro precipitato dal cielo, atterrato tra l’abbraccio oscuro del bosco.

Ventefioca fiuta la preda

Le case di Uccello si trovano effettivamente più in alto rispetto al piano (quel tanto che basta per ripensare ad uxellos), come volessero dominarlo. Perché quella posizione alta? Noto che prendono più sole rispetto a dove siamo noi, più in basso, ma sarà solo questa la ragione di quella sistemazione?

Uccello

Anche in questo caso, purtroppo, ritroviamo la desolazione di alpeggi abbandonati da tempo. Mentre mi soffermo sugli interni delle baite, come se stessi osservando scene di un crimine, Gp si spinge oltre l’insediamento. Al suo ritorno sapremo che ha incontrato un bel pilone votivo dedicato alla Madonna (mentre tutti gli altri che si incontrano sul 301A sono dedicati a Santa Cristina).

baite di Lussel
L’interno delle baite (foto di paologiac)

Intanto Flaco (blog Vettenuvole) si spinge ancora un poco oltre, per continuare a seguire le orme insanguinate. Al suo ritorno sapremo dove finivano le macchie di sangue e perché. In verità da lì iniziavano la discesa verso Cantoira.

Pilone di Uccello
L’unico pilone della zona dedicato alla Madonna (Foto di Gp, blog Ventefioca)

La sua faccia esprime perfettamente la scena macabra che gli si è presentata davanti: il macello di un cinghiale avvenuto non molto tempo prima.

Ma di macello ne ho un altro che gira nella mia testa. Le “tracce di sangue” di un luogo giacciono un po’ dappertutto, perse nel terribile ed onnipotente oblio che oggi divora tutto, come un sconfinato buco nero: davanti a noi si palesa una “scena del crimine”. Il “corpo” è ovunque intorno a noi, come materializzato all’istante in questa giornata tardo autunnale imbiancata di silenzio.

Il corpo immobile, inerte, giace anche sulle carte che stanno nel nostro zaino. Lo trovi anche nel fondovalle, appena parti per decollare verso gli ambienti antropizzati delle Alpi: quelli in cui ci si imbatte in quota. Dal basso, osservando le montagne, sembra tutto uniforme: una macchia scura, quasi nera, avvolge il versante nord di questa propaggine iniziale della Val Grande di Lanzo.

Non c’è niente, verrebbe da pensare. Solo foreste spoglie, in configurazione autunnale. Boschi che attendono il silenzio di copiose nevicate che tutto nasconderanno, anche le tracce dell’ignoto, le orme della nostra ignoranza generata dalla supponenza della civiltà di pianura. Orme che luccicano tra le pieghe di queste rocce, tra i meandri delle vallate.

Passa, intanto, il tempo e, sebbene pochi giorni dopo l’uscita avessi annunciato agli amici che avrei scritto il post, continuo a percepire una resistenza dentro di me. Come un freno.

Scoprirò presto il perché, come se delle forze soprannaturali stessero apparecchiando il tavolo sui cui poter posare i miei interrogativi.

C’è un libro che attende di rilevare i suoi di indizi. Si chiama I luoghi delle certezze scritto da Piercarlo Jorio e Ariela Robetto pubblicato nel 2003 dalla Società Storica delle Valli di Lanzo.

L’ho inseguito da tanto tempo e solo qualche settimana prima della nostra uscita (quando non era ancora immaginata) ne vengo finalmente in possesso grazie alla mia cara amica Laura Solero, vice presidente della Società Storica delle Valli di Lanzo, a cui sono molto grato per il sostegno che mi ha sempre offerto per aiutarmi a rispondere alle mie curiosità culturali che spesso nascono proprio grazie all’escursionismo. Non ho indugiato a immergermi nella lettura che prosegue con calma, senza fretta, sapendo che prima o poi incontrerò il pensiero di Ariela Robetto sulla nostra zona dominata dal santuario di Santa Cristina.

Trovo che certi libri sono come delle droghe, capaci di sopire le inquietudini che l’ignoranza mi genera. Le domande che sorgono in certi momenti di escursionismo, così come nella vita di tutti i giorni, mi trascinano in un vortice di estraneità, come se mi trovassi fuori posto, sebbene abbia imparato anche a scalare le montagne.

superare la soglia

Ma tra lo scalare “fisico” e quello smaterializzato, rappresentato dai percorsi verso le alte vette della conoscenza, lo sforzo che cerco di compiere certo non si adombra in rapporto alle cime delle montagne.

Quasi un percorso di sublimazione verso la comprensione più profonda del mondo che si dipana anche lungo sentieri che, se percorsi con il desiderio di rintracciare la cultura alpina, sanno spalancarci orizzonti infiniti.

Certi autori, poi, come Jorio e Robetto, se parliamo in particolare delle Valli di Lanzo, sanno iniettarti visioni alpestri che stravolgono qualsivoglia certezza maturata in decenni di irregimentazione urbaoncentrica. E allora, piano piano, ci si accorge che il centro, con un lento ma inesorabile moto (interiore?), muove dalla pianura verso le montagne. Ed è così che succede qualcosa di magico, quasi una rivoluzione: il nostro sguardo, quello che cresce e si cristallizza nelle città, dove sembra che tutto nasca e muoia, si amplia racchiudendo anche quello che è possibile manifestare mutando semplicemente il punto di osservazione.

Ecco il libro: “I luoghi delle certezze – la sacralizzazione del territorio nelle Valli di Lanzo”.

Già il solo titolo rappresenta un biglietto di solo andata. Ci sono parole, in quel titolo, che amo e che messe insieme catturano la tua anima per destinarla verso luoghi altri, verso luoghi alti, luoghi che appartengono da tempo immemore all’umanità, anche quella più distratta.

In quel libro si parla di luoghi.

In quel libro si parla di sacro.

In quel libro si parla di territorio.

Lussel

Tra parole per un viaggio. Tre parole per ripiombare violentemente sul Pianeta Terra e sprofondare così nello spaesamento prodotto dalle istanze globalizzanti senza limiti, schizzate ad altissima velocità verso scenari collassanti.

Tre tasselli della nostra esistenza. Tre tasselli dispersi nei vortici del nulla.

Fare un’escursione significa prendere contatto con “luoghi” siano essi rappresentati da modelli alpini sostenibili creati dai loro abitanti, lungo secoli di adattamento, siano essi generati dalle visioni alpinistiche, che mirano alle dimore dell’ignoto e dell’inutile.

Il nostro piano visto dalla località Seiteve (versante opposto)
A mia insaputa, durante l’uscita sulla “Vi ‘d Miculà”, immortalo il nostro luogo (il terrazzamento e, a destra, il Monte Rosso; foto presa dalla località “Seiteve”)

Fare un’escursione significa anche tentare di intercettare il profondo senso del sacro che le antiche popolazioni alpine generavano grazie a tutta quella serie di dispositivi mentali che hanno permesso loro di sopravvivere in ambienti duri, difficili e severi.

Il santuario di Santa Cristina in rupe
Il santuario di Santa Cristina in rupe

Fare escursionismo significa anche e soprattutto riappropriarsi del territorio, non “visto” semplicemente come un oggetto utile esclusivamente a generare denaro ma soprattutto inteso come immenso contenitore di messaggi vitalistici.

Il nostro piano
Lussel

Immaginatevi quale e quanta meraviglia, quasi commuovente, emerge dal profondo delle oscurità quando, nel capitolo “Il santuario di Santa Cristina in rupe”, Ariela Robetto racconta (pag. 99; attenzione a visualizzare le fondamentali note a piè di pagina che, per praticità, ho inserito in un file in pdf: basta cliccare sul numero corrispondente per leggerle; il grassetto è mio):

[…] L’acqua è un altro elemento strettamente connesso alla figura di Cristina. La tradizione riferisce infatti che era originaria di Bolsena e che lo snaturato suo padre, nonché carnefice, in una delle fasi del martirio la fece gettare con un macigno al collo nelle profonde acque del lago da cui tuttavia l’arcangelo Michele la trasse viva.

Un lago esiste anche nel territorio prossimo alla rupe, anzi esisteva, poiché a metà Ottocento fu prosciugato con un sistema di canalizzazione al fine di ricavare terreni da coltivo (23). Ancora oggi la conformazione fisica e la vegetazione lasciano trasparire l’origine lacustre della conca, incassata ai piedi delle rocce scure e ferruginose del Monross. Al Lussel (24) (questa è la denominazione del luogo) è ancora visibile un masso che i caintoiresi chiamano la careja do diao: allora stava sul bordo delle acque e la leggenda racconta che su di esso sedeva “la contessa” o, in altra versione, “la signora bianca che era una fata” per sorvegliare i suoi schiavi che estraevano l’oro dei creus (miniere) scavati nella montagna (25). […]

Eccolo il nostro toponimo.

Lussel sulle carte topografiche è diventato Uccello.

Riporto qui l’importante nota a piè di pagina (la n. 24):

Il toponimo Lussel, attribuito anche al territorio circostante l’antico lago, nonché ad un alpeggio prossimo ad esso, contenente la radice lus, sembrerebbe ricondurre all’acqua così come i làus occitani e i laux francoprovenzali che parrebbero derivare dal latino lacus. Cfr. P. L. Rousset, Ipotesi sulle radici preindoeuropee dei toponimi alpini, Ivrea, 1991, p. 95.

Ariela Robetto continua così:

“Questa figura leggendaria (che ritorna anche in un racconto di Mezzenile, dove assume il nome di Madama la Bianca (26)) pare affine alle fate medievali spesso chiamate le “Signore bianche” o le “Donne bianche” (27), frequentemente connesse alle acque dei fiumi e dei torrenti, ai laghi, alle sorgenti, le quali parrebbero collegate senza soluzione di continuità alle “antiche dee madri venerate in tutto il Medioriente e nell’Europa orientale sin dal neolitico” (28). La mente corre immediatamente al ciclo arturiano, alla Viviana della leggenda di Merlino che diventerà la Dama del Lago, iniziatrice ed educatrice di Lancillotto, e a Melusina, la donna-serpente, personaggi relegati nel mondo fantastico dal formarsi della mitologia cristiana tra il XII e il XIII secolo, ma che riconducono all’ambiente celtico-gallico e all’unica grande divinità femminile della sua religione, avente funzione di madre, figlia, sposa, sorella degli dei: quella dea che Cesare identifica con Minerva la quale insegnò i rudimenti dell’arte e della tecnica (29). Il suo culto lasciò tracce nella Brigit irlandese, denominata Belisama (30) in Gallia, la quale acquisì denominazioni diverse con il trascorrere del tempo e si riconobbe anche in Boinn letteralmente Bo-Vinda, la “Vacca Bianca”: il nome appariva del tutto normale in una società di pastori che commisurava la propria ricchezza ai capi di bestiame. In questo senso Boinn rappresentava la prosperità e il colore bianco (unita all’idea di bellezza e di razza pura) rafforzava la sua funzione. Con il trascorrere del tempo ella scompare come Vacca Bianca, cioè come idea di fecondità, ma riappare in un altro testo mitologico irlandese come antenata di lignaggio reale, con il soprannome di Bé Finn la “Bella Signora” o la “Signora Bianca” (31).  Con l’affermarsi del cristianesimo si operò una piena sconfessione delle fate e il loro culto, unito a quello delle antiche deœ matres, nonché di tutte le divinità pagane, subì la trasformazione in devozione ai Santi: in Irlanda Brigit viene cambiata in santa Brigida vergine di Kildare, patrona dell’Irlanda con san Patrizio (32). Spesso le fate lasciano il posto a Sante scivolanti nel leggendario come Regina di Alesia, Némoise con la sua zampa d’oca, Radegonda, la sposa maltrattata, Margherita di Antiochia, Marta e il drago di Tarascona, le Saintes-Maries provenzali con la loro barca di pietra…; il più delle volte è la Vergine Maria a succedere alla fata (33).

Se ci spostiamo dall’ ambito celto-gallico a quello germanico, che pure ha lasciato molte tracce nelle vallate alpine, la credenza nelle fate, le quali nelle Alpi Graie corrono nottetempo su carrozze di vetta in vetta e danzano nei pressi dei laghi, potrebbe essere collegata alla dea Bercht o Berta, splendente di vivida luce, che passa sulle montagne come una cometa in determinati periodi dell’anno, figura di cui si conserva viva memoria nel Tirolo, nelle Alpi austriache, ma anche in quelle svizzere. Essa riveste funzioni agrarie: nelle vallate svizzere si racconta che durante l’inverno regna sottoterra, dove si trova anche il suo gregge, ma a volte sale alla superficie per spargere semi di segale sui campicelli di montagna. Fra il Reno e l’Elba ella si trasforma nella dea Freya da cui, nel Walhalla, dipendevano la pioggia, la luce del sole, la fertilità della terra. Nelle Alpi Retiche, dalla dea Percht deriva una Dama Bianca la quale durante le feste solenni appare ai bimbi nati di domenica, assumendo il ruolo della fatamadrina (34).

La figura della Signora Bianca che siede presso il lago potrebbe ancora risalire a quelle fate accomunate a un genio acquatico, espressione antropomorfa del numen che si crede abiti il luogo: tuttavia il carattere sincretico di queste creature ha conferito loro una specificità così forte da occultarne l’origine. In questa sede pare interessante rilevare come, sovente, le dame dell’acqua sembrino strettamente attinenti alla fertilità (35) e alla custodia di tesori nascosti nel lago o nelle profondità della montagna.

La “Contëssa” del Lussel presenta alcune caratteristiche che la identificano con le fate-regine delle montagne (ella sorveglia gli schiavi che estraggono oro dalle sue miniere) e con i numerosi spiriti femminili acquatici, guizzanti nelle leggende alpine, che non si allontanano mai dall’ acqua dove hanno il loro regno.

Come tutti i geni topici del paganesimo parrebbe essere stata equiparata a un demone: non dimentichiamo che i minatori sono suoi schiavi e che ella siede su un micascisto riconosciuto come “sedia del diavolo”.

Le figure della Brigit irlandese, la Belisama gallica che ebbe culto dalle Alpi Marittime alle Pennine, della Bercht del Tirolo e della Berta svizzera, presentano caratteristiche comuni che le unificano in una Grande Madre della fertilità e della fecondità; tutte inoltre paiono essere confluite nella figura emblematica di Bianche Signore, a volte benevole, a volte malefiche, che popolano le montagne, i boschi e le acque. […]

Un’ultima osservazione. Ariela Robetto accenna alla leggenda di Merlino. Notare che Massimo Centini in L’Uomo Selvaggio, antropologia di un mito della montagna (Ivrea, 2000; ne avevo parlato in questo post) sostiene che:

[…] Indubbiamente la figura del mago Merlino, così come si delinea attraverso la letteratura arturiana, appare come una tra le più significative incarnazioni medievali del mito dell’Uomo Selvaggio. Ad esempio, come l’Uomo Selvatico anche Mago Merlino è considerato un profeta: caratteristica ricorrente nei miti che la tradizione popolare ha creato intorno alla creatura silvestre. Così Girardo di Cambria (1147-1222):

«il secondo Merlino proviene dalla Scozia. Era una chiamato anche Silvestro, perché una volta, durante uno scontro armato, guardando in aria vide un orrbile mostro: allora impazzì e si andò a nascondere nella foresta, dove trascorse il resto della vita come uomo selvaggio dei boschi. Si dice che abbia fatto più profezie del suo omonimo»

Spero, con questo post, in cui sono confluti casualmente, nell’arco di poche settimane, diversi tasselli di un mondo alpino misterioso e bistrattato, di aver conferito dignità ad un luogo che, se “visto” superficialmente e distrattamente, rischia di cadere nella banalizzazione, quella banalizzazione che oggi impera su ogni intento dell’agire umano.

L’Escursionismo ci può aiutare a sfuggire da questa terrbile trappola della nostra epoca.

22 pensieri riguardo “La Contessa del Lago fantasma

      1. Letto finalmente, e da rileggere… Mi associo ai complimenti di flaco, hai messo assieme in modo armonioso ed intrigante più e più cose che ritornranno nei pensieri. Concedimi di citare il Bardo ed il suo Amleto
        “Ci sono più cose in terra ed in cielo, Orazio, di quante ne possa spiegare la tua filosofia” Le pieghe del tempo che non torna e dello spazio invaso dal bosco celano sempre di più antiche tracce alla filosofia arrogante del momento.

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  1. Enciclopedico. Beppe, sei un filologo!
    Un viaggio non solo tra i monti, ma anche tra le parole. Le parole nascondono significati, la loro vita, mondi che non è facile scoprire. Quando li scopri, scopri un universo nuovo. Chapeau.

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    1. Troppo buono flaco!

      Questo post voleva anche essere un ringraziamento a voi, che avete accettato questa piccola grande escursione.

      Ci terrei comunque a sottolineare la casualità di certe “scoperte”… quasi come ci fossero degli “spiriti” dei boschi che ci hanno fatto incontrare… così come è accaduto anche con altre persone che mi hanno permesso di comprendere maggiormente questo bellssimo ed affascinante territorio alpino.

      Penso soprattutto alla sig.ra Anna Barocelli (figlia del grande prof. Piero Barocelli) e a suo marito, il prof. Adalberto Donna D’Oldenico, che ha studiato i dolmen delle Valli di Lanzo, e che con estrema gentilezza ci hanno ospitato nella loro dimora.

      Ma se dovessi ringraziare tutte le persone che, direttamente o indirettamente, mi hanno aiutato, allora l’elenco sarebbe davvero lungo.

      Un grosso ringraziamento va sicuramente al CAI, e alla precedente Commissione per l’Escursionismo della Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta, per avermi indicato la “via”.

      Il tuo bellssimo complimento forse mi sta facendo capire che sono sulla giusta strada.

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    1. Dopo una bellissima escursione, anche se breve, in ottima compagnia, un post che lascia senza fiato. Ho dovuto leggerlo due volte per assorbire la miniera di informazioni che ci hai riversato. Complimenti per la pazienza, lo studio e la passione (ed anche il tempo) che hai impiegato per tutto questo. Questo significa amare la montagna!!!

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      1. Penso che un piccola grande escursione può farsi anche grazie ad una comunità di appassionati di montagna vera e di cui tu ne fai parte a pieno titolo.

        E infatti è stato il post “Storia e Preistoria a Cantoira” l’origine di tutto…

        Quindi, grazie a te che hai voluto far parte di questa comunità virtuale che è davvero “ricca”.

        E’ una grande cosa!

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  2. Ho letto tutto l’articolo e visto le foto, è molto interessante quanto avete scritto. Io ho la baita ai Monti di Mezzenile. Tempo addietro (nel 2008) mi recai a fare una passeggiata alla Cappella di San Michele, nel pianoro che precede la salita all’Uja di Calcante e dove ogni anno si svolge una festa, mi sembra verso settembre. Ebbene, lungo il sentiero boschivo che segue la cresta fotografai una pietra in una posa curiosa e scherzai con mio fratello esclamando “Uao, un dolmen!”, ci ridemmo su, ma ora ho visto la foto da voi postata e l’ho confrontata con la mia e mi sembrano veramente molto simili. Due pietre verticali che formano una fessura (anche se sono adagiate obliquamente sul versante, come se i moti del terreno le avessero fatte scivolare) e un lastrone spesso una 70ina di cm, lungo circa 1,5 m e largo circa 90 cm coricato perfettamente in orizzontale sopra di esse…prima pensavo fosse semplicemente uno scherzo della natura, un’azione dovuta al tempo e alla formazione del terreno, ma ora mi rendo conto che non è una posa per nulla naturale! Come ci è finito quel pietrone sulla punta della roccia? Chi aveva interesse a posizionarlo in quel modo? Perchè nessun abitante della valle ha mai pensato di utilizzarlo per ricavarne, ad esempio, delle lose, vista la posizione agevole sul sentiero e le dimensioni? A differenza del vostro articolo, questo lastrone non si trova su un pianoro (il pianoro è infatti più avanti e poco sotto di esso c’è l’antico sentiero che scende in val di Viù), ma lungo il sentiero. Suppongo che un tempo la zona non fosse così boschiva e che quella cresta dovesse essere molto panoramica, poichè si affaccia sulla valle di Viù e dalla quale si vedono bene i Tornetti, Viù e Pialpetta. Purtroppo questo è solo un commento, altrimenti avrei sicuramente inserito la mia foto, ma vorrei aggiungere ancora una cosa: ricordo bene che quando ero bambina talvolta interpellavo gli anziani del paese su come si viveva una volta lassù e ricordo che un giorno chiesi al mio vicino di casa come mai, per ricostruire la frazione bruciata dai Nazisti nel ’44, fossero andati a cercare le pietre in mezzo ai boschi, quando dietro casa c’erano diverse rocce a cui poter attingere. Le rocce a cui mi riferivo erano denominate Roc. Una semplicemente così, il “Roc”, l’altra si chiama Roc du Croass (chiedo scusa, ma non conosco il nome in francoprovenzale), che significa appunto “Roccia delle cornacchie”, o “dei corvacci”. Queste rocce, che sembrano essere grandi massi erratici, non presentano sembianze da Dolmen, ossia sono semplici roccioni senza massi orizzontali posti sulla punta, ma mi colpì la risposta del mio vicino, che mi disse che i loro genitori non volevano che si toccassero quelle rocce (e non certo per una questione di possedimenti, perchè il terreno su cui si ergono non è nemmeno di loro proprietà). Gli chiesi perchè, ma lui mi rispose che sua madre gli rispose che le era stato insegnato così dai propri genitori. I nonni del mio vicino gli dissero che a loro volta era stato insegnato loro così, ma ovviamente, come lui stesso mi disse, a quel tempo non si usava chiedere il perchè delle cose ai propri genitori, se una cosa non si doveva fare, non si faceva e basta. E’ evidente che dietro a tutto questo c’era in origine un significato sul perchè quelle rocce non andavano toccate, ma il silenzio dei nostri avi verso i propri figli deve aver fatto finire questo significato nel dimenticatoio…

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    1. Buongiorno erica,
      lascerei altri interventi esplicativi a ariela, beppe e altri più esperti di me nella storia dei luoghi. Per parte mia ti voglio ringraziare perchè il tuo intervento ha suscitato – in me – idee e sensazioni particolari. La riluttanza e il diniego a utilizzare materiale a portata di mano, a introdursi in aree e ambiti “fuori” dalla banale comodità di tutti i giorni sono aspetti intriganti e misteriosi. Nel linguaggio degli antropologi si definirebbero “tabù”, ovvero azioni vietate a motivo di una qualche causa che sfugge – ora – ai normali ragionamenti di tipo utilitaristico. Grazie per la segnalazione e la testimonianza.
      Gp aka ventefioca

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  3. Sì, il posto dove vado è davvero molto particolare. Naturalmente ho sbagliato a scrivere il nome del paese che si vede da quel sentiero, non Pialpetta (che è da tutt’altra parte), ma Polpresa.
    Comunque se qualcuno di voi ha un indirizzo e-mail posso inviare la foto del suddetto masso, in modo da sapere se realmente ho fotografato un piccolo Dolmen o se esiste una spiegazione geofisica a quella conformazione 🙂
    Una cosa che mi ha sempre interessato molto è quella di costruire una mappatura di questi Dolmen, in modo da capire se formano un disegno particolare, o sono in una posizione rilevante rispetto al Sole e ai pianeti, oppure ancora se erano tappe di un sentiero di pellegrinaggio o cose simili, insomma.

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    1. Erica, dovresti contattare il responsabile di zona della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte:
      http://archeo.piemonte.beniculturali.it/index.php/it/

      Se noti, attualmente il link “Responsabili di zona” non sembra funzionante. Puoi comunque contattare il centralino e chiedere chi è il Responsabile e farti dare l’indirizzo di mail a cui trasmettere le foto della struttura dolmenica.

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  4. Aggiornamento di maggio 2014:
    E’ stato ripulito e segnalato dai volontari della commissione sentieri del CAI di Lanzo un giro ad anello che parte dal dolmen di Cantoira (ora descritto da una apposita bacheca), passa per Senale, Uccello e ritorna al dolmen percorrendo un tratto che era ormai dimenticato e praticamente scomparso.

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