Scartablàri d’la modda d’Séreus (Valàddeus eud Leuns)

copertina vocabolarioPresso una gremita Sala Consiliare del Comune di Ceres (TO) gli autori Diego Genta Toumazìna e Claudio Santacroce – insieme al Sindaco Davide Eboli – hanno presentato sabato 27 aprile il volume dello Scartablàri d’la modda d’Séreus (Valàddeus eud Leuns) – Vocabolario del Patois Francoprovenzale di Ceres (Valli di Lanzo).

La lingua è viva ed in continuo movimento. Mi piace paragonarla ad una sorgente:  sgorga pura ma prima di giungere alla foce si contamina.

Questo vocabolario è la base di partenza per fissare vocaboli magari in disuso o dimenticati e parlati solo più da qualche anziano del paese.

Tramandare il patois non è una lotta contro il tempo, la contaminazione esiste.  Prima dal piemontese e dall’italiano e poi, chissà, le prossime saranno il cinese ed il rumeno o l’arabo a contaminare questa parlata.

In nome di un’unità nazionale e quindi di un’unica lingua, non si insegnava ai piccoli il proprio dialetto per paura che, giunta l’età scolare, questi non sapessero parlare correttamente l’Italiano.  Diversi studi dimostrano, invece, che i bimbi avendo a disposizione più codici linguistici (ad esempio il dialetto e  l’italiano) apprendono più facilmente anche altre lingue.

Io stessa ne sono stata un esempio. I miei genitori ed i miei nonni non mi hanno insegnato il piemontese ma l’han sempre parlato con me e con i miei parenti. In prima elementare, la maestra sig.ra Bianco, diede alla scolaresca il compito di disegnare una quercia. Io disegnai un cuvercc azzurro! (un coperchio delle pentole) altro che albero!

Il franco provenzale o arpitano (patois in dialetto) rientra nelle lingue minoritarie tutelate e riconosciute dalla legge italiana e viene parlato in Francia.

Qui riporto un nostro post precedente con un interessante e chiaro articolo di Giorgio Inaudi.

Speriamo che altri comuni seguano l’esempio di realizzare il proprio vocabolario! (anche se il più delle volte i vocaboli, da paese a paese, sono uguali ma pronunciati in differente maniera).

***

èrba d’li tchamoùs (hèrba de les chamôs), fiton. m. s./pl. (erba dei camosci), Festuca ssp.

9 pensieri riguardo “Scartablàri d’la modda d’Séreus (Valàddeus eud Leuns)

  1. Si e no. I dialetti son belli, son coloriti, ma restano legati a piccoli territori. Mantenerli vivi è una bella cosa, ma pensa alla fatica di capirci (perchè alla fine ci capiremmo) se io scrivessi in siciliano e tu in piemontese, altro che google traslator che ci vorrebbe, a parte il fatto che il mio dialetto è vecchio di quasi 40 anni e già mia nonna non mi capiva sempre vent’anni fa 🙂

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  2. Pensa che io, parlando da sempre in piemontese in famiglia, da piccolo pensavo che la traduzione dal piemontese in italiano di “toc ed bosc” fosse “tocco di bosco”! Anche il mattone (in piemontese “mun”) era diventato il “monno”. 🙂

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  3. Concordo pienamente con Serpillo: il dialetto è una ricchezza per ciascuno di noi. Certamente occorre una lingua comune per capirci, ma parlare il dialetto è comprendere le nostre radici, la nostra storia, le nostre tradizioni… Non può esservi futuro se non conosciamo le origini. Io ho sempre parlato piemontese in casa e quando andai a scuola non ebbi problemi nel rapportarmi con la lingua italiana che, comunque, sentivo alla radio (a quei tempi non c’era la televisione).
    Sono certa che i dialetti si apprendano solamente parlandoli in famiglia (da vecchia maestra sono un po’ scettica sulle poche ore di insegnamento scolastico… una lingua appresa “artificialmente” studiando la grammatica ed il vocabolario non sarà mai la “mia lingua” con cui pensare, manifestare gli affetti, le arrabbiature…)
    Ottima cosa, comunque, il dizionario di Ceres: un modo per salvaguardare un patrimonio che fra pochi decenni andrà perduto.

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    1. L’importante è che il prossimo dizionario abbia la traduzione dall’italiano al patois così anche noi profani possiamo tentare di usare questo dialetto… quantomeno quando vogliamo scrivere qualche parola.

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  4. Hai ragione Ariela. A parte i miei (piccoli) svarioni nella traduzione da piemontese a italiano e viceversa, sono molto contento di poter conoscere e di poter continuare a parlare un dialetto. Il fatto di sapere le parole, le espressioni tipiche e la pronuncia di una lingua ormai in via di abbandono, mi spinge a ringraziare i miei genitori e i miei parenti che mi hanno insegnato il dialetto torinese. Ho anche piacevolmente notato che se parli con le persone di “una certa età” in piemontese, si instaura spesso una confidenza che parlando in italiano mai si instaurerebbe. In questi contesti sembra quasi che entri a far parte di una famiglia, di un gruppo!

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  5. I dialetti vanno mantenuti in vita perché rappresentano cultura e parlano della nostra storia.
    Non dimentichiamo che i dialetti erano le lingue di un tempo…pensiamo a cosa sarebbe successo nella storia universale se all’epoca della spedizione napoleonica in Egitto – in un periodo storico in cui il francese era la lingua degli intellettuali convenuta in tutta Europa – un “folle” sognatore come Champollion non si fosse messo in testa di tradurre la stele di Rosetta, utilizzando come passe-partout il Greco antico per decifrare il demotico, lo ieratico ed il geroglifico. Non dico che con il franco-provenzale e altri patois siamo a questi livelli, ma non dimenticare è una grande risorsa, magari di pochi, e va rispettata…

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  6. La lingua è il principale elemento dell’identità.

    Non avete notato quanto sia spaesante girovagare in città e leggere dappertutto parole in inglese?

    E’ un’invasione oramai.

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