Richiaglio, il paese delle gerle

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Richiaglio (736 m)

Il vallone di Richiaglio, vallone laterale della Val di Viù, si è spalancato ai miei occhi, per la prima volta, quando ho letto il lavoro fatto da Italo Losero sul “progetto Combanera”, ovvero la diga che attende dagli Anni ’60 di emergere dall’alveo della Stura per abbeverare la città di Torino.

Quello è stato il mio primo stupore verso questo luogo ed è stato così intenso che di quel progetto ne ho ampiamente parlato in questo post, scritto nel gennaio scorso.

Il secondo stupore l’ho provato quando Ariela Robetto ha descritto in modo incantevole, per il bimestrale Panorami-vallate alpine (n. 95 di marzo-aprile 2012), la sua stupenda escursione primaverile fatta proprio a Richiaglio partendo da Molar del Lupo.

Il terzo di stupore, quello che finalmente mi ha dato la scossa per partire con lo zaino in spalla, è emerso grazie all’ultimo volume della Società Storica delle Valli di Lanzo – A dorso d’uomo, gerle e garbin della Valli di Lanzo – scritto da Aldo Audisio, Vittorino Romanetto e Claudio Santacroce.

Tre sguardi verso la montagna e un’infiintà di riflessioni sul nostro mondo e su chi, oggi, ha ancora voglia di caricarselo sulle spalle.

Tre mondi che, forse, vorrebbero parlarsi: quello cittadino, quello dell’escursionista consapevole e quello dei montanari.

Dialogo possibile?

Una diga per la sete di Torino, una scrittrice straordinaria (voce ammaliante, vera e necessaria dei luoghi di montagna) e una garbina a dorso d’uomo.

Tre “voci” che si incrociano su di un angolo remoto delle Alpi, al contempo così urbanocentrico, dove il villaggio di Richiaglio resiste a tutto.

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Una gerla in Val Lemina (19 maggio 2013)

Nel 1987 Marco Fassero, corrispondente del quotidiano La Stampa, descrive la vita di questo minuscolo borgo adagiato in un paesaggio di altri tempi (articolo riportato sul libro A dorso d’uomo che ho recuperato dall’Archivio Storico de La Stampa).

Nel paese dei cestai. A Richiaglio vivono gli ultimi costruttori di gerle

In molti casolari manca ancora l’energia elettrica – La spesa si fa a Viù, due ore di marcia, o a Col San Giovanni con una camminata di 60 minuti – I mezzi di trasporto sono la teleferica, il mulo, la slitta, e gli zoccoli nella bella stagione.

Viù – Se chiedi alle donne di Lemie, ed anche delle altre valli lanzesi, di indicarti se esista ancora qualcuno che faccia le «garbasse», di primo acchito scuotono il capo. Ma poi si sovvengono: «Forse Richiaglio. Ma lei sa dov’è?». Dopo Biolai, verso il Col del Lys, ad un tornante si stacca una strada che scende ripida e stretta in una valle nascosta. In fondo c’è Richiaglio.

Qui si trova ancora qualcuno che durante i lunghi inverni fa gerle e gabasse. Ancora… In verità è come se il tempo si fosse dimenticato di far scorrere qualche decennio in questo solco, ricco d’acqua e ombroso. E’ come se si vivesse secondo i ritmi e i canoni di prima della guerra. Ci abitano circa trenta persone.

In numerosi casolari l’Enel non è tuttora arrivato, ci si rischiara con le lucerne a petrolio. Pochi degli adulti rimasti hanno la patente. La spesa si fa a Viù, due ore di marcia, o a Col San Giovanni, un’ora buona. Il panettiere viene in macchina una volta alla settimana, il giovedì. I mezzi di trasporto sono ancora la teleferica, il mulo, la slitta, e gli zoccoli nella bella stagione. La televisione si prende male, non c’è trattoria, nemmeno d’estate.

Vige un’economia quasi autarchica, come in una terra isolata. Gli adulti lavorano la terra, patate e qualche ortaggio, le famiglie in estate si portano agli alpeggi, su verso il Monte Colombano o il Monte Arpone, con le pecore e poche vacche. Molti del vecchi abitano da soli nelle sparse case di pietra. A Richiaglio vivono quattro bambini, tutti piccoli: il più grandicello ha sei anni, poi vengono tre fratellini. Silvia, l’ultima, ha sette mesi. Quando il fratello di Silvia avrà l’età per andare a scuola, anche la loro famiglia lascerà il paese per Viù. Loro le gabasse non impareranno ad intrecciarle.

«Una volta tutti sapevano fare le gerle. I padri insegnavano ai figli, oh perché è un lavoro da uomini; al caldo delle stalle le donne apprendevano a filare» sentenzia Regge Giovanni, classe 1917. «Allora c’erano pochi soldi e bisognava arrangiarsi» dice sospirando Cristina Rigoletti, 73 anni. Il vecchio Regge, nonno delle tre masnà, spiega che per tradizione Richiaglio era il paese del cestai.

Le gerle lavorate più finemente erano prodotte per il mercato. «Di domenica, si saliva al Col Lunella e si scendeva a Valdellatorre per vendere le nostre gabasse sulla piazza dopo la messa granda». Ma Richiaglio esportava le sue specialità anche a Rubiana, in Valsusa, a Vallo, a Traves. Il mondo delle mulattiere, che valicavano le creste, era più piccolo del nostro mondo dell’asfalto. Oggi sono rimasti solo in tre a praticare la vecchia arte. Sono forse gli unici in tutte le Valli di Lanzo.

Fare le gerle richiede tempo e rende poco, cosi i giovani si dedicano ad altro. Ci vogliono tre giorni per preparare la roba, le palette e i costil, cioè le barre verticali e le strisce trasversali, e poi intrecciarle. Le barre si tagliano col falcetto dal legno di frassino o di castagno, le trecce si ricavano dai rametti secchi di nocciolo. Una gabassa delle maggiori dimensioni si vende a 100 mila lire. «Ne faccio una ventina, in un anno. Gli ordini arrivano da un po’ dappertutto» dice Luigi Regge, 55 anni. A case Benna e a case Lumaca, dove risiede nella brutta e bella stagione, non c’è laboratorio: per lavorare bastano scanno e pazienza.

«Porta anche due quintali: se l’uomo resiste, resiste anche la gerla». Una gabassa robusta dura a seconda del materiale che si trasporta. «Se la si lascia lì appesa, anche una vita», ironizza Regge.

Una produzione cosi tipica, tradizionale, cosi legata a schemi distanti da noi, poteva resistere solo a Richiaglio. Al provveditorato ricordano che quando, fino a vent’anni fa, qui esisteva una pluriclasse, la sede era permanentemente «In assegnazione».

Nel 2013 ci sono ancora due persone che sanno costruire le gerle nelle Valli di Lanzo: sono Celestino Romanetto e Giampiero Albrì ed entrambi vivono in Val di Viù.

Uno di essi – Giampiero Albrì – abita a Richiaglio ed io, finalmente con la giusta scossa, porto gli scarponi a Fubina da dove inizierò la mia immersione nelle Alpi compiuta con gli abiti di un cittadino qualunque: un cittadino che ha sete e che necessita dell’acqua della Valle di Viù per sopravvivere agli inquinanti dello sviluppo industriale ed ai conseguenti cambiamenti climatici.

In questo mio piccolo grande viaggio mi accompagneranno la voce della montagna (Ariela Robetto) e il montanaro che costruisce gerle, mentre l’acqua purissima di Combanera attende di essere requisita dalla pianura.

Ce n’è abbastanza per mettere in discussione la mia voracità predatoria e per percepire con i miei piedi tutta la violenza proiettata verso la natura dalla civiltà sedentaria.

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Una violenza proiettata anche verso la cultura alpina.

Si, ce n’è abbastanza per camminare.

Sotto un cielo che stenta a svegliarsi sento che spurgherò la mia violenza consumistica ascoltando la solitudine narrata dallo scorrere dolcissimo del torrente Richiaglio, il Rio Chiaro. Sarà proprio in quell’acqua, così trasparente, che specchierò la mia solitudine.

Mentre percorro una splendida mulattiera, in direzione sud, l’acqua scende a valle con moto inverso al mio. Salendo verso la montagna, l’acqua cerca la pianura: lei incontrerà i cittadini mentre io, in questo sabato inquieto, vado prima controcorrente, alla ricerca degli ultimi montanari delle Valli di Lanzo che custodiscono antichi saperi.

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Lo so, la giornata volgerà al termine e con essa anche il mio incontro con la montagna: la corrente del Rio Chiaro mi chiamerà per ricondurmi nel mondo che mi ha plasmato.

Oggi non è semplice fare questa escursione. Comincia scendendo, verso la Stura, quando generalmente in montagna si inizia ascendendo. Poi il timido sentiero da Fubina ti scaraventa in un amen in boschi selvatici e pieni di energia che ti sorprendono in tutta la tua inadeguatezza. E’ come se ti sussurrassero: “Ma che ci fai qui?”.

Si scende, si attraversa una linea ad alta tensione e poi, in breve, dopo un paio di svolte, si fiancheggia la Stura. Dopo pochi passi ci si ritrova a strisciare i piedi su di un’esile traccia a picco sul torrente.

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La Stura qui è come se ti sfiorasse accompagnandoti nel tuo incedere e facendoti sorgere domande inquietanti.

Ti intriga la mia acqua, vero? Soprattutto adesso che hai ridotto i pozzi sotterranei della tua città a discarica industriale. Soprattutto ora che hai modificato il clima per i tuoi sogni giganti ed infantili e così adesso intravedi nel tuo orizzonte metropolitano stagioni sempre più secche, dove il caldo insopportabile e la siccità perdurante ti faranno percepire fino in fondo di cosa è capace la tua anima predatoria“.

“E di quello che stai combinando alle mie montagne, alla mia fauna, alla mia flora, te ne frega qualcosa? Lo sai che da queste parti l’aumento della temperatura è molto più sensibile rispetto alla tua pianura?”.

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Quante volte mi succede, durante le mie immersioni alpine, di trovarmi a fare i conti con quanto la scienza sta divulgando in questi ultimi anni, con tutti i suoi allarmi. Sarà solo catastrofismo? Sarà tutto falso?

Sovente sono tentato di non credere a nulla di quanto ci viene detto: è troppo orrendo da immaginare.

Intanto qui il fragore dell’acqua sembra trascinare via questi pensieri, fino a quando per attraversare la Stura ci si imbatte in un ponte anonimo che affianca una condotta forzata: è quella che alimenta la centrale idroelettrica di Funghera, costruita nel 1899 anche grazie al contributo di donne (soprattutto) e uomini con indosso garbin e gerle utilizzate per il trasporto dei materiali, come documentato nel libro A dorso d’uomo.

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Stavolta il confronto è con la mia sete di energia: prima di cacciarmi in questo spazio adornato a selva ho fatto il pieno di elettricità alla fotocamera e al gps così posso portarvi sullo schermo (che ha sete pure lui) qualche scatto di montagna grazie proprio al navigatore satellitare che, al ritorno, mi farà ritrovare la traccia persa proprio in prossimità del traliccio dell’alta tensione: ironia della sorte.

Forse questo bosco avrebbe fatto volentieri a meno di imbattersi in un cittadino rimbambito che viene a perdersi tra i suoi silenzi per poi ritrovare il sentiero grazie all’elettricità prodotta dalle acque cristalline del vallone di Richiaglio dove le stesse foreste amano specchiarsi.

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Qui svelo fino in fondo, alla natura che mi attornia, che sono un cittadino perfettamente addestrato: oltre per gli utilizzi usuali (lampadine, frigo, lavatrice, lavastoviglie, ecc.), l’energia elettrica mi serve, da qualche tempo a questa parte, anche per caricare l’aspirabriciole (una tempo usavo la mia mano), poi tocca al rasoio (una volta funzionava solo con le scosse dei miei nervi), poi c’è la fotocamera digitale, il pc portatile, il gps, lo smartphone… Tutti gadget seducenti e letali.

Non c’è che dire: le batterie che mi porto sulle spalle nella mia quotidianità metropolitana hanno tutte quante molta sete. Anche qui.

E’ così che il mondo globalizzato mi ha plasmato: un perfetta arma letale da fare invidia ai Navy Seals ma, nel mio caso, la caccia è verso la natura e l’ambiente che custodiscono le risorse necessarie per soddisfare la mia sete energivora.

Mentre attraverso il ponte, con la condotta forzata che mi solletica osceni interrogativi, sento vacillare il mio amore per le montagne. In questo luogo alpino dove la natura primeggia, la mia complessità mi fa quasi girare la testa. Mi fa quasi vergognare.

Di colpo viene in mio soccorso un manufatto straordinario celato gelosamente da questi boschi impertinenti. Il mio sguardo si pietrifica colorandosi di sfumature bigie che materializzano quell’opera montanara.

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In questo frangente sento quell’opera oltremodo necessaria: non perché intendo attraversare il rio (non passa da lì il sentiero per Richiaglio) ma perché percepisco il bisogno di cristallizzare i miei pensieri nella seducente e rassicurante semplicità di quel manufatto: un ponte a schiena d’asino, bellissimo, che per me non è solo un ponte ma un prodotto irresistibile dell’ingegno montanaro.

Una mulattiera, un ponte. Una gerla.

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Dove non esistono strade, dove non passano mezzi motorizzati, c’è solo un modo economico e sostenibile per portarsi carichi: bisogna indossarli, come sto facendo oggi con il mio zaino ma con la differenza che i montanari arrivavano a portarsi sulle spalle anche 40 chili mentre io, se arrivo a 10-12 chili, nelle uscite più impegnative, è già tanto.

Nel frattempo, inseguito da questi pensieri, osservo i colori dell’acqua fondersi con quelli dell’autunno e respiro continui sussulti provocatori degli spiriti che albergano nelle selve.

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Avanzo rapito da un silenzio circolare ed un sentimento di vergogna emerge quando l’acqua, qui al mio fianco, trapassa la mia anima, imbevendola di fluido vitale: mi accorgo così della smisuratezza dei miei desideri al confronto di questa bellezza immolata, fin dai primi Anni ’60, all’altare dello sviluppo economico.

E’ immediato e spontaneo accostare quel ponte, che ho appena lasciato alle mie spalle, con la diga che aleggia sopra la Val di Viù e il suo vallone di montanari che costruiscono gabasse.

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La simulazione fatta da Italo Losero della diga di Combanera. Il vallone di Richiaglio è quello di sinistra, semisommerso dall’acqua

E’ immediato perché i segni di chi ha vissuto per millenni su questo pianeta, qui, in queste vallate alpine, sono lievi, minimi. Sono segni da cui non posso fuggire: mi è impossibile far finta di niente.

Ma sono anche segni che riesco a capire.

Segni così sobri ed intelligenti che mi mettono a nudo e mi scuotono. Segni che non trasudano di violenza come invece accade in tante “opere” che sfregiano i nostri paesaggi.

E’ tutta un’esperienza spaesante, insolita, quella di percorrere lentamente con i propri passi, ritmicamente scanditi dalla vita che scorre incessantemente a pochissimi metri da te, un luogo destinato ad alimentare la decadente civiltà occidentale. Civiltà che ha miseramente fallito non sapendo fare i conti con i limiti fisici del pianeta.

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Oggi il prezzo da pagare per fare quest’escursione è elevato: mentre cammino mi accompagna la mia solitudine che avverto prepotente quando immagino le megalopoli sparse per il mondo così bisognose di ambiente da trasformare in energia.

Oggi sono nell’ambiente, un bellissimo ambiente alpino, ricco di stimoli, anche culturali, un ambiente nel mirino dei torinesi, distanti solo un’ora d’auto da qui. Un ambiente che è da modificare, da imbrigliare, da sconvolgere, da sommergere, da cementificare: Combanera ci deve salvare dai nostri occhi miopi e stupidi che hanno fissato l’attimo scambiandolo per l’eternità.

Torino e l’hinterland hanno bisogno di salvarsi da loro stessi.

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Mentre cammino sommerso da decine di milioni di metri cubi di acqua, mi vergogno di far parte di quest’umanità che muove guerra al suo unico pianeta.

E mi vergogno ancora di più se penso a chi verrà dopo di noi e a che razza di mondo sconvolto lasceremo in eredità.

I rintocchi delle campane di Richiagilo scandiscono le undici proprio mentre un pilone votivo mi accoglie sussurrandomi che sto per entrare nel mondo domestico e sacralizzato.

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Sento il magnetismo di Richiagilo ma al contempo provo disagio. Cosa potrà pensare il montanaro del sottoscritto che viene dalla metropoli con l’esigenza di sommergergli la sua valle per riempirsi la pancia di “acqua buona”, dopo aver lordato per decenni i pozzi sotterranei della pianura?

E se l’avesse fatto anche lui, lasciandosi trasportare da uno sviluppo senza limiti? Non ne aveva il diritto?

Ma allora oggi la mia curiosità verso un umile manufatto, che richiede ben due giorni di lavoro per essere fabbricato, non è altro che la ricerca di un simbolo potente che ancora vive in un luogo altrettanto potente?

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Qual è la cultura che separa l’uomo che cammina con il mondo sulle spalle dall’uomo che sfreccia con il mondo sotto gli pneumatici? E quali sono i costi, anche in termini ambientali e climatici?

Se nel XXI secolo, in pieno Antropocene, siamo costantemente sotto pressione dai rischi di catastrofi imminenti, forse non è poi così inutile porci certe domande.

Forse oggi sono qui, spinto dalla curiosità verso un attrezzo alpino e dalle inquietudini del mio inconscio, per far emergere la voce dell’Uomo selvatico: sarà in grado di salvarmi dalla mia cultura predatoria facendomi ammirare bagliori di eternità?

Non voglio salvarmi grazie a Combanera: quella diga è un insulto all’arte di vivere dei montanari e alla loro connaturata consapevolezza del senso del limite.

E allora quella gerla, che mi incute ribrezzo se provo ad immaginare la fatica di portarmela addosso, forse è un simbolo del saper vivere, sebbene questo saper vivere costi tanto: un prezzo che paghi solo tu, sulla tua pelle, senza lasciare sfregi indecenti e apocalittici sull’intero creato affossando così ogni anelito per un avvenire possibile.

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Mi avvicino sempre più a Richiaglio, lasciandomi al mio fianco i segni dei montanari perfettamente innestati nel paesaggio alpino: il lavoro dell’uomo, qui, si amalgama con quello della natura componendo così un ambiente straordinario nella sua sobrietà ed essenzialità: un ambiente bellissimo e terapeutico dove la mia anima trova ristoro.

Ormai a due passi dal paese delle gerle, noto che attaccato al ponte in pietra originario – bellissimo –  è stato costruito quello per il passaggio degli automezzi.

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Sembra quasi una provocazione: a pochi passi da Richiaglio mi imbatto nel confronto immediato ed inevitabile di due culture: quella che va a piedi, portandosi con sé carichi ed animali, e quella che si muove con macchine alimentate dal petrolio.

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Garbin per la festa del Monaviel (giugno 2006)

E’ immediato riflettere, tra una foto e l’altra, che per noi è scontato godere di certe comodità: ben difficilmente oggi riusciremmo a muoverci senza auto, quando oramai tale mezzo di trasporto lo utilizziamo anche solo per brevissimi e ridicoli spostamenti. Figuriamoci se poi dovessimo trasportare sulle nostre spalle le confezioni da sei bottiglie di acqua minerale con il garbin. Eppure tentare qualche riflessione sui limiti del nostro sviluppo, grazie ai paesaggi culturali che mi vengono incontro, credo  che sia benefico, quasi terapeutico.

Il valore di un’escursione in queste vallate, nel cuore del “selvaggio West delle Alpi” (così chiamate da Iris e Dieter), sta proprio nel fatto che la nostra mente può spalancarsi alla cultura del montagna. Una cultura che ci sprona al confronto con le nostre abitudini malsane, rappresentate dal tutto e subito, dallo scarto, dalla fretta, dalla predazione dell’ambiente: non ci accorgiamo che siamo intossicati dalla mancanza di limiti, in molti ambiti della nostra vita. Non mi stupisco se poi, come dei tossicodipendenti, vaghiamo perennemente alla ricerca di dosi sempre più elevate di “ricchezze” ambientali. Abbiamo da tempo perso il senso della misura, della sobrietà, dell’essenzialità e non ci accorgiamo che ci stiamo portando, giorno dopo giorno, allo sfinimento: quello che provochiamo a ciò che ci circonda corrisponde esattamente a quello che stiamo facendo alla nostra umanità: non c’è alcuna differenza tra quanto è fuori e quanto è dentro di noi.

Intravedo finalmente la chiesa che mi ha accolto con le sue campane quando ero nei pressi del pilone votivo. Le vado incontro passando vicino ad una bruttissima villetta dalle sembianze prettamente cittadine.

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Noto che dai vetri delle finestre si specchia il panorama che avvolge questo piccolo villaggio sospeso nel tempo. Mi avvicino per fotografare ma rimango attonito nell’accorgermi che quelle finestre non stanno riflettendo la luce.

Non riflettono alcunché.

Il tetto e i muri della chiesa sono crollati qualche anno fa a causa del peso della neve, mi spiegherà Giampiero. Guardo attraverso le finestre: danno sul vuoto, come la porta di ingresso che sembra ben chiusa.

Una porta che si lascia alle spalle il vuoto.

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Ma il campanile svetta ancora e sa accogliere noi viandanti con i suoi rintocchi: è la vita dei montanari che continuano ad amare la loro terra e a rispettarla. Qui vivono ancora con orizzonti di senso.

Richiaglio resiste a tutto.

20131026-325Incontro una donna con cui scambio qualche parola. Le chiedo se per caso il signore che intravedo indaffarato poco oltre è Giampiero.

“Sì, è mio marito!”.

Mi avvicino a lui, gli stringo la mano e gli faccio i complimenti, ringraziandolo per aver presenziato alla presentazione del volume A dorso d’uomo. Faccio una foto con lui mentre mi parla della baita di fronte a noi che è da smantellare perché ormai pericolante. Rimango poi stupito nell’osservare sua moglie tutta intenta a lavare i panni nell’acqua gelida del lavatoio.

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Con Giampiero Albrì

In questo sabato così insolito mi fermerò per uno spuntino nel minuscolo insediamento di Benna, poco a monte di Richiaglio, verso il Colle Lunella, immerso in un silenzio assurdo. Mi sederò sui gradini di una baita, circondato dai segni e dagli oggetti della quotidianità montanara. E’ stato spontaneo domandarmi se per caso qualcuno ci vive ancora o se qualche persona torna a riaprire le imposte per fare entrare la luce nelle stanze.

Tornato a casa ho poi scoperto, sfogliando il libro e leggendo l’articolo di Marco Fassero (quello che ho riportato all’inizio del post), che Luigi Regge ci abitava nella brutta e nella bella stagione. Nel 1987 Luigi ha 55 anni.

Chissà se c’è ancora… Chissà se viene ancora da queste parti dove tutto sembra essersi pietrificato, aspettando che qualcuno, prima o poi, venga a spalancare le porte e a rianimare le chintane.

Chissà se quelle gerle appese sui balconi tornano a riempirsi di cose da trasportare…

Anche Benna resiste a tutto.

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Il volume CXXII della Società Storica delle Valli di LanzoA dorso d’uomo – Gerle e gargin nelle Valli di Lanzo” (uscito lo scorso ottobre) ci racconta come vengono costruite le varie tipologie di gerle con ampia documentazione fotografica (anche storica) e meticolosa descrizione delle varie fasi di creazione di questi oggetti. Gli autori hanno assistito dal vivo alla realizzazione della garbina e del coummou ad opera di Giampiero Albrì e Celestino Romanetto.

Vengono anche prese in considerazioni le gerle delle Val d’Ala, Grande e Tesso.

Segnalo che i volumi della Società Storica si possono trovare nella libreria la Montagna a Torino.

19 pensieri riguardo “Richiaglio, il paese delle gerle

  1. Molto bello il tuo scritto che ha saputo unire il cuore alla ragione ed all’informazione.
    E’ vero siamo tutti “strabici”, vogliamo un mondo pulito, esteticamente gradevole, senza inquinamento e, contemporaneamente, non sappiamo rinunciare nemmeno alle comodità più futili e inutili.
    D’altra parte la nostra cosiddetta civiltà occidentale è ormai completamente dissociata ed è anche a motivo di questo che si sta disgregando, perdendo i valori e mettendo pezze di carta moneta sui buchi più vistosi delle anime!
    Cosa ci rimane da fare?
    Forse vivere con grande sobrietà e farci un esame di coscienza, come consigliava il vecchio catechismo che mandavamo a memoria da piccoli.
    Grazie Beppe per la tua sferzata! Ne abbiamo bisogno. Unisco una poesia trovata su internet, mi scuso, ma non ho copiato il nome dell’autore.
    Siamo soli e senza dèi / demoliti dalla scienza; / e dalla scienza può venire / una nuova cacciata / per un nuovo originale / peccato artificiale.
    ariela r.

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  2. Nel IX Rapporto ISPRA – Qualità dell’ambiente urbano 2013 – presentato in ottobre si legge nel capitolo relativo alle Acque che nel passaggio dal prelievo alla distribuzione c’è una dispersione in rete del 39%.
    Prima di pensare a dighe converrebbe evitare lo spreco e la dispersione in rete dell’acqua.

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    1. Ecco il file in pdf sul Rapporto di cui parli intitolato “Acqua e ambiente urbano”

      Dice l’ISPRA: “La dispersione complessiva nel passaggio dal prelievo alla distribuzione, è stata pertanto circa del 39 per cento, pari a 3,50 miliardi di metri cubi di acqua ad uso potabile, corrispondenti a una perdita giornaliera di circa 160 litri per abitante”.

      Fai clic per accedere a FOCUS_2013_WEB.pdf

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  3. Ho letto solo oggi questo post….molto bello!!!
    Io conosco bene questi luoghi e si posso dirti che alcune volte vengono ancora riaperte le imposte delle case alla Benna..ma troppo poche volte per far rivivere una frazione disabitata. Chissà…visto come va oggi la nostra società…se non dovremo ritornare ad aprire quelle imposte un po’ più frequentemente e accontentarci di cosa ci ofre la natura!!!!!!!

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  4. Oggi capisco… dopo aver percorso i vostri passi trovo maggior senso in una giornata di ricerca come quella di oggi. Grazie per l’idea di allora e grazie per quelle che saranno! Gp

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  5. Ho “scoperto” Richiaglio alla fine degli anni 70, durenate le numerose peregrinazioni senza meta sulle mie montagne. Ricordo ancora la baita isolata e in rovina in cui entrammo e le istantanee di vita ancora presenti che pralavano del suo ultimo abitante. Da ragazzo ho frequentato Chianale (Val Varaita) e la montagna vera e pura mi é rimasta dentro con tutto il suo fascino che bisogna saper apprezzare (odore di stallatico incluso).
    Gran belle cose hai scritto, giusto ieri ero ai piedi della falesia a guardare i due nuovi ponti, la strada asfaltata che scende da Bertesseno e non so quanto questi possano piacermi, anche se spero siano di utilità agli “ultimi lassù”.
    Ti leggerò con attenzione, d’ora in poi.

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  6. Leggo ora il bell’articolo di Beppeley, a più di due anni dalla pubblicazione. Richiaglio io non me lo sono dimenticato, allora ogni tanto ci provo, con la memoria prima di tutto ed ora con sta gran furbata di internet. Di anni ne son passati una caterva ma gli otto mesi passati lì come alunno della pluriclasse (dieci bambini in tutto, io iscritto alla quinta) sono un ricordo indelebile. Ero il figlio del maestro: gli altri bambini mi guardavano un po’ strano ma con benevolenza. Come luce c’era quella del Sole che in quel lungo inverno si fece vedere veramente poco. Poco male perché l’amore per la lettura nacque proprio fra quelle mura, alla luce tremolante di un lume a petrolio di cui ricordo ogni pur minimo particolare. Di strada non se ne parlava proprio. Sentieri per il Col San Giovanni, Viù e le Lunelle, tutti poco battuti e mal segnati. Scuola ed abitazione del maestro erano tutt’uno: Dal “soggiorno-cucina” tramite una stanza cieca si passava direttamente nell’”aula”. Per descrivere quelle cose lì bisogna virgolettare a tutta forza perché le parole non corrispondono più alla realtà del tempo. Il torrente era uno splendore, ricchissimo d’acqua libera e saltante come il giorno della creazione.
    Sono tornato una prima volta dopo più di cinquant’anni: di acqua ne ho vista poca, il ponte vecchio è mortificato da quello nuovo (irrimediabilmente brutto), strada e luce fanno il loro dovere, chiesa e campanile sono come descritti da Beppeley.
    Malgrado tutto il paese ha mantenuto lo spirito antico.
    Speriamo in bene.

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    1. Che bellissima sorpresa!
      Ti ringrazio infinitamente per aver rispolverato questo post e per averlo impreziosito con la tua testimonianza!

      Mi ha toccato molto la descrizione del torrente: subito ho pensato a quanto la nostra generazione stia sottraendo alle prossime che dovranno confrontarsi con un mondo sempre più avaro di risorse naturali.

      Quello spaccato umile e scarno di vita alpestre racconta perfettamente quanto abbiamo esagerato in tutto per vivere.

      Grazie mille!

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      1. Richiaglio

        Rio Chiaro della mia infanzia
        tanto distante, a me sempre vicino
        scintilla l’acqua sulle grandi marmitte
        dei giganti
        del bosco ombroso, dove siete?
        ingentilito il canto.
        Guardo stupito, perché sono bambino
        perché quell’acqua nata non so dove
        mi fa sognare
        di regni sconosciuti né esistiti
        di mille mondi immaginati
        e terre antiche amiche
        l’ umana voglia di sapere.

        L’ardito ponte
        tanto aggraziato e bello
        che su quell’acqua fa di sé gioiello
        così prezioso al montanaro
        cui rende lieve l’andare faticoso
        si’ che del grave peso sulle spalle
        più non avverte il sale del sudare,
        sotto quel ponte nacque il mio stupore
        per l’arte della pietra umile e grande,
        le dure mani
        lo scalpello,
        per l’occhio incolto che pure sa stimare
        di ogni sasso misura e proporzione
        con tanta grazia forza e precisione
        da far mostra di sé dopo cent’anni
        nell’arco ribassato
        sul torrente,
        quel ponte sotto il quale
        so sognare.

        Acqua che scorri, fresca ed abbondante
        canti con note sempre nuove
        acqua capace di mille cose ed accogliente
        le foglie stanche, i fili d’erba e il poco
        di questa dura terra, aspra di pietra.
        Forza della natura è la tua gente
        silente e poca
        di cui tu un giorno fosti la sorgente
        acqua lustrale, benedicente
        per il gran volo
        verso il grande mare

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