Subito esclamano: “Questa non è solo più un’esperienza, ma una piccola passione che speriamo possa crescere“.
Nel loro scritto a due voci emerge, con vivo e sincero entusiasmo, la gioia di essere utili alla montagna, e a se stessi, ma anche la stanchezza provocata dal freddo, dalla pioggia copiosa e dalla grandine dell’estate 2014. Ma non si sono persi d’animo.
Piergiuseppe ha vissuto per un mese in alpeggio tra luglio ed agosto mentre Felice Alberto è stato in Inghilterra per studio ed è salito in alpeggio al suo ritorno.
Alpe Trione (1648 m). Sullo sfondo il Bec Ceresin e le montagne del versante a mezzogiorno della Val Grande
Nel XXI secolo il vallone di Trione è una stupenda escursione della Val Grande di Lanzo il cui sentiero è una tratta della GTA (Grande Traversata delle Alpi).
Questo vallone è anche un fantastico alpeggio, venduto nel 2012 dal Comune di Chialamberto ad una società privata.
Quante volte ci è successo di percorrere sentieri che attraversano alpeggi abbandonati e poi di domandarci come doveva essere la vita di chi ci lavorava? Quante volte abbiamo pensato alla fatica di vivere la montagna lasciandoci alle spalle le baite crollanti, magnifici esemplari di architettura alpina?
Con il racconto che segue, e poi con il prossimo, cercheremo di costruire un ponte che ci permetta di collegare il presente con il passato, magari poi intravedendo tracce di avvenire nei sorrisi di nuove generazioni.
Il passato è il racconto di nonno Giuseppe che, da adolescente, nell’anno 1949 ha lavorato negli alpeggi del Trione. Il presente invece sono le esperienze straordinarie vissute dai suoi splendidi nipoti Felice Alberto e Piergiuseppe nel 2012 (all’epoca rispettivamente di 10 e 12 anni di età!) e nel 2013 che su questo blog hanno voluto raccontarle (qui il post del 2012 e qui quello del 2013). Non poteva finire così, perché anche la scorsa estate questi meravigliosi ragazzi hanno trascorso le loro vacanze negli alpeggi del Ciavanis, lasciandosi alle spalle, per alcune settimane, il mondo urbanizzato, artificioso ed ipertecnologico della pianura.
Ma questa è anche e soprattutto la storia di amore di due bellissimi valloni, il Trione e il Vassola, valloni laterali della Val Grande di Lanzo, autentici gioielli delle Alpi Graie meridionali. Uno è il vallone di Giuseppe, l’altro quello di Anna.
Storie di generazioni e di montagne tanto amate. Tanto anche da chi le ha vissute da semplici escursionisti, da turisti di passaggio o da viaggiatori stanchi delle “città atrofizzate che si credono il centro del mondo”, per dirla con le parole di Paul Virilio del libro “Città panico. L’altrove comincia qui”.
Un’ultima cosa: questo racconto contiene parole in patois francoprovenzale delle quali abbiamo cercato di fornire la traduzione, con le note a piè di pagina, per favorire la comprensione del testo. In quelle parole c’è la Montagna, c’è l’identità e l’autenticità dei luoghi alpestri delle Valli di Lanzo. In quei suoni c’è un mondo straordinario, una ricchezza ed una diversità che dovrebbero essere tramandate alle prossime generazioni.
Da Prato Rotondo (Comune di Varazze) verso il mare
Si era già parlato del massiccio del Beigua nell’Appennino Ligure che, posto sopra i paesi di Arenzano e Cogoleto, appartiene geologicamente alle Alpi, mentre da punto di vista geografico lo possiamo includere appunto negli Appennini. Questa porzione di territorio durante l’orogenesi alpina venne interessata dagli stessi fenomeni geologici che condussero alla formazione della catena alpina tant’è che le tipologie di rocce che compongono tale massiccio sono analoghe a quelle che troviamo nelle basse Valli di Lanzo e nelle Valli Casternone e Ceronda. Da un punto di vista geomorfologico, il Beigua è caratterizzato da due diverse facce: mentre infatti un versante settentrionale digrada dolcemente verso Nord, indicativamente verso la pianura padana, il versante opposto precipita piuttosto ripidamente verso la costa Ligure. È proprio in questo versante che si osservano gli aspetti maggiormente “alpini” del Beigua dove pareti rocciose, a volte anche piuttosto imponenti, si alternano a boschi di conifere e, soprattutto, ad estese praterie costellate da vaste pietraie e affioramenti rocciosi.
«(…) Sostengo in definitiva che è necessario restituire alla montagna i suoi ostacoli naturali. Ciò vale soprattutto per l’alta montagna.
Si tratta di ambienti che conservano un valore culturale elevatissimo, ma anche particolarmente fragile: addomesticarli per renderli accessibili equivale ad ucciderne l’anima. Spesso basta il cavo quasi invisibile di una funivia per provocare una irresistibile e grave de-significazione di quegli spazi. Una vetta trasformata in belvedere è simile ad una crisalide vuota: è il monumento alla volgarità e alla insensibilità interessata di una società in cui si è perduto il “senso” delle esperienze che valgono.
A tal proposito mi piace ricordare una illuminante filastrocca di Rodari, che dice:
“Un signore di Scandicci – buttava le castagne e mangiava i ricci; un suo amico di Prato – mangiava la stagnola e buttava il cioccolato. Molta gente non lo sa, e neppure se ne cruccia. La vita la butta via, e mangia solo la buccia“.
La montagna richiede la tenace umilità di un avvicinamento a piedi. Però non dobbiamo nasconderci che è sufficiente la semplice presenza umana, al di là di una certa soglia, per produrre gravi effetti di de-significazione dell’esperienza possibile. Ciò anche se tutti, per ipotesi, si comportassero nel più rispettoso dei modi, consapevoli di essere ospiti e non conquistatori.»