Tcheminàl e Tcheminàl dl’Anvèrs, indicati sulle cartine come Ciaminal/Chiominale/Ceminale e Casa Inversa, è un luogo posto a poco più di 1100 metri di altitudine e gode di una vista ampia e spettacolare a 180° su due vallate della Valli Lanzo (provincia di Torino). Si affaccia infatti sul crocevia della Val Grande e della Val d’Ala, frontalmente al santuario di Santa Cristina. Alle spalle ha la Valle Tesso e, a circa mezz’ora di cammino sul sentiero n. 332, si trova la cappella di San Giacomo di Moja.

Il “Ciaminal”, come usualmente viene definito dagli abitanti di Ceres, non è visibile dalle strade comunali. Occorre percorrere una carrareccia privata per giungere in questo luogo alpino appartato e particolare.
Le costruzioni che costituiscono il nucleo principale sono state utilizzate come alpeggi estivi, nel periodo da marzo a inizio novembre, sino a metà del secolo scorso.
Il mancato utilizzo dei pascoli ha fatto sì che il bosco, lentamente ma inesorabilmente, abbia pian piano chiuso le abitazioni in una fitta boscaglia costituita per lo più da betulle, frassini, aceri e faggi oltre che dal sottobosco, riducendo notevolmente, durante la bella stagione, la bellissima vista e nascondendo alcune baite, difficilmente visibili dalla carrareccia.
L’insediamento, costituito da poche unità di baite in pietra (non arrivano alla decina), risale alla fine del 1800. Ad oggi il Ciaminal si presenta per gran parte in stato di degrado. Come molte altre realtà montane di antico impianto presenti nelle Valli di Lanzo, ha risentito della mancanza di manutenzione da quando è cessato l’utilizzo per l’attività agro-pastorale di alpeggio estivo. Alcune baite si presentano ancora allo stato originario, altre sono state ristrutturate negli anni ’70 del secolo scorso, con interventi non rappresentativi e poco rispettosi del contesto. Si notano anche le rovine di costruzioni crollate.
Quando si raggiunge il Ciaminal lo sguardo corre immediato al fondovalle dove si scorgono a destra, nella Val Grande, i paesi di Chiamorio, Cantoira, Prati della Via e Chialamberto. Sullo sfondo spunta la parte estrema della Levanna Occidentale e, a mezza costa, fa capolino la borgata dei Pianardi. Lateralmente a destra, emerge la Rocca di Lities e si nota, sempre a mezza costa ma a maggior altitudine, la bella borgata de “La Blinant”; posta completamente a solatio, gode di una ottima esposizione anche nelle ore serali.

Il torrente Stura che costeggia i paesi del fondovalle, con il suo corso sinuoso, trasmette al Ciaminal il suono dello scrosciare delle acque.
Volgendo lo sguardo a sinistra, verso la Val d’Ala, si coglie la maestosità delle Alpi Graie meridionali: spicca in primo piano l’Uja di Mondrone (2964 m) con la sua punta contorta che pare, a ragione, da questa visuale, “il piccolo Cervino”, segue la Ciamarella (3676 m) e, sullo sfondo, la punta quadrata delle Bessanese (3620 m). La strada che conduce ad Ala di Stura si snoda tutta curve e traccia il suo percorso a zig-zag tra le strette pareti dei versanti di Ceres e l’inverso di Mezzenile mentre il santuario di Santa Cristina (1340 m), equamente posto tra le due vallate, veglia con la sua spiritualità su di esse.

La vista panoramica che si gode dal Ciaminal, non fa rimpiangere la perdita di sole nelle ore della mattina, dovuta alla posizione delle costruzioni con l’affaccio principale a Ovest. L’orizzonte completamente libero fa sì che si recuperi parte del soleggiamento proprio nelle ore pomeridiane ed al tramonto. In particolare il chiarore del crepuscolo perdura molto a lungo e nei mesi estivi è possibile proseguire le attività all’esterno sino in tarda serata con la sola luce naturale. Inoltre, la posizione del sole che cala, permette agli obliqui raggi serali di entrare nelle aperture delle abitazioni rivolte a Sud e a Ovest, mantenendo l’interno luminoso anche quando il fondovalle è ormai buio e scuro da più ore.
Al calare della sera, quando nelle case del fondovalle si accendono le luci, pare di essere immersi in un “presepe vivente” e si respira un’atmosfera d’altri tempi.
Gli animali del bosco fanno sentire i loro richiami, si ode lo sbattere d’ali felpato di qualche uccello notturno, caprioli e cervi sbucano lenti dal bosco e, avvertendo la presenza dell’uomo, si allontanano con rapidi balzi sulle “rive” scoscese per ritornare al sicuro tra le fronde degli alberi…
Quando ormai la luce del crepuscolo ha ceduto il passo all’oscurità della notte, le stelle spiccano per luminosità e numero, pare un cielo diverso da quello che abitualmente vediamo in pianura.
D’inverno, la luce della luna fa risplendere d’argento le cime innevate dei monti che diventano essi stessi fonte di luce aggiungendo ulteriore fascino e luminosità al panorama.
Difficile restare insensibili a tanta bellezza.
Difficile pensare che si è a poca distanza dalla città eppure, nel contempo, così lontani.
Difficile ritornare in città, quando si provano le emozioni che questo luogo trasmette, la pace interiore, l’unione con l’essenza della montagna, la sua spiritualità. E nasce, fortissimo, il desiderio di fermare il tempo, di prolungare il più possibile questa sensazione di appartenenza all’universo.
Non è stato semplice avere notizie del Ciaminal. Ad oggi, gli anziani che hanno vissuto in questo insediamento sono, purtroppo, per la maggior parte già scomparsi oppure non sono in buona salute. Grazie però alla testimonianza del signor Bruno C. (classe 1939), che ha vissuto questi luoghi nella sua infanzia, è stato possibile ricostruire stralci di vita nella prima parte del 1900 in questa area della Val Grande.
Bruno è nato a Ceres, ma ha vissuto anche a Torino e, dopo il pensionamento, è tornato nelle Valli di Lanzo. È un uomo di molta vitalità e ha acconsentito volentieri a raccontarci la sua infanzia in questa parte laterale della Val Grande, meno conosciuta rispetto alla principale.
Era ancora bambino quando, a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale, il padre fu chiamato alle armi e la mamma, rimasta sola, lo affidò ai nonni materni che vivevano nella parte alta della frazione Cernesio, dove ora risiede lui stesso.
I suoi nonni, come la maggior parte degli abitanti di queste Valli, erano persone semplici che vivevano strappando con fatica all’asprezza della terra lo stretto necessario per la sopravvivenza delle loro famiglie. Questo, però, non impediva loro di essere altruisti, infatti, come racconta Bruno: «In tempo di guerra in queste poche case ad un certo punto, vivevano più di cinquanta persone. Erano gli sfollati di Torino che, per sfuggire ai bombardamenti ed ai soldati, si rifugiarono nelle vallate. Si divideva con loro quel poco che c’era…».

I nonni di Bruno avevano alcuni capi di bestiame, mucche, capre e galline. Coltivavano ortaggi vari e patate nelle zone liberate dai boschi e sui terrazzamenti, ottenuti con la faticosa costruzione di muretti a secco. Erano presenti anche frutteti costituiti principalmente da meli, peri e ciliegi. Dal mese di marzo, appena la neve si scioglieva e la poca rimasta non impediva di camminare sui sentieri, si spostavano a lou Mount, baite poste poco distanti dal Ciaminal. Potrebbe sembrare strano il partire per un luogo ancor più di alta quota nel mese di marzo, quando l’erba non è ancora cresciuta, ma la spiegazione c’è.
«Si partiva appena possibile, portando su tutte le bestie, galline comprese, perché le scorte di fieno erano ormai esaurite. Al Mount, invece, “lou soulè” (il solaio) conteneva ancora il fieno accumulato nella stagione precedente e permetteva di tirare avanti sino a giugno, quando si ridiscendeva per sfruttare l’erba fresca nata più in basso e fare il primo taglio. Poi si ritornava nuovamente su, al Ciaminal/Mount, dove nel frattempo era cresciuta l’erba e si restava sino all’autunno inoltrato. Gli adulti ed anche i bambini più grandicelli continuavano però a lavorare anche nelle abitazioni “basse”, andando avanti ed indietro. Si raccoglievano gli ortaggi, la frutta e quanto prodotto nel periodo estivo. Si producevano, ma solo ad uso della famiglia, anche formaggi e burro. Quest’ultimo veniva prodotto due volte la settimana solamente per il consumo familiare perché avevamo poche bestie…».

Aggiunge ancora Bruno: «I bambini frequentavano la scuola a Ceres. Quando si trovavano al Ciaminal, percorrevano parecchi chilometri per andare e altrettanti per tornare, con più di 400 metri di dislivello e.. senza merendina!».
Le castagne rappresentavano una fonte importante di guadagno ed alimentazione. La raccolta era fatta anche dai bambini e i frutti venivano conservati all’interno di una roccia, di qualità friabile e che presentava una profonda cavità. Si ponevano a strati alterni le castagne, rami con foglie, fieno asciutto. Si lasciavano lì tutto l’inverno e si conservavano sino a primavera. Si mangiavano cotte nel latte con il riso o bollite.
La medesima cavità in tempo di guerra fu utilizzata quale nascondiglio dalle incursioni dei “repubblichini”.
La maggior parte del sostentamento delle famiglie, derivava dalla vendita delle castagne, delle mele e dalla produzione di olio di noci. Quest’ultimo era prodotto mediante un procedimento che coinvolgeva tutti i membri della famiglia, bambini compresi, partendo dalla raccolta delle noci, sino ad arrivare all’olio ottenuto mediante l’utilizzo di una caldaia che ne permetteva la migliore estrazione. Era un prodotto molto richiesto e venivano ad acquistarlo anche gli abitanti di Monastero di Lanzo.
Un’altra attività svolta al Ciaminal e dintorni era la produzione di carbone di legna, combustibile con maggior potere di riscaldamento rispetto alla legna. Lou Tcharbounée, il carbonaio, era la persona esperta in questo lavoro. Allo scopo venivano abbattuti gli alberi e tagliati a pezzi. Il carbone si produceva su piccole terrazze o zone pianeggianti, ove presenti, chiamati Tcharbouneri, carbonaia. I pezzi di legno erano accatastati a forma di piramide, alternati a frasche, con una tecnica particolare che lasciava alla legna la possibilità di bruciare senza “fuoco vivo” ma con una combustione lenta che carbonizzava il materiale senza consumarlo. A tale scopo nella catasta di legna erano lasciate apposite aperture, “finestre”, per permettere l’ossigenazione e mantenere le braci sempre vive. Il ciclo di produzione del carbone di legna durava a lungo e non si poteva mai lasciare la postazione scoperta perché era necessario sorvegliarne la combustione. Gli uomini si alternavano nelle notti, approfittandone anche per “fumà” la pipa. Bruno ricorda che gli anziani raccontavano della presenza di lupi nelle Valli di Lanzo e il fuoco della carbonaia costituiva un modo per tenerli lontani.
Al termine del processo di produzione, il carbone veniva trasportato a spalle, in sacchi di iuta.
La produzione di carbone terminò con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale.
Riguardo all’approvvigionamento dell’acqua, Bruno racconta che: «…mio nonno era molto avanti come mentalità e già ai suoi tempi aveva fatto in modo di interrare i tubi dell’acqua la cui fonte era molto più in alto, per cui eravamo dotati di acqua corrente».
Era anche attratto dai mezzi di comunicazione più moderni ed era arrivato a vendere dei meli, che costituivano parte del suo frutteto, per avere la possibilità di acquistare una delle prime radio (le famose “Telefunken”): «In tempo di guerra avere notizie era molto importante e noi potevamo già ascoltarle in tempo reale».
Come molte costruzioni di quell’epoca, le baite del Ciaminal hanno spesso una sola porta ed una sola finestra per ogni vano. Entrambe le aperture sono di ridotte dimensioni e per entrare nelle baite occorre abbassarsi, anche quando non si è di statura elevata. Il motivo di tale limitazione, spiega Bruno, è dovuto al “dazio sulle finestre”. Sostanzialmente più aperture aveva un’abitazione, di qualsiasi tipo, maggiore era la luminosità dei locali e ciò accresceva il benessere, con conseguente aumento di valore dell’immobile. Questo “lusso” veniva quindi tassato.
Di tale gabella si trova traccia negli archivi del Regno Sabaudo. La tassa era applicata anche nella vicina Francia dove restò in vigore sino al 1926. Per questo motivo nelle zone più povere del Regno si limitò al minimo indispensabile il numero delle aperture, mentre nelle città ancora oggi, non è raro vedere costruzioni d’epoca, con finestre murate e poi dipinte a “trompe l’oeil” al fine di ridurre l’entità dell’imposta.
Bruno non sa fino a quando potrà continuare la vita nella baita dei suoi nonni. Sicuramente fintantoché non gli verranno a mancare le forze e si augura che ciò avvenga il più tardi possibile.
La chiacchierata con Bruno lascia una sensazione di inadeguatezza in noi che viviamo nelle zone più cittadine della pianura. Il fatto di non riuscire (o non volere) ciascuno per la propria parte, a mantenere in vita questo patrimonio che mani volenterose e silenziose hanno “tirato su” in tempi difficili, e con enormi sacrifici, potendo contare solo sulla forza dell’uomo e degli animali, ci fa comprendere come alla evoluzione di mezzi e conoscenze non sempre corrisponda una consapevolezza del passato. Si dimentica il vecchio in luogo del nuovo, senza raccogliere il patrimonio di umanità che queste vite di altri tempi ci tramandano. Queste costruzioni che poggiano su basi di roccia e terreni scoscesi sono ancora lì oggi, dopo più di 150 anni. Il patrimonio architettonico non sempre va riferito a costruzioni barocche o di epoche più importanti. C’è una architettura della civiltà agricola, che nel caso delle Valli di Lanzo si identifica in quella montana, che merita di essere recuperata.
Un esempio per tutti sono i Trulli di Alberobello o i sassi di Matera, dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità e che non presentano nella costruzione utilizzo di materiali pregiati.
L’uomo “moderno”, che può contare su mezzi e conoscenze sicuramente più approfondite, dovrebbe porsi il problema di queste realtà che si stanno perdendo. Costituiscono un patrimonio di tutti, molti di noi hanno una parte di DNA che proviene dalle Valli di Lanzo che ci lega a questa terra che, con la loro anima ancora poco commerciale, hanno conquistato il cuore di persone provenienti da altre zone d’Italia ed anche stranieri.
Certo, occorrono molta passione, molta perseveranza, molti sacrifici ed anche un po’ di “pazzia”per rimettere in piedi una località come il Ciaminal e molte altre nelle Valli di Lanzo, ma non è impossibile. Chi ama la montagna vera, chi vuole riportare in vita una parte del nostro patrimonio, chi sente la necessità di recuperare l’essenza della vita e sa spogliarsi della mentalità opulenta e commerciale che monetizza tutto in luogo delle emozioni, può lanciarsi in una sfida faticosa ma stimolante. Ne sarà ampiamente ripagato perché le ore trascorse in questi luoghi ritemprano lo spirito e lasciano entrare in noi l’anima pura della montagna che apre il nostro cuore e la nostra mente riportandoli ad una dimensione che fa già parte di noi, ma è stata soffocata dalla vita compulsiva dei nostri giorni. Immagini, suoni, luci e profumi della natura incontaminata, nel suo ciclo giornaliero e stagionale, sono terapeutici e ci aiutano a valutare con occhi e sentimenti diversi la nostra quotidianità.
Modificando anche solo in minima parte il nostro modo di agire, trasmetteremo a chi sta intorno a noi un nuovo messaggio e ciò non potrà che portare effetti positivi nella nostra piccola “fetta “ di universo… e non solo.
Anche la signora Lia G., che ora ha ottantotto anni, ha vissuto al Ciaminal nei periodi di alpeggio.
Donna energica e propositiva, ha sempre trascorso la vita con ottimismo, anche quando, ancora giovane, è rimasta vedova e ha dovuto provvedere ai suoi quattro figli.
Fino all’anno scorso visitava regolarmente il Ciaminal. Arrivava spedita a bordo della sua 500 d’epoca che parcheggiava alla fine della carrareccia. Da lì, si inoltrava nel bosco in un sentiero di cui c’è ancora una tenue traccia e, con passo spedito, raggiungeva “lou Mont” altre costruzioni, visibili dal Ciaminal ma poste in posizione più a solatio, dove in primavera nascono dei bellissimi narcisi gialli piantati da lei stessa.
Purtroppo, da qualche mese, problemi di salute hanno ridotto la vitalità di Lia ma la speranza è che con la bella stagione tornino anche le sue forze per permetterle di raccontarci ancora sprazzi di vita, in queste stupende montagne che ci auguriamo possano tornare a risplendere di nuova vita e forze giovanili.
Bellissimo.
Grazie per avermi fatto conoscere un angolo delizioso della Val Grande e per il tuo impegno a favore di una montagna viva.
P.B.
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Grazie P.B. . Un commento positivo è un tassello in più che si aggiunge all’immagine che stiamo pian piano tentando di creare, in modo concreto e con il contributo di molti, per le Valli di Lanzo del futuro. Speriamo.
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Bel racconto. Vien voglia di venire a scoprire quest’angolo nascosto delle valli.
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Grazie Paologiac. Lasciati tentare dalla curiosità e programma una gita magari a San Giacomo di Moja o La Blinant facendo tappa al Ciaminal. Se sarà una giornata di bel tempo ti renderai conto di persona come, nonostante l’altitudine non elevata, ci sia una vista alquanto panoramica ed inaspettata, delle Valli e delle Alpi.
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E’ proprio quello che voglio fare. Conosco sia San Giacomo che La Blinant, ma da Ciaminal non ero mai passato.
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Condivido pienamente lo scritto di Verglas. Sono queste le ricchezze delle Valli di Lanzo! Borgatelle di media montagna, alpeggi d’altura ancora raggiunti dagli antichi sentieri sui quali è possibile leggere la storia e l’anima dei luoghi. Fin quando le Valli vorranno competere con Bardonecchia o Sauze, saranno sempre perdenti! Chi ama passeggiare in via Medail sfoggiando pellicce all’ultima moda, non sarà mai in grado di apprezzare Ceres o il Pian della Mussa, per quanto i paesi desiderino “scimmiottare” le località più blasonate. Conserviamo con cura i paesaggi semplici, rustici, pastorali che le altre valli hanno svenduto in nome di un turismo farlocco che esige dalla montagna il centro benessere e la vasca Jacuzzi! Questo è il futuro delle Valli di Lanzo. Gli stranieri l’hanno già capito e, se esse verranno adeguatamente fatte conoscere e preservate, i veri amanti della montagna si faranno avanti.
Occorre coraggio, lucidità e lungimiranza! Speriamo che le amministrazioni pubbliche e gli abitanti riescano ad avere queste doti, come le ebbero i loro antenati quando disegnarono paesaggi incomparabili con sapienza e orgoglio.
ariela
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Sono molto d’accordo sul recupero dell’architettura montana, delle valli, di zone come quelle dove vivo io, su una collina…ci sono case stupende completamente abbandonate. Una l’ho proprio difronte casa, ormai da spallare perchè mangiata letteralmente da rovi ed edera, un vero scempio. Case solide e con un fascino incredibile. Invece costruiamo e costruiamo, case che basta una folata di vento o terra che trema crollano come castelli di sabbia, case dall’architettura a volte improponibile che deturpa il luogo dove vengono erette.
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E’ proprio così fulvialuna, se questo modo di pensare prendesse un po’ piede ( è il caso di dirlo visto che si parla di montagna e di sentieri..) le nostre valli trarrebbero sicuramente beneficio. Il fatto è che non si vede ciò che di bello si ha normalmente sotto gli occhi per guardare molto lontano cercando soluzioni, forse più comode e vantaggiose, che però non ci appartengono, con il rischio di fare danni anziché benefici.. La semplicità e il rispetto dell’esistente sono /saranno la chiave vincente delle Valli di Lanzo come giustamente ha fatto rilevare Ariela nel suo commento!
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