Il Pizzo Scalino

Manca poco all’alba. A sinistra si nota il Sasso Moro (3108 m), più in lontananza, mezzo nascosto tra le nuvole, il Piz Argient (3944 m), uno dei satelliti del Bernina.

Testo e foto di Giovanni Baccolo

Apriamo la porta del rifugio, il sole non è ancora sorto e la nebbia avvolge tutto in un’umida confusione. Qualche cima di larice sbuca qua e là tra le brume, un lontano rumore d’acqua, erba ingiallita, un silenzio ovattato che nasconde tutto, nient’altro. Sembra proprio che l’autunno non sia arrivato soltanto sul calendario, ma che abbia voluto annunciarsi con tutta la sua potenza in questo suo primo giorno.

Siamo in alta Valmalenco, una valle laterale della Valtellina che da Sondrio si incunea verso nord fino a raggiungere il 4000 più orientale delle Alpi, il Bernina, al confine con la Svizzera. La nostra idea è raggiungere la cima del Pizzo Scalino (3323 m) dalla via normale che attraversa il suo ghiacciaio. Si tratta di una gita non troppo lunga (dai rifugi intorno a Sasso Moro la cima dista circa 4 ore, con un dislivello di 1200 metri), ma che attraversa paesaggi meravigliosi che offrono splendide viste del massiccio del Bernina, di quello del Disgrazia e di vasta parte delle Alpi Centrali. La vista dallo Scalino è così ampia perché è una montagna solitaria e dalla sua cima non vi sono impedimenti che limitano lo sguardo. Esso rappresenta la massima elevazione di un massiccio poco conosciuto, credo a causa dei tanti vicini celebri che ne oscurano l’indubbio fascino. Ma al di là del fascino diciamo panoramico c’è anche quello provocato dall’ardita silhouette di questa montagna che non a caso è soprannominata il Cervino della Valmalenco. Il nome Scalino è dovuto alla curiosa presenza di un gigantesco scalino di roccia che lo circonda quasi interamente. La cima vera e propria è infatti separata dal basamento da ripide pareti che fanno sembrare questa montagna un’enorme piramide adagiata su un pulpito. Il motivo di tale conformazione è da ricercarsi nella geologia della montagna.

Osservando con attenzione il Pizzo Scalino non sarà difficile cogliere la stratificazione delle rocce che lo compongono. La Valmalenco da questo punto di vista è infatti un luogo speciale poiché nel raggio di pochi chilometri sono visibili molte rocce diverse tra loro. Questa varietà litologica è dovuta alla successione di rocce che si sono formate in ambienti completamente diversi, ma che per motivi legati alla formazione delle Alpi, si sono trovate qui in stretta corrispondenza. Il Pizzo Scalino nel suo piccolo è un perfetto esempio di ciò. Il suo basamento è costituito da scure serpentiniti, prodotte dalla trasformazione di antiche rocce che si formarono nelle profondità del mantello e che vennero poi trasformate sul fondale di un oceano. Avvicinandosi alla cima si individuano invece rocce più chiare: marmi e quarziti. È stata proprio la quarzite a plasmare la forma dello Scalino. Il quarzo è infatti tra i minerali più tenaci e la sua presenza massiccia ha limitato l’erosione nella parte sommitale della montagna che si è quindi mantenuta così ardita e impressionante.

Pizzo Bello, Picco Glorioso, alla fine il nome che si è imposto su questa meravigliosa montagna è stato Disgrazia (3678 m), anche se di disgraziato ha ben poco. Probabilmente l’origine deriva da un errore dei primi topografi che mal tradussero la parola “Desglacia” con cui i locali indicavano l’acqua di fusione prodotta dai suoi ghiacciai durante l’estate. I ghiacciai che si scorgono intorno alla cima costituiscono il bacino superiore del ghiacciaio della Ventina. Interessante notare i diversi colori delle rocce: il colore bruno e rossiccio indica i serpentini alterati (ossidati), a destra compare invece il grigio granito tipico del massiccio del Masino-Bregaglia. Il Disgrazia è in effetti il punto di contatto tra queste due unità litologiche così diverse. L’ombra proiettata sulle nuvole è proprio lui, il Pizzo Scalino.
Salendo i primi risalti che portano verso lo Scalino.
I primi raggi di sole colpiscono la cima del Pizzo Scalino. La parete in ombra mostra la stratificazione delle rocce che costituiscono questa montagna, non è difficile cogliere lo strato di rocce chiare al di sotto della cima. Sulla sinistra compare un lembo del ghiacciaio dello Scalino.

Le vie per raggiungere la cima dello Scalino sono diverse, tutte di difficoltà abbastanza contenuta. Sono itinerari di tipo escursionistico (EE) quelli che salgono dal Passo degli Ometti attraverso la Val Painale e quello che sale dalla Val Forame, un ramo laterale della Val Fontana (una valle selvaggia che da Sondrio raggiunge direttamente il massiccio Scalino-Painale). Dal sapore più alpinistico sono invece l’itinerario che dal Passo degli Ometti punta dritto alla cima dello Scalino (cresta degli Ometti, passi di arrampicata di II e III grado) e la via normale del ghiacciaio, che raggiunge la cima attraversando il ghiacciaio del Pizzo Scalino. Non c’era dubbio che avremmo scelto quest’ultima, quando si può calcare la superficie di un ghiacciaio siamo sempre in prima linea.

Torniamo però alla gita. Vista la nebbia è una fortuna che la prima parte del percorso segua una strada sterrata. La scarsa utilità della vista quando si è sprofondati nella nebbia, acuisce gli altri sensi. Il rumore delle suole sull’erba bagnata e lo scorrere dell’acqua sono insolitamente nitidi, così come il penetrante odore di selvatico, dei tanti animali che ogni estate vengono portati quassù per la bella stagione. Ogni volta che avverto questo odore sorrido, perché significa montagna vera, dove l’uomo incontra la natura e insieme si aiutano l’un con l’altro, con lentezza e rispetto. Tanti pensieri ci ronzano per la testa, mentre le parole sono stranamente poche. Non abbiamo molta voglia di parlare, ci sembra quasi un peccato rompere quest’atmosfera silenziosa, ma allo stesso tempo carica di suggestioni.

L’assaggio di autunno è presto concluso, ogni minuto che passa la luce si fa più intensa e le nubi basse cominciano a strapparsi, colorando nuovamente la montagna di estate. La prima cima che si svela è il meraviglioso Disgrazia. Grazie alla migliore visibilità non solo è più facile orientarsi, è anche possibile capire in quale tipo di ambiente ci troviamo. Bastano poche occhiate per comprendere quanta influenza abbiano avuto i ghiacciai nel plasmare questi paesaggi. Non parlo solamente dei ghiacciai attuali che costellano molte delle cime più alte della Valmalenco, mi riferisco soprattutto agli antichi ghiacciai che riempivano le vallate alpine durante l’ultimo periodo glaciale. Per vedere i loro segni basta abbassare lo sguardo verso i pascoli di Campagneda e di Prabello, subito sotto alle pareti dello Scalino. Un occhio allenato riconosce facilmente i tanti sistemi di morene che in realtà definiscono questi pascoli. A deporre queste morene furono proprio gli antichi ghiacciai che riempivano le Alpi ventimila anni fa, al culmine dell’ultimo periodo glaciale. In molte delle fotografie è possibile apprezzare i numerosi depositi morenici disseminati in questo territorio. Per riconoscerli bisogna essere un poco pratici, ma non è così difficile in realtà. Colli dalle forme arrotondate e arcuate, e con una cresta spesso evidente, sono nella maggior parte dei casi depositi di origine morenica. Per capire se si tratti di formazioni create dagli antichi ghiacciai o da quelli più recenti, bisogna prestare attenzione innanzitutto alla posizione. Se ci si trova alle prese con una morena in un contesto dove di ghiacciai non c’è traccia, magari a bassa quota rispetto al limite attuale delle nevi, è probabile si stia osservando una morena antica, prodotta da un ghiacciaio attivo quando il clima era ben diverso rispetto a oggi. Un altro fattore importante da tenere in conto è la copertura della vegetazione: sulle morene più antiche non è raro trovare alberi o addirittura boschi, nel caso degli apparati più giovani la vegetazione è del tutto assente e i detriti sono esposti all’azione degli agenti atmosferici.

Per incontrare morene più giovani bisogna portarsi a quote maggiori, dove i ghiacciai hanno potuto deporle al termine della cosiddetta piccola età glaciale, ovvero il periodo fresco che ha alimentato l’ultima grande avanzata dei ghiacciai alpini, interrotta alla fine del 18mo secolo. Un bell’esempio in questo senso viene dal deposito detritico che occupa la conca posta tra il Cornetto e lo Scalino, da cui passa il sentiero diretto al ghiacciaio. La conca compare non appena la salita che dalla Piana di Campagneda conduce alla fronte del ghiacciaio dello Scalino, si addolcisce. È un luogo impressionante, si avverte che qui la montagna si sta trasformando davanti ai nostri occhi. Fino pochi decenni fa era interamente riempita dal ghiaccio, oggi è una distesa di enormi macigni caotici, pronti a crollare non appena li si sfiora.

Il piccolo larice cresce sulla cresta di una morena, depositata migliaia di anni fa dai grandi ghiacciai che riempivano le vallate alpine. Sullo sfondo le cime occidentali del massiccio del Bernina: si riconoscono la Sassa d’Entova (3331 m) e il Pizzo Malenco (3438 m).
Un’altra fotografia da cui si coglie l’origine glaciale della Piana di Campagneda. I colli che chiudono la piana sono le morene frontali depositate dal ghiacciaio che in tempi remoti scendeva dalle pareti occidentali del Pizzo Scalino. La piana delimitata dai colli, dove ancora aleggia un velo di umidità, è una tipica piana glaciale: quando il ghiacciaio raggiunse la sua massima estensione, scavò una depressione che è fu riempita di detriti quando il ghiacciaio si ritirò. Probabilmente prima di essere colmata del tutto, la depressione ospitava anche un piccolo lago glaciale. Esistono tantissimi esempi di questo tipo sulle Alpi.
Ghiacciai di oggi e ghiacciai di ieri. Incastonata tra le cime del Piz Argient (3942 m) e del Piz Zupò (3996 m) una delle colate che alimentano il ghiacciaio di Fellarìa Occidentale. In basso in primo piano il sinuoso dosso che scende dal Passo di Campagneda verso Campo Moro è ciò che rimane di una grandiosa morena laterale, deposta da una grande ghiacciaio che fluiva verso la bassa Valmalenco oltre diecimila anni fa.
Il primo raggio di sole della giornata.
Ed ecco invece Enea che attraversa un deposito morenico di origine recente, siamo nei dintorni del Cornetto, il piccolo sperone roccioso posto subito a nord dello Scalino. Fino a pochi anni fa il ghiacciaio dello Scalino invadeva completamente questa conca detritica con una lingua secondaria. L’accumulo delle pietre è avvenuto grazie all’interazione tra le frane staccatesi dalla parete nord dello Scalino, e il ghiacciaio che ha trasportato e accumulato i detriti nella conca. Ancora oggi si notano delle placche di ghiaccio sepolto nascoste tra i massi; testimoniano la rapidissima evoluzione di questi ambienti. A differenza delle morene più antiche, qui la colonizzazione delle piante è del tutto assente e lo stato di assestamento dei detriti è del tutto precario. Un caotico e affascinante mondo di sfasciumi.
Finalmente la fronte del ghiacciaio dello Scalino. Ci sono volute quasi due ore di continua salita per raggiungerla, ma ormai la vetta non è così lontana, non rimane che attraversare il ghiacciaio e risalire gli ultimi pendii rocciosi. La valle che si apre in lontananza è la Val Poschiavo, in Svizzera.

Artefici di questo paesaggio sono stati il ghiacciaio e le numerose frane che accumulavano i massi sul ghiacciaio. È stato proprio quest’ultimo che con il suo movimento ha raccolto e depositato i detriti nella conca. Per cogliere la differenza tra queste morene di recente formazione e quelle più antiche, basta dare uno sguardo alle fotografie.

Dopo aver attraversato i detriti siamo finalmente al limitare del ghiacciaio dello Scalino. Sono trascorse un paio d’ore da quando abbiamo cominciato la salita e nel frattempo la giornata è esplosa e le nuvole sono state spazzate via. Solo le cime più alte sono ancora incappucciate, ma per fortuna non lo Scalino. Quando raggiungiamo la fronte del ghiacciaio la cosa che subito ci colpisce è la quantità di acqua che scorre sulla sua superficie. Non ci aspettavamo di trovare una fusione così intensa, soprattutto considerando che non sono nemmeno le dieci del mattino e che siamo a fine settembre. Purtroppo le temperature sono ancora alte rispetto alla stagione in cui ci troviamo, quasi fossimo a fine agosto invece che a fine settembre. Il ghiacciaio non può fare altro che fondere copiosamente, mostrando tutta la sua sofferenza. Oltre all’acqua di fusione che scorre sulla superficie, un’altra conseguenza del ritiro del ghiacciaio è il progressivo aumento della sua pendenza. Decenni di ritiro non solo hanno determinato una riduzione drastica della superficie di questo apparato (passato da oltre 200 ettari negli anni ’80 a 150 ettari nel 2007, fonte “Il catasto dei ghiacciai Lombardi”, Servizio Glaciologico Lombardo, 2012), ma anche un aumento generale della sua pendenza. Non parliamo di inclinazioni esagerate, ma sicuramente quella che un tempo era una piacevole passeggiata su ghiaccio è diventata oggi un’escursione un poco più impegnativa dal punto di vista tecnico e richiede un minimo di esperienza in questo tipo di ambiente, anche considerando i grandi crepacci che si trovano sul ghiacciaio.

Ci sediamo su un masso al limitare del ghiacciaio e diamo il via al rito della preparazione. Ramponi, piccozza, corda. Andare su un ghiacciaio è unico anche per questo. Per quanto un ghiacciaio sia tranquillo e apparentemente elementare da affrontare, è sempre buona norma attrezzarsi nel modo corretto. Alcuni potrebbero considerare questo aspetto noioso: bisogna portare parecchio materiale nello zaino e si perde tempo. Personalmente non la vedo così, per me questo è un vero e proprio rituale, come fosse un saluto al ghiacciaio prima di entrare nel suo dominio.

La parte inferiore del ghiacciaio dello Scalino. Le poche chiazze di neve sono superstiti dalla nevicata di fine agosto, l’unico episodio fresco che ha interrotto la fusione altrimenti ininterrotta dei ghiacciai alpini durante questa lunga e calda estate.

La prima parte di salita è malinconica, vedere un ghiacciaio ridotto in queste condizioni non può essere piacevole. Il ghiaccio vivo è esposto agli implacabili raggi del sole ed è nel pieno della fusione, ovunque corrono dei rivoli e tutta la superficie è solcata da torrentelli gonfi d’acqua. Solamente guadagnando quota compaiono le prime chiazze di neve, si tratta dei residui della spolverata di neve che ha imbiancato le Alpi a fine agosto, provvidenziale nel dare un minimo sollievo ai ghiacciai. Salendo ancora la copertura nevosa diventa più continua, specialmente dove l’ombra delle pareti l’ha protetta dal sole. L’ultimo ostacolo necessario per uscire dal ghiacciaio e raggiungere le rocce che conducono alla vetta, è il superamento della crepacciata terminale. Chi ha frequentato i ghiacciai la consocerà molto bene, è infatti una struttura tipica di quasi tutti i ghiacciai. È un grande crepaccio che però, a differenza dei crepacci normali, non è dovuto al solo movimento del ghiaccio. La sua presenza indica infatti la discontinuità tra la parte più alta del ghiacciaio, incollata alla roccia e quindi immobile, e quella inferiore, soggetta al naturale movimento del ghiaccio verso valle. Specialmente a fine stagione, a causa della fusione, è spesso molto allargata e pone delle difficoltà nel suo superamento. Tentiamo di attraversarla direttamente, ma presto desistiamo. È tardi e fa caldo, meglio non fidarsi del ponte di neve che collega i due lembi di ghiaccio. L’unica soluzione è raggiungere il limite del ghiacciaio e spostarsi sulle rocce laterali per poi tornare sul ghiacciaio al di sopra della crepacciata. Da qui in breve siamo al punto più alto del ghiacciaio e con l’aiuto di alcune catene risaliamo il dorso roccioso che conduce alla cresta finale. Qui incontriamo un gruppo di ragazzi che ha dormito al bivacco Cederna-Maffina e hanno raggiunto lo Scalino dalla Val Fontana. Percorriamo la cresta e a ogni passo aumenta il senso di vuoto e di libertà che circonda la cima. In men che non si dica siamo in vetta, soli e nuovamente immersi nel silenzio. Ma questa volta tutto ci spinge a raccontarci le nostre impressioni, facciamo a gara a chi riconosce la cima più lontana. “Quello deve essere il Legnone, quello dietro potrebbe invece essere addirittura il Resegone? Mi sembra impossibile, ma mai dire mai…”. Nell’arco di poche ore la montagna si è trasformata completamente. Questa mattina all’alba la nebbia copriva tutto e il silenzio della montagna ci invitava a tenere lo sguardo basso e a concentrarci sui nostri pensieri e sul misero fazzoletto di sentiero che potevamo vedere passo dopo passo. Quassù è tutto l’opposto. Il cielo azzurro e la vastità di questo istante ci obbligano a spingere lo sguardo il più lontano possibile, immaginando già la prossima gita. La montagna è spavalda e ci dice “avete visto di cosa sono capace?”.

Avanzando sul ghiacciaio. Sono ancora visibili qua e là delle chiazze di neve relativamente fresca, evidenziata dal colore chiaro. Ma molto più evidente è il nevato che compare nella parte sinistra della fotografia. Si tratta dello stadio di trasformazione intermedio tra neve e ghiaccio. Ciò che lo distingue rispetto ad entrambi sono la densità (maggiore di quella della neve fresca, ma minore di quella del ghiaccio vero e proprio) e l’età, dal momento che per parlare di nevato sono necessari almeno due anni. Trovarlo sui ghiacciai è importantissimo, significa che il ghiacciaio in questione è ancora in grado di accumulare una minima quantità di neve durante l’inverno e che la fusione estiva non è in grado di eliminare tutto l’accumulo invernale. Molti ghiacciai alpini sono talmente compromessi da un punto di vista climatico, che al termine della stagione estiva non presentano traccia di nevato in superficie, ma solo ghiaccio vivo. Quei ghiacciai sono destinati a scomparire, dal momento che non possono più accumulare massa, nemmeno nei settori a più alta quota.

Dalla cima si ha una bellissima vista sul ghiacciaio del Pizzo Scalino, ma non è certo l’unico apparato che si veda da questo punto. Lo sguardo è subito catturato dai tanti ghiacciai che circondano il massiccio del Bernina, in particolare quelli di Fellarìa e di Scèrscen. Sono apparati che si sviluppano ad alta quota, sfiorando i 4000 metri. Quote maggiori non implicano solamente un’estensione maggiore rispetto al ghiacciaio dello Scalino, ma anche un migliore stato di salute. Si vede dalle fotografie che la copertura nevosa dei ghiacciai del Bernina è molto più abbondante rispetto a quella del ghiacciaio dello Scalino, dove quasi ovunque è esposto il ghiaccio vivo. È importante soffermarsi su questo punto, poiché è proprio questa caratteristica che più di altre deve farci riflettere sul futuro dei ghiacciai alpini. Laddove c’è accumulo di neve anche durante l’estate, significa che c’è un ghiacciaio che può ancora potenzialmente raggiungere un equilibrio, dato proprio dal bilancio tra accumulo di neve e fusione. Un ghiacciaio che durante l’estate non è in grado di conservare nemmeno il minimo residuo di neve, è inesorabilmente condannato all’estinzione poiché non ha più alcun modo di opporsi alla perdita di massa durante l’estate. Questo tipo di ghiacciai, cui quello dello Scalino si avvicina molto, sono dei veri e propri fossili climatici, testimoni di un clima che non esiste più e inadatti a sopravvivere a quello odierno.

Bello andar per ghiacciai, ma oggigiorno anche un poco triste.

La parte superiore del ghiacciaio. In primo piano un bel masso di marmo bianco, proveniente dalla cima dello Scalino. Spesso i massi depositati sulla superficie dei ghiacciai creano intorno a sé una buca nel ghiaccio, a causa del loro riscaldamento da parte dei raggi solari. Questo masso così bianco riflette però buona parte della radiazione solare in arrivo dal cielo e proprio per questo non è in grado di scavare una buca profonda nel ghiaccio, come spesso fanno le pietre più scure.
Una panoramica del ghiacciaio dello Scalino, visto proprio dalla cima di questa montagna. Si coglie l’estensione di questo bel apparato. Evidente anche il ruolo delle ombre proiettate dalle pareti nel proteggere la neve dal sole e dalla fusione. Il picco solitario al limitare del ghiacciaio è il Piz Canciàn (3103 m), al confine con la Svizzera.
Un particolare della superficie del ghiacciaio: si tratta di crepacci prodotti dalla deformazione del ghiaccio, provocata a sua volta dallo scorrere del flusso del ghiacciaio verso valle.
Una panoramica dei ghiacciai di Fellarìa. Si distinguono le due colate, a destra quella orientale, a sinistra quella occidentale.
Un dettaglio della colata occidentale del ghiacciaio di Fellarìa.
Ed ecco una delle meraviglie di ghiaccio delle Alpi, il ghiacciaio orientale di Fellarìa. La potente colata scende dal vasto pianoro di Fellarìa, una delle più efficienti fabbriche di ghiaccio delle Alpi Lombarde. Il dinamismo di questo ghiacciaio, sintomo di uno stato di salute ancora buono, è suggerito dalla superficie crepacciata e dall’aspetto gonfio della fronte. Al contrario, ghiacciai che presentano una superficie liscia e consumata dalla fusione sono emblematici di una condizione di sofferenza, come ad esempio succede nel caso del ghiacciaio dello Scalino.
Ancora il ghiacciaio di Fellarìa Orientale. Questo angolo del massiccio del Bernina è giustamente considerato un sito unico. È uno dei pochissimi luoghi dove è possibile ammirare un ghiacciaio che è ancora nel pieno del suo dinamismo. Non fraintendetemi, anche qui gli effetti del cambiamento climatico si sono fatti sentire e difatti anche questo ghiacciaio ha subito un ritiro notevole. Basti ricordare che un tempo il ghiacciaio si spingeva al di sotto della balza rocciosa che oggi ne determina la fronte. La colata superiore e quella inferiore (in ombra nella foto) erano unite in unico grande corpo glaciale. Oggi sono separate dalla muraglia di roccia verticale, ma in realtà un collegamento tra di esse esiste ancora oggi. Il ghiacciaio principale superiore continua infatti a scaricare enormi quantità di ghiaccio sulla colata inferiore, fornendogli una fondamentale fonte di alimentazione. Anche in questa fotografia si apprezza questo processo: i conoidi chiari di neve e ghiaccio ai piedi della soglia rocciosa sono prodotto dai continui crolli e rappresentano la piccola zona di accumulo del ghiacciaio inferiore. Il termine preciso per indicare questo tipo di ghiacciaio è ghiacciaio rigenerato.

È ormai da qualche tempo che seguo I Camosci Bianchi con grande piacere, ma non avevo mai scritto nulla in questo spazio. Credo quindi che sia giusto spendere qualche parola di presentazione. Sono arrivato qui in quanto amante della montagna. Considero il mio rapporto con essa una fonte insostituibile di ispirazione ed energia anche e soprattutto per la vita a bassa quota di tutti i giorni. Cerco di vivere lassù qualche bella avventura, insieme a buoni amici e al cospetto di spettacoli meravigliosi, cosa si potrebbe chiedere di più? In effetti c’è una cosa che mi preme particolarmente: fare sì che l’andar per monti non sia mai una forzatura, ma sia sempre espressione di un autentico desiderio di avvicinarsi alla natura e alle sue tante espressioni. Andare in montagna deve essere un divertimento consapevole, quando questo non accade non è che succeda qualcosa di drammatico, ma secondo me si perde un’occasione. La montagna ha tantissimo da insegnare, sotto tantissimi punti di vista, tornare a casa arricchiti è quanto di più bello possa esserci. Per fare questo è necessario rispettare la montagna, ma anche noi stessi, senza mai forzare né uno né l’altro. In Camosci Bianchi ho percepito una visione molto simile e per questo ho proposto a Beppe se potessi raccontare qui qualcosina delle mie gite di tanto in tanto. Lo ringrazio molto perché ha subito accettato con entusiasmo.

Giovanni Baccolo (@g_baccolo)

6 pensieri riguardo “Il Pizzo Scalino

  1. Grazie infinite Giovanni, è un onore essere stati scelti per pubblicare il tuo bellissimo articolo, ricco di spunti culturali e di foto meravigliose. Ho finalmente chiarito, imparato e scoperto aspetti delle montagne che mi erano sempre un po’ oscuri. Ne ho ancora tante di cose da capire e per questo spero che tornerai presto a raccontare una tua prossima ascensione, magari nelle Valli di Lanzo!

    Tu puoi immaginare quanto io ritenga di estrema importanza per tutti noi l’ambiente delle montagne e sovente mi succede, quando faccio le escursioni, di sentirmi impreparato, inadeguato. E’ una sensazione che emerge proprio dalla consapevolezza di essere molto ignorante su molti aspetti delle montagne. Da questa sensazione discende il timore di “inquinare” i sentieri che percorro, come se fossi un ospite indesiderato. Cerco sempre di fare un grande sforzo di umiltà quando le valli mi spalancano la loro ricchezza: acqua, ghiacciai, foreste, torrenti, flora, fauna, pascoli, pareti… e soprattutto immensa bellezza che nutre l’anima.

    Più gli anni passano e più mi rendo conto che tutta questa magnificenza bisogna guadagnarsela. E per farlo abbiamo bisogno di persone come te, che sanno guardare con scienza e coscienza.

    Solo così possiamo evitare che le terre alte diventino un immenso luna park per scimmioni rozzi ed inconsapevoli.

    Ti auguro buona montagna!

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    1. Figurati Beppe, per me è stato un piacere tentare di raccontare quello che mi frulla per la testa mentre vago per i monti. Hai ragione, la montagna è preziosissima e dovremmo tutti tentare di trarre degli insegnamenti dalla sua frequentazione. Le lezioni che sa offrire sono uniche e insostituibili, ma allo stesso tempo dobbiamo sforzarci di proteggerla e preservarla. Buona montagna anche a te!

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