Come muore un prato (e non solo…)

Scorcio del prato lungo la strada per il Santuario

Testo e foto di Gian Marco Mondino

A Forno Alpi Graie (Val Grande, Valli di Lanzo), quand’ero ragazzo e c’era ancora chi falciava il fieno, i prati migliori erano quelli lungo la stradina che conduceva al Santuario di Nostra Signora di Loreto. Passato il vecchio ponte di legno, ci si trovava in mezzo al verde punteggiato di fiori d’ogni colore. L’erba era alta e rigogliosa ed ospitava, tra gli altri, persino il nero raperonzolo di Haller, oggi diventato rarissimo in pochi angoli marginali. Ad un certo punto il tratturo piegava a destra, per accostarsi alle accidentate pendici boscose della montagna, all’altezza di un’edicola votiva. Questo per non togliere spazio alla preziosa risorsa dei prati, i quali erano interrotti unicamente dai muretti della “strà d’le crave” (strada delle capre), che li attraversava. Il tracciato a ciottoli, in margine alle rocce, con tanto di muri di sostegno, continuava ad offrire, verso sinistra, la vista della distesa prativa in tutta la sua estensione e bellezza. Oggi, dopo la costruzione della carrozzabile, rimane un brevissimo tratto di questo sentiero, ignorato da tutti. Troppa fatica ripulirlo e segnalarlo? Superato un piloncino sulla roccia in margine al torrente, si transitava sul ponticello e si affrontava la salita finale al Santuario, su stradina o sull’erta, rozza scalinata storica. Rammento che, andando a Messa al Santuario, se ero in ritardo, tagliavo su per quei gradini sconnessi, dove mi capitava spesso di notare dei pellegrini che effettuavano la salita in ginocchio, recitando un’Ave Maria per scalino.

Il prato lungo la strada, con scavi dei cinghiali, sassi e avanzi di legname

Oggi questo mondo è completamente scomparso. L’alluvione del ’93 ha distrutto tutta la zona prativa più prossima al paese, e va dato atto alle ultime amministrazioni di aver inerbito almeno una parte della vasta zona invasa dai detriti, attenuando in parte la desolazione. Degli antichi prati non resta, però, che un breve tratto, nella zona superiore, compresa tra il torrente e la montagna, e bisogna vedere in che stato sono ridotti! Ma lo sfacelo è iniziato molto prima dell’alluvione, per cui bisogna fare un po’ di storia.

Il Santuario di Nostra Signora di Loreto (1340 m) di Forno Alpi Graie (1219 m, Comune di Groscavallo) ubicato all’ingresso del Vallone di Sea (foto camosci bianchi)

Tutto è iniziato nei primi anni 60’, con la brillante idea di costruire la sterrata che conduce ai piedi del Santuario. Il motivo addotto dal potere ecclesiastico locale era quello di rendere più agevole ai “pellegrini” (!) l’accesso al Santuario stesso. Pellegrini! Quelli veri, di una volta, non avevano certo paura di dieci minuti in più di cammino: gente che veniva a piedi dalle valli vicine, con marce lunghissime, o, in tempi moderni, con il pullman, che ricordo stracolmo nei giorni di Ferragosto o l’8 settembre.

La stradina di acceso al Santuario (foto camosci bianchi)

Si volevano facilitare i “pellegrini” di città, nell’illusione che la strada rimediasse al calo di afflusso. La costruzione della carrozzabile, con tanto di ponte in cemento a prova di auto, trovò d’accordo anche l’inclito potere politico locale, ben contento di dare uno sbocco al flusso non di pellegrini, ma di “merenderos”, lasciandoli liberi di dilagare per i prati. Ricordo ancora il caso di un anziano montanaro minacciato di botte da “pellegrini” accampati in un prato e rimproverati per avervi abbandonato dei cocci di bottiglia: il risultato di questo bell’esempio di concordanza tra Stato e Chiesa. Con l’andar del tempo la strada si è “allargata”, diventando a due corsie, grazie al transito ed al parcheggio delle auto, le quali si mangiavano via via i prati, riducendone la superficie a vantaggio dello sterrato.

Un tratto residuo dell’antico sentiero per il Santuario

Anche la parte di salita al Santuario è cambiata. La stradina è stata sostituita da un bel lastricato, scivolosissimo in caso di pioggia e presenza di foglie secche. L’antica scala, autentico documento storico, è stata cancellata, a beneficio di quella nuova, le cui targhette “in memoria” testimoniano i versamenti votivi. La scala vecchia si componeva di 365 scalini, un numero simbolico, un unicum imitato da altre similari costruzioni di accesso ad edifici sacri (es. Frassa e Ciavanis). Ora gli scalini sono oltre 400, alla faccia di una tradizione antichissima, ma congrua fonte di oboli.

Intanto Forno si era spopolato. Poco per volta gli anziani avevano abbandonato l’allevamento e dei prati non importava più a nessuno, nemmeno a chi avrebbe dovuto sorvegliare l’ambiente. In particolare i prati da sfalcio non furono più concimati e l’erba si impoverì, perdendo il proprio rigoglio. Comunque, anche se via via non spuntavano più fiori e gli steli crescevano solo più a raso, il verde restava. Ben presto però ci pensarono i cinghiali a massacrare il terreno. E’ un problema gravissimo per l’ambiente, sviluppatosi per l’inerzia delle autorità, ma richiederebbe un discorso molto ampio, che per ora tralasciamo. Intanto però si era costruito il nuovo acquedotto (sorgente di Sea) e camion e ruspe scorrazzavano per i loro lavori un po’ dappetutto, prati compresi.

L’edicola votiva lungo la strada per il Santuario

Con la tremenda alluvione del ’93 il torrente (che, tra l’altro, si ingoiò il ponte) coprì di detriti una vasta estensione di prati e sconvolse gli argini. Rammento che, dell’imponente diga di massi costruita negli anni ’50, rimasero dei resti esigui. Sopravvisse al disastro solo la parte superiore, l’ultimo lembo, dei nostri prati, quello di fronte all’edicola votiva. I mezzi utilizzati per i lavori di ripristino ambientale aprirono varie piste di servizio, naturalmente attraverso i prati. L’erba sarebbe anche potuta ricrescere, ma queste piste divennero la pacchia dei “merenderos”, che potevano finalmente parcheggiare le auto sui prati, senza più dover fare quei pochi metri per accamparsi. Si sarebbe dovuto chiudere l’accesso a queste piste, ma nulla è stato fatto. Sarebbe bastata l’installazione di una sbarra, in modo da impedire l’accesso agli invasori e nel contempo lasciare la via aperta ai mezzi meccanici per interventi di emergenza. Il nostro esiguo lembo di prato sopravvissuto è diventato dominio del turismo deteriore. Ovunque vi sono state disseminate pietre per realizzare sedili o focolari. Dove i nostri vej toglievano i sassi per ottimizzare il pascolo e lo sfalcio, oggi questi vengono portati in abbondanza, prelevandoli magari dal muretto dell’antica “strà d’le crave”, riducendo il prato ad una desolazione. Per farsi un’idea della gente che frequenta il posto, citerò un esempio: dal tetto della vicina edicola votiva, ad un certo punto, furono tolte delle lose, ovviamente da utilizzare per l’immancabile grigliata di salciccia. Tutti roghi abusivi, si capisce! Ho chiesto a chi di competenza che questo pietrame fosse rimosso, ma senza risultato. Il bello è che nel nostro prato non ho mai visto lo straccio di una guardia forestale o ecologica o che so io, per reprimere il saccheggio dell’ambiente. Naturalmente qualcuno può anche esserci stato (non si può essere sempre lì a controllare), diranno i pignoli, ma risultati non se ne sono visti.

Visione ravvicinata delle arature dei cinghiali sul prato

Il nostro lembo di verde è in piena agonia, se non proprio defunto. Qualcosa si potrebbe ancora fare: chiudere immediatamente l’accesso delle auto alle strade di servizio (quelle fra i prati, ovviamente), procedere all’inerbimento come nel tratto dopo il ponte e, soprattutto, esercitare i dovuti controlli, sanzionando senza pietà i trasgressori. Ma Forno è quasi disabitato, voti ne arrivano pochi, e a chi può interessare la difesa dell’ambiente?

Gian Marco Mondino

16 pensieri riguardo “Come muore un prato (e non solo…)

  1. Grazie ai mass media che ci informano ed allertano, siamo informatissimi (o quasi), ad esempio, sullo scioglimento dei ghiacciai del Polo Nord e sulla vita degli orsi polari ma per prenderci cura del prato dietro casa.. questa è un’altra storia..

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  2. Per comprendere l’importanza di un prato è necessario osservare con cura una zolla, solamente una zolla. La scoperta di quanta vita la anima, la biodiversità delle specie vegetali e animali in essa contenute suggeriscono la grandezza della natura. Allora un prato non è più un prato, ma un miracolo. Purtroppo la meraviglia non appartiene più agli uomini d’oggi.
    Ariela

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    1. Ho letto tante affermazioni di principio di singoli amanti dell’ambiente e della montagna, ma nessuna proposta di azioni concrete. E soprattutto non ho letto alcun intervento dell’autorità preposta. In questo caso (come in tanti altri) il silenzio è colpa, senza nemmeno il coraggio di ammetterla.
      Gian Marco

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