Il Re è nudo

Re delle Alpi: cosí è stato definito lo stambecco. Nonostante il nome, di origine chiaramente tedesca (Steinbock), si tratta di un re tutto nostro. Gli stranieri ce lo invidiano: forse questo fiero cornuto ci rappresenta meglio di tanti papaveri della politica e della vita ufficiale. In un paese di lacché e di pappataci come il nostro, lo stambecco è l’unica figura veramente nobile e fiera. Lo dimostra già il fatto che non si è mai lasciato addomesticare, come se avesse a disdegno gli uomini e il basso mondo. Chissà che la natura non lo abbia posto in Italia per legge di compensazione. Morirebbe di fame, piuttosto che scendere a valle e limosinare il cibo dalla mano dell’uomo, per il quale è difficile dire se abbia più disprezzo o diffidenza.

Così scrisse nel 1950 dello stambecco (leggete il post Re delle Alpi) Anacleto Verrecchia nel suo Diario del Gran Paradiso. Guardaparco come il suo capo (il grande Renzo Videsott), ha consegnato fino a noi un magnifico cornuto che Homo sapiens stava per disintegrare definitivamente. Uomini che hanno lottato per un futuro vivibile e possibile, come oggi non riusciamo a capire, nemmeno leggendo i loro scritti.

Hanno lottato in condizioni estreme affinché un tassello di bellezza delle Alpi (prima ancora che di biodiversità) giungesse fino a noi.

Noi, appunto.

Forse loro, in quegli anni, non potevano immaginare, insieme a tutti i loro colleghi del corpo di sorveglianza del Parco Nazionale del Gran Paradiso, che le armi che minacciavano questi magnifici animali, simbolo delle Alpi, sarebbero state ben altre, molto più potenti e diffuse globalmente, come la nostra stupidità.

Articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa il 13 giugno 2019

Se le attività antropiche dovessero stabilizzarsi gli stambecchi si sposteranno a quote più elevate dove lo spazio per vivere e nutrirsi sarà del 50% più ristretto, spiega la biologa Francesca Brivio nell’articolo sopra riportato.

Chi ha il coraggio di scommettere 1 euro sul fatto che le nostre attività si stabilizzeranno?

Vieyes, 3 settembre 1951

Oggi lascerò Vieyes, il Nomenon, Chantel, la Grivola e la valle di Cogne: mi trasferirò a Ceresole Reale. Dovrei scrivere una specie di “Addio ai monti”, ma i monti ci sono anche a Ceresole. Provo molto rimpianto per gli animali e per i luoghi dove ho trascorso tanto tempo e vissuto tante avventure. Il forestiero non ha sempre vita facile in mezzo a questi montanari chiusi e diffidenti, ma io, tranne qualche episodio isolato, non mi posso lamentare. Ho ricevuto molte gentilezze, per esempio da Gaudi, che mi è sempre stato amico, e della suocera Regina, che mi ha trattato come un figlio. D’inverno mi preparava perfino la tinozza d’acqua calda per il bagno. Quante volte l’ho fatta ridere, la buona e cara signora Regina. Talvolta, quando c’era la neve, la mettevo sulla slitta e la facevo correre all’impazzata, mentre lei, ridendo e gridando, mi pregava di fermarmi. Ma non voglio parlare di me e della mia persona, bensì della natura, degli animali e della vita in generale, così come la si vive e la si vede a due o tremila metri d’altitudine. Arrivederci, stambecchi del Nomenon! Buona fortuna a voi e a me. Spero di rivedervi nella Valsavara, quando vi scenderò dal colle del Nivolet. Ma soprattutto spero che mi riconosciate. Siamo stati buoni amici, no? Sono molto contento di aver contribuito, per quanto mi è stato possibile, alla vostra sopravvivenza. Questo gli uomini non lo capiscono, ma voi sí. Non vi ho sfruttati neppure per scopi «scientifici», come si dice pomposamente. Chi vi studia a fini scientifici non lo fa mai disinteressatamente e vuole impadronirsi perfino della vostra anima. Me ne vado con la speranza che voi e i vostri piccoli possiate continuare a giocare senza troppi pericoli sulle rocce e sui pendii. Ma soprattutto continuate a diffidare dell’uomo, anche quando dice di esservi amico. Lo sapete meglio di me: spesso bisogna guardarsi proprio da quelli che ci stanno vicini. E tu, amico scoiattolo, non mi dimenticare. Mi hai accompagnato tante volte, facendo acrobazie fra un abete e l’altro, quando salivo e scendevo lungo la ripida salita del Nomenon. Continua a giocare, anche da solo, tenendoti però sempre in alto: scendere in basso, in mezzo agli uomini, non è consigliabile. E ora un addio anche a te, vergine Grivola. Tante volte ho alzato gli occhi per seguire la tua verticalità e per vedere la tua punta avvitarsi in cielo. Ti sei talmente impressa nella mia mente che porterò per sempre con me la tua immagine. Abbiamo dialogato segretamente di giorno e di notte, quando splendeva il sole e quando c’era la luna. Talvolta mi facevi paura, come quando, magri nel cuore della notte, lasciavi cadere grandi blocchi di ghiaccio che precipitavano fragorosamente; talvolta mi rasserenavi l’anima con la tua eterna bellezza. Per due volte hai anche attentato alla mia vita: quando ti scalai e quando, in pieno mese di gennaio, rischiai di morire assiderato, insieme con un mia amica, ai tuoi piedi. Ricordi? Faceva così freddo che le mani si gonfiavano come un panettone. Mi piacerebbe conoscere almeno una piccolissima parte di quello che tu, dal tuo altissimo osservatorio, hai vissuto nel corso dei millenni. Tu vivrai in eterno, ma dimmi, non ti sei ancora stancata di vedere gli uomini con tutte le loro pazzie e le loro malvagità? Ma tu sei impassibile e anche inaccessibile. Conservati così. Ancora una cosa: che dire delle mie avventure amorose sul tuo ghiacciaio o sulle tue pendici mentre tu facevi, in un certo senso, da pronuba? Grazie dell’ospitalità, Grivola.

Anacleto Verrecchia


Nemmeno settant’anni fa.

Sembrano trascorsi secoli.

E da allora, tutto è enormemente cambiato.

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