
Testo e foto di Gian Marco Mondino
Grande escursionismo in Val Grande di Lanzo
I laghi di Unghiasse costituiscono una delle mete più suggestive delle Valli di Lanzo, un esempio di wilderness ancora intatto, che rimane impresso nella memoria di chi ha la fortuna di visitarli. Il Gran Lago, il più esteso delle tre valli, si impone per le acque scure e profonde e per l’ambiente severo che lo circonda. Poco più a monte il bacino della Fertà, con il suo colore azzurrissimo e le rive verdeggianti, offre invece uno scenario bucolico, da cui, ricordo, mi separavo con rammarico al momento del ritorno. E non dimentichiamo gli specchi d’acqua minori, tra cui quello del Crotass, incassato in un profondo avvallamento, quasi fuori dal mondo. Per l’escursionista medio (e tale io mi consideravo) queste distese lacustri costituiscono già una meta impegnativa, sia per la distanza sia per il dislivello, ma la fatica è sempre ben compensata dallo spettacolo offerto dai luoghi. Per me e mia moglie la gita ad Unghiasse era un classico della stagione ed offriva ogni volta emozioni intense, consuete e nuove ad un tempo, di quelle che si conservano nel profondo dell’animo.

Con gli anni avevamo individuato percorsi di accesso alternativi, che offrivano scorci impensati. Il tracciato normale, specie nel tratto intermedio fra il Pian d’le Riane ed il Pian Mesost, lo possiamo ben dire, è piuttosto monotono, oltre a rivelarsi alquanto disagevole. Per questo, a suo tempo, non perdemmo l’occasione di cambiare via, quando il margaro riaprì, con un lavoro imponente, l’antico sentiero sulla destra orografica del Pian d’le Riane, e ne fummo ricompensati. In seguito, quasi per caso, fummo attirati da una traccia che costeggia la sponda del Laietto e decidemmo di seguirla: scoprimmo così un percorso tutto nuovo per accedere ai laghi, vario ed imprevedibile.

Ogni volta, percorrendo quei luoghi, sembrava la prima volta. Naturalmente, come sempre capita per le zone poco battute, all’inizio sorgevano frequenti incertezze sulla direzione da seguire. Iniziammo a segnare certi punti con precari ometti, poi passammo a qualche bollo rosso (non so se ne restino ancora o se il tempo li abbia cancellati). I verdi-verdi grideranno allo scandalo, ma il fatto è che il percorso diventava a tratti labirintico e qualche riferimento era necessario. Tanto per dire, un paio di persone che, in zona, si erano smarrite, le abbiamo incontrate. Comunque, se la giornata è tersa, chi esplora, senza timore, queste vie alternative prova il gusto dell’avventura. Ho cercato di rivivere nelle pagine che seguono le esperienze di allora, rielaborando un articolo apparso a suo tempo sulla rivista “Panorami”, che mi ha sempre concesso generosamente di ripubblicare i miei scritti. A tratti mi sono soffermato sui particolari, ma con l’intento di attirare l’attenzione su certi aspetti dell’ambiente che, ad una prima visita, potrebbero sfuggire.
L’Albone
Il punto di partenza per Unghiasse è l’altopiano dell’Albone (m 1378). Un purista, naturalmente, dissentirebbe con decisione e sceglierebbe di salire dal fondovalle, ad esempio da Bonzo, che, in passato, era la sede invernale di chi soggiornava all’Albone. La mulattiera, che inizia dalla parte alta del paese, al termine dell’asfalto, passa interamente nei boschi, con pendenze non eccessive, e tocca la “muanda” del Moujass. Qui, un tempo, si aprivano le radure destinate a prati e campi, ma la vegetazione, i rovi e le erbacce hanno ormai invaso quasi tutto e le case, in gran parte, sono in abbandono. Tuttavia, salendo, non si può fare a meno di ammirare quanto resta della mulattiera e degli antichi muretti di sostegno.

E perché, allora, partire dall’Albone? Personalmente ritengo che le distanze di un’escursione vadano sempre commisurate alle proprie forze. Data la lunghezza dell’itinerario, aggiungere altri 45 minuti di cammino appesantisce di parecchio l’impegno, sempre tenendo conto dell’escursionista medio. Inoltre si ridurrebbe il tempo a disposizione, ad esempio, per esplorare durante il percorso gli angoli che meritano di essere scoperti o rivisti, compiendo qualche deviazione, che raccomando sinceramente.

La prima occasione di apprezzamento è costituita proprio dall’Albone. L’altopiano prativo (ma un tempo dedicato interamente all’agricoltura) merita soprattutto il colpo d’occhio d’insieme, sia all’arrivo sia dall’alto, specie a primavera, quando l’erba è verdissima e fioriscono i ciliegi. In realtà il luogo si impone all’attenzione anche in altre stagioni per i suoi effetti cromatici. In autunno sono il fulvo variegato delle faggete ed il rosso squillante dei ciliegi ad attirare lo sguardo.

In inverno, poiché rimane il sole fino a pomeriggio inoltrato, la neve, sul piano e sui tetti delle case, acquista una doratura dolcissima. Un tempo, quando vi giungeva solo una sconnessa sterrata, sono salito tante volte all’Albone per godermi quella luce e quel tepore, contrapposti al freddo blu del fondovalle. Il clima mite faceva sì che, una volta, i Bonzesi trascorressero qui gran parte dell’anno. Solo d’estate, sembra assurdo, la zona è più avara di spettacolo, poiché i prati, non più curati (di irrigare manco a parlarne), rinsecchiti, spesso devastati dai cinghiali, danno più che altro un senso di tristezza. Anche in questo caso, però, resta l’incanto della vista amplissima sulle cime lontane.

Ma l’Albone è ormai famoso per l’eleganza delle sue case. Gran parte di esse è stata via via restaurata, utilizzando materiali originali, come i blocchi di pietra, le lose, il legno. Le soluzioni architettoniche utilizzate dai costruttori sono spesso perfette ed originali, a volte auliche, ricche di particolari scelti con cura, come finestre, scale, balconi, muretti, pavimentazione esterna. Tuttavia occorre una precisazione, che accontenta i puristi. In gran parte gli edifici sono stati abbattuti ed integralmente rifatti, spesso con l’aggiunta di elementi che non rientrano nella tradizione. Sono belli, bellissimi, al pari dei giardini che li circondano, ma sono “montagna” solo in apparenza; sono creazione artistica, ma non rusticità vera. Questo non toglie che io, come tanti, mi soffermi sempre ad ammirarli. Ma il “vecchio” Albone mi dava più emozioni; esso, però, purtroppo stava crollando e questa, almeno, è stata una soluzione.

Qualche esempio significativo di antiche abitazioni ancora intatte si trova nelle frazioni sparse per i pendii al di sopra dell’altopiano. Questi erano percorsi da un fitto intreccio di sentieri che collegavano un nucleo all’altro ed oggi, dove si sono conservati, offrono la possibilità di passeggiate incantevoli. In certi casi, purtroppo, è stato l’abbandono a rendere i tracciati non più praticabili o difficoltosi; di recente, però, il colpo decisivo è stato inferto dalla costruzione della pista “silvo-pastorale” (come suona bene!), che, larga come un’autostrada, è stata realizzata senza rispettare l’antica rete viaria. Il primo a rimetterci è stato il sentiero-balcone che transitava a monte dell’Albone e costituiva una delle passeggiate più suggestive, varie e ricche di angoli e scorci affascinanti.

Esso toccava due delle borgate più belle e meglio conservate, la Costassa ed il Surneis, dove ancora oggi è possibile ammirare le case “di una volta” e godere di un ampio panorama. Tornando dalla gita ad Unghiasse, vale la pena deviare dal sentiero principale, ad esempio a Vaccheria, per raggiungere le due località, sia pure “su pista”, e scendere quindi all’Albone senza particolari aggravi di cammino. Un ramo della sterrata, da Vaccheria, conduce anche ai Pianè di Sotto, un piccolo nucleo esposto a solatìo, i cui prati, finché furono curati, costituivano un gioiello. Ancora adesso, comunque, l’insieme di boschi, pianori prativi, borgate consente una serie di camminate distensive, alla ricerca di particolari impensati. Chi direbbe, ad esempio, che appena sopra le Benne, nel bosco, si possano trovare i resti di un antico mulino con la sua grande macina di pietra?

La via normale ad Unghiasse
Sistemata l’auto negli avarissimi spazi di parcheggio pubblico (altra cosa, quello privato), iniziamo la salita, seguendo le indicazioni a partire dal moderno lavatoio. Tocchiamo subito alcune borgate fra le più interessanti, Pian d’le Lose di Mezzo e di Sopra, che conservano ancora (fino a quando?) qualche edificio originario ed offrono un’ottima visuale sul sottostante altopiano. E’ interessante osservare la struttura degli antichi edifici con i suoi particolari: a Pian d’le Lose di Sopra su un muro si ammira un tratto di pietre disposte con la tecnica della “piüma”. Entriamo nel bosco passando accanto ad un immenso faggio secolare, l’ultimo di un magnifico filare che è stato purtroppo abbattuto. Quando torno in zona, ad inizio stagione, mi chiedo sempre se lo troverò ancora.


Il sentiero ci conduce alla “muanda” delle Benne (m 1466), posta in una conca circondata dal bosco e sovrastata dalla mole aguzza della Roci Ruta, che rappresenta una rinomata palestra di roccia. In alto, fino all’iniziare del bosco, si vedono ancora le cenge che scalinavano il pendio. Purtroppo il posto non è più quello di Renato e Michelangelo, i due montanari che vi abitarono per tanti anni tenendolo alla perfezione. Il prato è mal ridotto e degradato, la vegetazione e le erbacce avanzano un po’ ovunque. La casa principale, tuttavia, è stata correttamente restaurata (non rifatta!) e costituisce un interessante esemplare di abitazione di montagna. Ma la mia passione sono le contigue balme sotto la roccia, che dovettero costituire lo stanziamento originario e che di tanto in tanto vado a rivedere.

Dalle Benne il sentiero proseguiva nel bosco con angoli suggestivi, come la baita solitaria del “Porti d’le crave”, che ricordava il mondo delle fiabe, o la borgata della Mea (m 1540), che valeva sempre la breve deviazione anche solo per un’occhiata, o la solatia “schiena” prativa sotto l’alpe Vaccheria. Ora di tutto questo rimane ben poco, perché l’“autostrada” silvo-pastorale ha massacrato l’ambiente. Io consiglio, dallo “stradone” appena sopra le Benne, di imboccare il sentiero segnalato, che regala ancora un tratto integro di bosco, fin sotto la Vaccheria, dove ritroviamo il “mostro”. Sotto l’alpeggio si estende un vasto pianoro prativo, che a sua volta, oggi, risente del degrado. Naturalmente del suggestivo sentiero-balcone, che univa l’alpeggio alla borgata della Costassa, non resta quasi più nulla. Non ci si è nemmeno curati di lasciarlo sopravvivere in parallelo alla strada. I tratti rimasti, che sarebbero ancora fruibili, sono pieni di sassi. Il ramo che permetteva di scendere ai Pianè di Sotto è irraggiungibile. Finalmente da Vaccheria (m 1567) in su, almeno per ora, di “autostrada” non c’è più traccia. Imbocchiamo il sentiero, iniziando, si può dire, la gita vera e propria.

Dalla stalla più alta, con il “crotin” abbandonato (l’acqua arrivava dal lontano Pian d’le Riane), il sentiero segnalato volge a destra (la “vi’ di’ gens”) e risale, con faticosi gradoni, il canalino sopra l’alpeggio. Ma se dalla baita, invece, si piega a sinistra e poi subito a destra su una traccia che rimonta il praticello incolto, si accede alla “vi’ di’ vaccias”: un percorso meno ripido, a tratti nella fitta abetaia, che è il mio preferito. I due rami si ricongiungono poco sopra, presso la “careja dou diau” (un incavo nella roccia a forma di sedile con braccioli), e raggiungono l’alpe abbandonata delle Balme (m 1783). Essa è preceduta da un suggestivo pilone votivo situato in posizione dominante, in cima al ripido “corridoio”, quasi ad incoraggiare chi risale il pendio. Alle spalle delle Balme, verso valle, si estende una grande gobba rocciosa che offre un’ampia visuale. Dalle baite, proseguendo il percorso, si accede ad una sorta di sentiero pensile, che in realtà è quanto resta del canalino, costruito su muretto, che portava l’acqua alle baite. Un segno significativo del lavoro minuzioso che i montanari d’un tempo hanno lasciato.

Un’ultima breve rampa conduce all’immensa conca glaciale del Pian d’le Riane (m 1780 circa), che a primavera brulica di genzianelle, viole, anemoni e rododendri splendenti tra le rocce. In epoca remota occupato da un lago, è uno dei luoghi più significativi di tutta la valle e merita una sosta, per guardarsi d’attorno e notare i particolari (tra cui, sulla sinistra, un interessante “freitè” sotto un masso). E’ di grande suggestione seguire con lo sguardo il serpeggiare tra l’erba del corso d’acqua luccicante. Il sentiero segnalato piega a destra, attraversa il prato, e va a superare il torrente. Il vecchio ponte megalitico è crollato, per cui, al tempo del disgelo, l’attraversamento del corso d’acqua può essere problematico. Quindi il tracciato raggiunge la pendice montuosa e comincia a salire: è l’inizio del percorso normale verso i laghi di Unghiasse. Chi volesse deviare momentaneamente piega a destra, in piano, supera le baite di Giardoneri (dirute da una valanga) e, costeggiando il torrente, va a scoprire l’alpeggio della Losa. E’ un “ritardo” di pochi minuti, che consente di conoscere uno degli alpeggi più appartati in assoluto che io abbia visto.

Un lungo, tortuoso, tratto sulla sinistra orografica conduce all’alpe della Miandetta (m 2084), dove il sentiero piega poi verso il Laietto. Si tagliano fuori le baite del Gias Bondone (m 2224), che, ancora ben conservate, dall’aspetto che sa di antico, varrebbero la breve deviazione; da esse partiva il sentiero che puntava direttamente al lago minore di Unghiasse, detto del Crotass (m 2468). I più esperti tagliavano al libero risalendo per le “losere”, le caratteristiche gobbe di rocce montonate. Lo specchio d’acqua, racchiuso in una conca appartata e silenziosa, per la sua bellezza potrebbe costituire da solo la meta di un’escursione, come mi è capitato di fare un paio di volte. Procedendo sul tracciato principale, si transita poco sopra il Gias Vej (m 2141), situato su un caratteristico terrazzo che domina sul Pian d’le Riane. Tra gli edifici, dalle forme e dimensioni più varie, si nota anche un esempio di stalla ad un solo spiovente, un caso non dei più frequenti dalle nostre parti, utilizzato in genere per il bestiame piccolo.

Dopo una breve rampa si giunge ad un tratto pianeggiante molto gradevole, attraversando il torrente; è il Pian Mesost (m 2230 circa). Le grange omonime, ormai abbandonate, si trovano più in alto sul pendio (m 2365). Infine un lungo traverso a sinistra conduce alle baite del Laietto, che prendono il nome dal contiguo piccolo bacino, ormai eutrofizzato (m 2298). Qui le nostre strade si dividono: il percorso segnalato aggira un dosso, transita in una valletta prativa ed affronta il lungo ed erto tratto finale di salita, che sbocca presso l’emissario del Gran Lago (m 2494). Di lì parte anche il sentiero che supera un grande dosso prativo e scende sul già citato lago del Crotass.

I percorsi alternativi
Al Laietto si giunge anche con l’itinerario alternativo, di cui ho fatto cenno più sopra. Torniamo al Pian d’le Riane (m 1780). Lasciato il sentiero segnalato, ci teniamo sulla sinistra della conca (destra orografica) costeggiando il torrente. Si superano due baite diroccate (“Porti Brün”) poste su un dosso, una passerella e si giunge al punto di guado verso sinistra. Se fosse impraticabile per la piena, si prosegue dritto fino ai piedi del pendio di fondo (oltrepassando la casetta della “peschera”, da cui sgorga una sorgente), dove si incontra un ponticello: lo si attraversa e si torna indietro fino al guado. Varcata l’acqua, si inizia a salire su tracciato ben evidente, prima su pietraia (notare, sulla sinistra, un bel “freitè” tra i massi), poi in mezzo a fitti arbusti. Più in alto il pendio si addolcisce e il sentiero traversa a destra, procedendo in un ambiente intatto. Si aggirano dei valloncelli suggestivi, si lambisce un gradevole pianoro prativo con dei ruderi, finché un’ultima rampa conduce al Gias dou Soleil (m 2206), con vari edifici ed un’imponente baita, che rappresenta un vero capolavoro di arte muraria.

Superate le case, si attraversa verso destra il modesto ruscello della Valletta e si risale il versante opposto (sorgente). Qui però una breve parentesi si impone. La Valletta è un suggestivo solco, poco profondo, dall’ambiente molto intatto, che risale fino al colletto omonimo (m 2500, contrassegnato da un ometto), di grande effetto panoramico. Lungo il percorso si incontrano alcuni “baciass” (pozze) ed i ruderi di Gias Streit (m 2376). A me è capitato di utilizzare questo luogo così ameno come meta a sé stante: risalito il Vallone Vercellina, ho deviato a destra per il Gias Massi (m 2315), da cui un sentiero abbastanza evidente mi ha condotto al Colle della Valletta. Di qui sono sceso al Gias dou Soleil (m 2203) e di lì a Pian d’le Riane, chiudendo poi l’anello. Un giro che vale davvero la pena.

Ci lasciamo alle spalle la Valletta, incontrando due bivi consecutivi, in cui si tiene sempre la destra. Il sentiero si fa incerto, per cui spero resti ancora qualcuno dei bolli rossi che avevo lasciato. Attraverso una zona prativa si sale all’alpe del Laietto (m 2298), da cui ci si propongono le due varianti, entrambe affascinanti, di cui ho fatto cenno. Nel primo caso, dalle baite, si aggira il dosso soprastante e, giunti al pianoro prativo sopra citato, si abbandona il sentiero segnalato tagliando a sinistra tra l’erba ed imboccando la traccia accidentata che risale tortuosamente l’antistante pendio, fino a raggiungere il diruto Gias delle Giornate di Punta (m 2386). E’ un peccato vedere in abbandono questo alpeggio, sito su un aperto poggio, che un tempo offriva lunga sosta alla mandria.

Transitiamo appena a sinistra delle baite e sbocchiamo in una stupenda, lunga valletta erbosa (Pian Fret), solcata dal torrente che scende dalla Fertà. Andiamo ad attraversarlo. Il sentiero, ben evidente, risale il morbido pendio tra prati fioriti. Ad un certo punto costeggiamo i “baciass”, resti di un antico lago ormai esaurito e ridotto a torbiera. Alcune pozze riflettono mirabilmente l’azzurro. Sopra di noi le baite del Bec di’ Osei. E’ uno dei tratti più suggestivi di tutto il percorso, per me indimenticabile. Il sentiero ci conduce all’alpe Drè di’ Lè (Dietro i Laghi, m 2551) e, in breve, al Lago della Fertà (m 2557), presso il suo emissario. Sullo sfondo, contro il cielo, il Colle della Terra, da cui si accede al Vallone della Crocetta.

Il Lago della Fertà (2557 m) costituisce uno dei miei più intensi ricordi, con il suo ambiente bucolico ed il suo silenzio. Dopo l’indispensabile pausa, con mia moglie risalivamo per breve tratto il pendio a monte ed andavamo alla scoperta dei bacini minori, uno più vasto, gli altri ristretti ed articolati dai massi, ognuno con i suoi particolari da offrire. E’ un’esperienza che raccomando: dietro una gobba prativa o un gruppo di massi ci si trova davanti, inaspettato, uno specchio d’acqua, che può essere un vero e proprio laghetto o un’umile pozza, asciutta in stagione avanzata. Si ridiscendeva al lago e se ne completava il periplo. Sul dosso che lo sovrasta a valle si trova un delizioso laghetto che merita la breve salita. Era d’obbligo sedersi un momento lungo la riva del lato a valle della Fertà ed ascoltare il sommesso sciacquio, quale non mi è mai capitato di sentire altrove. Poi il sentiero, scendendo per una valletta, ci conduceva al Gran Lago d’Unghiasse (m 2494).




La seconda variante di salita alla Fertà è più lunga ed avventurosa, ma ancora più affascinante. Al Laietto si percorre il sentierino che costeggia, sulla sinistra, lo specchio d’acqua ed inizia poi a salire, dapprima ben evidente. E’ impossibile, però, descrivere in modo particolareggiato il percorso, poiché la traccia procede in modo tortuoso, con alcuni bivi, a tratti marcata a tratti incerta, ma mai lineare. Mi auguro che resti ancora qualcuno dei bolli rossi che ho lasciato. Si può dire che ogni curva riservi una sorpresa: un praticello, una pozza, il bacino prosciugato di un laghetto. Ad un certo punto si notano due rocce montonate di forma tondeggiante, tra le quali si trova un avvallamento: solo osservandolo da un po’ più in alto si nota che esso contiene un piccolissimo specchio d’acqua, alimentato non so come. Per me era una magia. Più oltre si incontra una lunga e nuda “losera” (lastroni di roccia liscia), che si rimonta per sboccare nella conca dei “baciass”, sotto il Bec di’ Osei. Si attraversa il ruscello, si risale il pendio ed in breve ecco le baite di Drè di Lè ed il lago.

E’ un peccato che l’abbandono ed il logorio del tempo rendano problematici per gli escursionisti questi percorsi così affascinanti. Sarebbe davvero lodevole che il Cai (o comunque gruppi di volontari) prendessero in mano la situazione e rendessero accessibili a tutti gli itinerari che ho descritto. Si tratterebbe soprattutto di ritracciatura, e non della più faticosa pulitura, poiché, data l’altitudine, la vegetazione è molto rada.

Il Gran Lago di Unghiasse è tutt’altra cosa rispetto alla Fertà. Anzitutto si impone per la sua grandezza, la sua severità, la profondità delle acque. E’ posto in una lunga conca glaciale incassata, delimitato a valle da enormi rupi levigate. E’ bello camminare su di esse osservandolo dall’alto, così come costeggiarlo gustandone i particolari, come un praticello o un pendio erboso o una prominenza delle rocce. Le sue rive sono assai più varie ed articolate rispetto alla Fertà. Quando le giornate non sono serene o si avvicina il tramonto, le acque si fanno scure, grigio-ferro, quasi minacciose. Dal punto di uscita dell’emissario non resta che imboccare il ripido sentiero del ritorno. Una piacevole esperienza che mi è capitato di fare, in giornate serene, è stata quella di scendere “al libero” verso il sentiero sottostante del Laietto. Si incontrano spazi intatti ed alcuni estesi, azzurrissimi, baciass.

Gente d’alpeggio
L’immensa conca di Unghiasse è fitta di baite, ancora in parte utilizzate, altrove ormai in rovina. Fino agli anni ’50 vi salivano ben cinque margari con un cospicuo numero di animali. Oggi l’intero territorio è fruito da un unico mandriano con oltre un centinaio di “bestie” Ognuno di tali alpeggi, si può dire, ha le sue storie da raccontare nella persona di chi ci ha vissuto. Qualcuno ho avuto modo di incontrarlo. Uno dei tanti a sperimentare la vita di “bocia”, poiché questa era l’usanza, è stato il signor Beppe Perotti, nel 1955, all’età di undici anni. L’affittuario di un’alpe, che di suo possedeva sette-otto “bestie”, ad inizio stagione si rivolse a varie famiglie per ottenerne altre in affido e intanto chiese se Beppe fosse disposto a seguirlo e i genitori acconsentirono. Era sempre una bocca in meno da sfamare. Il vitto, in alpeggio, non offriva altro che la pura sussistenza. A colazione mangiavano polenta e “giuncà” (ricotta) con un po’ di “vercol” (siero). Se si pensa che quest’ultimo era da molti riservato agli animali, è detto tutto. Stessa cosa a pranzo, salvo che la polenta era arrostita. Alla sera, minestra con latte di capra, acqua, patate ed un po’ di pasta. A cucinare era il proprietario stesso dell’alpeggio, Bertu “Cüssii” (di Cossiglia), il quale, essendo già anziano, non si sentiva di gestire in prima persona l’attività e fungeva da garzone dell’affittuario. A Ferragosto fu una vera festa mangiare un po’ d’insalata portata su da valle. Un paio di volte ci fu una sorpresa: secondo un’usanza abbastanza diffusa, il margaro prelevò un po’ di sangue dal suo torello , lo fece friggere e lo servì insieme alla polenta.

Il primo tramüd, Pianè di sopra, dove sostavano una quindicina di giorni, era raggiunto con una lunga marcia di trasferimento: da Chialamberto salivano a Bonzo, di lì all’Albone ed infine alla loro meta. Quindi si spostavano a Pian d’le Riane per fermarsi una decina di giorni alla Losa (m 1745). Questo è un piccolo “gias”, che pochi conoscono, data la sua posizione marginale, quasi nascosta. Vi si giunge dal Gias Giardoneri costeggiando il torrente ed è un punto piuttosto suggestivo. Anni fa era stato riaperto il piacevole sentiero che vi sale direttamente dai pressi di Mansonetta (sotto la Mea), ma un’imponente valanga lo ha poi distrutto. La Losa è la dimostrazione di come, in passato, ogni minimo ritaglio di pascolo fosse scrupolosamente sfruttato.

Proseguivano quindi per Miandetta, un bel pendio verdeggiante, ed infine con un lungo traverso a sinistra, superate le baite del Laietto, raggiungevano le Giornate di Punta, l’alpe più ricca, dove rimanevano un mese intero. Di lì si spingevano sui pendii verso il Gran Lago, dove le mucche brucavano la “burcëtta” (trifoglio alpino), che rende il burro più colorito e gustoso. I montanari potrebbero costruire un poema su questa erba sempre più rara. Malgrado la giovane età il signor Perotti svolgeva tutte le mansioni di un adulto, come preparare e mungere le bovine, custodirle durante il pascolo, collaborare alla lavorazione del burro e del formaggio, che il margaro portava in paese alla sera.

Condizioni migliori trovò il signor Piero Enrietta di Bonzo che, con la famiglia, e come tanti altri, trascorreva gran parte dell’anno all’Albone. Cominciò assai presto come “bocia”, per passare a dieci anni, dal 1950 al 1954, sotto i Riva. Se non altro il cibo era sufficiente e variato da un pasto all’altro. Tuttavia il lavoro era duro, poiché, malgrado la giovane età, svolgeva tutte le mansioni di un garzone. Il suo compito principale era condurre al pascolo il bestiame (e non solo le capre, come accadeva di solito ai suoi coetanei). In tali occasioni si portava dietro una scodella ed una fetta di polenta, che intingeva nel latte, dopo aver munto una mucca. Poi c’era da pulire lo “stabbi” (la stalla), preparare e mungere le bovine, “spatarè la drügi” (il letame).

Un vero esperto dei luoghi e del lavoro d’alpeggio è il signor Giacomo Bossonetto “dou Mit” (del Mito). Lo “stranom” risale al bisnonno, Agostino, il quale, cosa rara a quei tempi, aveva svolto la professione di notaio. Tuttavia aveva indirizzato i discendenti al mestiere di contadino, comprando tra l’altro il Crot di Mezzo (nei pressi della cappella della Frassi). Di tale “tramüd” il signor Bossonetto conserva bellissimi ricordi: la fresca sorgente, la struttura delle baite con il tetto a volta, il “crotin” la cui copertura è costituita da un unico, enorme, lastrone di pietra e soprattutto il “freitè” (del 1935), per conservare tome e “giuncà”. E’ un’opera magistrale, quale io non ho mai visto sulle nostre montagne: tutto scavato sotto le rocce, con vari locali isolati dall’esterno tramite un corridoio che manteneva la giusta temperatura. Magari muniti di una pila, vale la pena esplorarlo per notare i particolari (vi si arriva con una deviazione dal sentiero della Frassi, salendo al Crot di sotto). L’aveva costruito il padre Michele, e solo un appassionato poteva creare un’opera simile, così come il sottostante riparo per le pecore sotto un grande masso (un’opera che riporta alla preistoria). Sempre lui , per ampliare la proprietà, aveva acquistato Gias Vej e Bec di’ Osei, nel vallone di Unghiasse. Proprio lì si recavano dopo il pascolo al Crot.

La preparazione della “giuncà” richiedeva, oltre che tempo, molto legname, mancante in altura. Pertanto ogni famiglia faceva provvista in primavera a quote più basse, ad esempio al Pian d’le Riane, e lasciava tutto pronto. In estate si scendeva a prelevarla, per portarla, tutta a spalle, all’alpeggio. Era una fatica improba. Il signor Bossonetto ricorda che gli occorrevano otto o nove pose (soste effettuate appoggiando il carico su un apposito muretto) per compiere il tragitto.
Tanti altri giravano per Unghiasse
Il vallone di Unghiasse non era meta soltanto dei pastori. Anzitutto era frequentato dai cacciatori per la ricca selvaggina. Secondo l’amico Mauro Garbolino era uno dei posti migliori per chi era specializzato nel tiro alla pernice. Inoltre i laghi della zona erano particolarmente pescosi. Ancora Mauro mi ha raccontato un episodio che ha dell’incredibile. Un anno, a novembre, allorché era già caduta la prima neve, si era recato a caccia fino al Gran Lago ed aveva notato che nell’emissario nuotavano centinaia di piccole trote. Quando il cane si avvicinò al ruscello, esse cominciarono a fuggire precipitosamente, persino schizzando fuori dall’acqua e rotolando sulla neve, prima di tornare al loro elemento.

Di caccia e pesca viveva Mini ‘d Pourcheriot, ricavando un certo reddito. Poco a monte della sponda nord del Gran Lago si era costruito un rifugio fra le rocce, sfruttando una balma naturale. L’interno formava un’ampia stanza, con il pavimento di lose. L’ingresso (che oggi pochi conoscono) era sul lato posteriore, mentre anteriormente si apriva una specie di feritoia, da cui egli scrutava l’eventuale arrivo di controlli (poiché non usava mezzi proprio ortodossi) o di altri pescatori, nonché le condizioni meteorologiche sul bacino lacustre, il movimento dei pesci, il vento.
Alcuni mi hanno raccontato la storia, colorata di leggenda, della miniera d’oro al Lago minore di Unghiasse (il Crotass), sotto la Bellagarda. Si narra che un soldato, venuto al paese in licenza durante la seconda Guerra Mondiale, si fosse recato a caccia nel Crotass e che, mentre osservava i movimenti di una marmotta, avesse visto un uomo emergere da un buco della pietraia. Attese che questi si fosse allontanato e raggiunse il posto. Vide una losa con un anello di metallo, la sollevò e scese nella cavità sottostante, scoprendovi appunto la miniera. Riferì poi tutto ai parenti, dicendo che vi si sarebbe recato al suo ritorno dal fronte, ma purtroppo cadde sul campo e il sito del giacimento d’oro non fu più trovato.

Ringraziamo sentitamente il Prof. Gian Marco Mondino per le sue preziose indicazioni, descrizioni e per l’indispensabile contributo fotografico (qui ne abbiamo riportato solo una piccola parte) di un’area alpina molto suggestiva e ricca di spunti culturali.
Abbiamo scelto, grazie a questo articolo, uno dei percorsi alternativi. Ve lo proporremo nel prossimo post (cliccate qui).
Questo articolo lo potete trovare anche sulla nostra pagina Facebook.
Grazie per l’articolo veramente ricco e dettagliato. Sono salito varie volte a Unghiasse, sia dalla via normale dalle Riane che dal vallone di Vercellina. Ricordo bene la prima volta da solo, poche ore dopo un furioso temporale notturno. La pace e la bellezza di quei luoghi non è misurabile, è unica.
Sicuramente la prossima volta ci andrò guardandomi intorno con occhi diversi, magari su uno degli itinerari alternativi descritti qui.
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Il Prof. Mondino è un Escursionista vero. L’ho invitato più volte a far uscire un libro con tutti i suoi scritti, molti pubblicati da Panorami-Vallate Alpine. Scritti ricchi di storie di montagna vera, di escursioni bellissime, di racconti dei vecchi montanari. Insomma, Montagna e non le carnevalate odierne con cui si cerca di “vendere” le Alpi. Sarebbe una grave perdita culturale per tutti non avere accesso ai suoi incontri con le montagne delle Valli di Lanzo.
Tanto per cambiare è l’ennesimo esempio della stolta indifferenza che questo Paese di pupazzi ha verso i personaggi di spessore, quelli che potrebbero fare la differenza tra la ricchezze e la povertà. In senso lato, ovviamente.
Grazie Giancarlo per aver scritto un cosa molto bella che apprezzo tanto: “con occhi diversi”.
A presto!
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