Uno stambecco mi guardava in modo insolito, come se volesse parlarmi. Non era per nulla spaventato e seguiva da vicino ogni mio movimento. Se leggevo il testo di filosofia che avevo con me, lui scuoteva la testa in segno di disapprovazione; se camminavo meditabondo lungo il sentiero, mi si aggirava attorno come il cane di Faust e mi faceva intendere che ero sulla via sbagliata. Aveva l’aria beffarda e di tanto in tanto faceva dei versi che somigliavano a una strana risata. Alla fine mi si è parato davanti e, per miracolo, ha detto: «E inutile che tu ti sprema il cervello leggendo o meditando lungo i sentieri, perché la verità non la troverai mai. Ti condurrò io, se vuoi, alla fonte dei misteri: là potrai avere la risposta che cerchi».
– Chi sei, tu che mi tenti con voce cosí portentosa? Non sapevo che gli stambecchi parlassero. Sei il diavolo, come dice la tradizione popolare? L’aspetto ce l’hai: le corna, la barbetta sotto il mento e perfino l’unghia fessa.
– Non essere superstizioso e considera che fra tutte le creature il vero diavolo è l’uomo. Io sono lo spirito del mondo e ho preso questa forma proprio per non somigliare all’uomo.
– E come fai a conoscere la fonte dei misteri?
– La conosco perché vivo in alto, dove si percepiscono bene le voci che piovono dal cielo. Quelle degli uomini, che vivono in basso, non le ascolto neppure, perché stordiscono e non servono a niente. Tutt’al piú confondono le idee. Allora, sei disposto a seguirmi?
– Dove mi vuoi condurre?
– In alto, sulla punta del Gran Paradiso.
– Ci sono già stato e, a parte la bellezza del panorama, non vi ho trovato nessuna risposta.
– Ma ora, lassú, c’è un convegno del tutto particolare, come potrai vedere tu stesso, se mi segui.
– Ti seguo.
Lo stambecco ha puntato diritto verso la cima del Gran Paradiso e io, come se avessi avuto le ali ai piedi, non facevo alcuna fatica a tenergli dietro. Mi aveva trasmesso le sue energie, o aveva operato un incantesimo? Il salire mi riusciva leggero come lo scendere, e sembrava che per me non esistesse la forza di gravità. Quando avevo visto per la prima volta stambecco erano le dieci o le dieci e mezzo; ora, miracolosamente, il tempo aveva fatto marcia indietro ed era l’alba. I campanacci delle mucche al pascolo salutavano sonoramente le lame di sole che colpivano in modo obliquo i fianchi estremi della grande montagna. La luce era in alto, mentre giú nella valle regnava l’ombra. A un certo punto abbiamo trovato la neve e il riverbero del sole mi accecava. Ho avuto un attimo di smarrimento e la insolita guida ha detto: «La luce abbaglia chi vive nell’ombra, ma tu segui le mie tracce e arriveremo presto alla meta. Io ti farò anche da battipista».
Siamo arrivati sulla vetta come volando. I raggi del sole erano ancora obliqui. Guardavo verso ovest sotto i miei occhi si stendeva un mare di monti che sembravano gareggiare in verticalità. Poi mi sono girato verso est e, per quanto me lo consentissero i raggi di sole, ho visto qualche cosa che mi ha riempito di stupore: quattro figure, dall’aspetto insolito, sono sbucate dalla parte orientale del Gran Paradiso e si sono disposte a semicerchio come in una specie di sinedrio. La cima del monte sembrava un Parlamento, ma silenzioso e pieno di attesa. Io, sempre accompagnato dallo stambecco, ero un po’ discosto, ma nessuno ha fatto caso alla mia presenza.
– Che cos’è quello che vedo?
– È il Consiglio Supremo dei Demiurghi. Sono arrivati da est, come hai potuto vedere, perché la verità arriva da quella parte. Ex Oriente Lux!
– Dei Demiurghi? Platone parla di Demiurgo, al singolare, non di Demiurghi.
– Di’ al tuo Platone che la vita e il mondo sono un piatto troppo vario per attribuirne la ricetta a un cuoco soltanto.
– Ma gli Dei o Demiurghi che siano non avevano la loro sede sull’Olimpo?
– Una volta era cosí, ma poi hanno deciso di trasferirsi qui sul Gran Paradiso, che è molto piú alto dell’Olimpo. Può darsi che un giorno si trasferiranno sul Monte Bianco o addirittura sull’Everest, perché devi sapere che gli Dei cercano di tenersi il piú possibile lontano o al di sopra degli uomini, proprio come facciamo noi stambecchi. Insomma essi vi hanno abbandonati, perché avete perso l’innocenza e non siete capaci d’altro che di delitti e di nefandezze. Se le voci che sono giunte al mio orecchio rispondono al vero, prima o poi ci sarà un nuovo diluvio universale, o qualche cosa di simile, e il primo a perire sarà proprio l’uomo. Ma ora ascoltiamo quello che diranno i Demiurghi. Sono in pompa magna, come vedi, perché si tratta di una riunione molto importante. Siccome bazzico da queste parti, sono anche riuscito a conoscere in anticipo l’ordine del giorno: chi ha fatto e chi governa il mondo? Quella che siede al centro, con aria soddisfatta e trionfale, è la Pazzia. Gli altri sono il Male, la Saggezza e il Bene. Le altre figure non le conosco, ma contano poco e sono lí solo per ascoltare o per far numero. Alcuni devono essere filosofi, come par di capire dalla barba: questa è gente che vuol dare a credere che sotto il loro pelo ci sia chissà quale profonda sapienza. Sono bugiardi e millantatori, anzi ciarlatani. Ma ascoltiamo i Demiurghi. Se hai paura per quello che sentirai, tieniti attaccato alle mie corna, che sono robuste.
MALE: «Gli uomini mi hanno annoiato e ho deciso di sterminarne la specie. Sono troppo vili e non c’è gusto a tormentarli. Mi piacerebbe sentirli urlare di dolore e imprecare contro di me, invece mi scambiano per il Bene e mi adorano. Fanno come gli agnelli che leccano la mano del macellaio. Piú li copro di sciagure, piú essi mi ringraziano. Io ho creato il mondo per divertirmi e per offrire a me stesso uno spettacolo degno della mia natura. E invece che cosa mi tocca di vedere? Quei vigliacchi m’inviano le benedizioni al posto delle maledizioni, scambiando per carezze le mie sferzate e per teatro il circo cruento in cui li ho messi. Gli uomini, tanto per fare un altro esempio, somigliano agli asini di campagna: i contadini li riempiono di botte, ma essi sopportano tutto, non scalciano e muovono tutt’al piú le orecchie. Vigliacchi e servili come sono, gli uomini non ammetterebbero mai che il mondo è opera mia, sebbene ne abbiano la dimostrazione sotto gli occhi. Se qualcuno si arrischia a dirlo, gli altri gli danno del pessimista o del pazzo; e questo è veramente il colmo. Che gusto c’è a governare su esseri cosí ciechi e remissivi, che fanno del masochismo la loro regola di vita? Meglio eliminarli. Per questo ho inventato le armi atomiche: un paio di bombe e il problema è risolto. Devo solo trovare il momento giusto per sganciarle. Poi provvederò a rimpiazzare gli uomini con una specie piú sensibile alle sciagure, che mi dia maggiori soddisfazioni e non dica in ogni momento che la vita è bella. Il mio mondo dev’essere riconosciuto per quello che realmente è: un luogo di tortura, non un parco di divertimenti. A me piacciono le urla di dolore, non le litanie e le giaculatorie».
PAZZIA: «Un momento! Tu puoi tormentare gli uomini, com’è nella tua natura, ma sterminarli mai. Tu regni, ma io comando. E te lo dimostro: senza di me nessuno ti sopporterebbe e in breve tempo crollerebbe tutto. Da ciò risulta non solo che il mondo è opera mia, ma che anche tu esisti grazie a me. È merito mio se gli uomini ti scambiano per il Bene, in quanto io tengo loro la mano sulla testa e faccio in modo che essi non notino la tua presenza. Ogni cosa non è tale, se non lo è anche per il pensiero. Io stravolgo i cervelli e cosí la via crucis può apparire come una bella passeggiata e la forca, mettiamo, come un aggeggio per la ginnastica. Se mi allontanassi per un momento dal mondo, il teatro, come lo chiami tu, si trasformerebbe immediatamente in un cimitero».
SAGGEZZA: «Avrò qualche difficoltà a farmi capire da voi due. Tu, Pazzia, puoi dire tutto quello che vuoi, anche di aver creato e di governare il mondo, ma chi ti crederà? Parli a ruota libera e nella tua povera testa non c’è posto per la logica. Ad ogni modo, se mai ti resti ancora un pizzico di giudizio, io ti esorto a guardarti attorno. Gli occhi, almeno quelli, li hai. Osserva, scervellata, la simmetria e la perfezione della volta celeste, dove basterebbe non dico un granello di follia, ma già solo un tantino di inettitudine per provocare lo scompiglio. Solo la mia mano può dirigere l’eterna sinfonia del creato. Il mondo, dunque, è opera mia. È cosí evidente che il dirlo mi sembra superfluo».
PAZZIA: «Me l’aspettavo! Quando non hai niente di meglio da far valere, tiri fuori questa storia della volta celeste, il che dimostra solo che le tue argomentazioni sono campate in aria. Lo fai spesso: per sottrarti alla discussione, te la svigni e vai a rifugiarti tra le stelle, le quali, a sentire te, sarebbero uscite dalla tua testa. Potrei risponderti che tanto sagge le stelle non devono essere, visto che se ne stanno là eternamente impalate solo per mandare un po’ di luce stitica sulla testa degli uomini. Ma allarghiamo il discorso. Quello che tu dici sulla volta celeste o sul firmamento stellato è una conditio sine qua non. Il mondo bisognava pur farlo in modo che stesse in piedi e non si sfasciasse già al secondo giorno. Anche i manicomi stanno in piedi, non ti pare? Forse che io, la Pazzia, non ho gambe per camminare, occhi per vedere, orecchi per sentire e una lingua per parlare? Lascia stare l’involucro del mondo, dunque, e vediamo piuttosto se esso contenga il tuo o il mio spirito. Affermi di dirigere l’eterna sinfonia del creato e non ti accorgi di essere, già solo per questo, piú pazza di me. Beethoven, se non altro, si limitava a dirigere i temporali; almeno cosí ho sentito dire. Tu, invece, vuoi dirigere addirittura il firmamento. Fa’ pure, ma non dimenticare che sul podio, a guidare la tua mano, ci sono io».
SAGGEZZA: «La mia unica pazzia consiste nello stare qui a discutere con te, correndo il rischio di rovinarmi la reputazione».
PAZZIA: «Questa è una scappatoia da puttaniere, direbbe il poeta».
SAGGEZZA: «Lo ripeto: tu puoi dire tutto quello che vuoi. Le tue parole non m’interessano, perché ti escono di bocca come capita. I tuoi ragionamenti sono sconnessi come il tuo cervello. Ma visto che ti sei messa anche a fare la dotta e a citare poeti, ne voglio citare uno anch’io. Fa proprio al caso tuo: Insania scire se non potest, non magis quam caecitas se videre».
PAZZIA: «E io ti rispondo che la maggior pazzia è quella di reputarsi savio. E non credere che io mi lasci confondere o mettere nel sacco dal tuo latino».
SAGGEZZA: «La lingua ti funziona bene, anche se va per conto suo. Per tutti i cieli, cerca di far funzionare una buona volta anche il tuo cervello e di riconoscere, almeno in qualche spiraglio di lucidità, la perfezione del mondo e in modo particolare quella dell’uomo, il mio capolavoro. Chi, se non io, maritata al Bene, avrebbe potuto partorire una creatura siffatta? L’uomo è il mio orgoglio».
MALE: «Assumendoti la responsabilità del mondo, tu, o Saggezza, ti dimostri veramente piú pazza della stessa Pazzia. Non pensi alle conseguenze? Ricordati di quello che dice il filosofo: “Se un Dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere al suo posto, perché i dolori di quelli che ci vivono mi dilanierebbero il cuore”. O non sai quello che ti dici, o vuoi recitare una parte che non ti si attaglia. Il mondo, cosí com’è, poteva farlo solo un essere capace di divertirsi ai mali altrui, al di sopra della compassione e di altre civetterie sentimentali; e io sono quell’essere. Se poi io sia riuscito a fare un’opera degna di me, dovrebbero essere gli uomini a dirlo; ma hanno le bende agli occhi. Io non so che cosa sia la pietà. Impassibile e indifferente come si conviene alla mia natura, contemplo i marosi che travolgono l’umanità e altri ne appresto con lena incessante, finché, sazio o annoiato come ho detto prima, non mi deciderò a camminare sulla tomba del genere umano. Dunque l’umanità, che di generazione in generazione si alterna sulla tragica scena della vita, la governo io. Perché ho creato il mondo? L’ho già accennato: perché mi annoiavo e volevo offrire uno svago a me stesso. Io sono al di sopra di ogni morale».
PAZZIA: «Se tu sei al di sopra di ogni morale, io sono al di sopra di ogni responsabilità. Lo riconoscono perfino i tribunali ed è per questo che mi scagionano da ogni colpa. Era naturale, quindi, che fossi io a creare il mondo. Nessuno si sarebbe preso una simile responsabilità e cosí me la sono presa io, che non sono tenuta responsabile di niente. Ed è questa la mia raffinatezza: poter fare tutto quello che voglio e non dover rispondere di niente. Chi, sapendo che il mondo è opera mia, vorrà rimproverarmi di averlo fatto come è fatto? Tutti diranno che da me non ci si poteva aspettare niente di diverso. Anzi non diranno un bel nulla, perché gli uomini, grazie al mio influsso, non si rendono conto della loro situazione e prendono lucciole per lanterne. Insomma vedono tutto con i miei occhiali. Vanno danzando incontro alla morte, ma non ci fanno caso e hanno l’illusione di essere eterni, il che, detto tra di noi, sarebbe una sciagura ancora maggiore».
SAGGEZZA: «Appunto per questo io ho correlato la morte con la nascita, in modo che ci fosse un continuo ricambio sulla scena del mondo. Cosí uno esce e l’altro entra. Tutto ha bisogno di rinnovamento, anche la vita. Ma questo tu non puoi capirlo».
PAZZIA: «E tu, invece, non puoi o non vuoi capire che, senza di me, gli uomini o non si riprodurrebbero o, presi dalla disperazione, uscirebbero spontaneamente di scena prima del tempo, privando il Male del suo perverso divertimento e te delle tue vanterie. Ma non lo fanno, perché io li assisto. Nessuno segue cosí fedelmente i miei precetti come l’uomo, il cui cervello è stato impastato in tutto e per tutto secondo la mia ricetta. Guarda per esempio gli stambecchi che vivono qui intorno. Se il cibo scarseggia o l’ambiente non è adatto alla loro vita, essi non si riproducono. L’uomo, viceversa, piú vive in condizioni disgraziate e piú si carica di figli per aumentare la propria miseria. Però non se ne accorge, perché io gli tengo la mano sulla testa. Sii sincera con te stessa e ammetti che nel mondo, comunque lo si osservi, non c’è assolutamente posto per te».
SAGGEZZA: «Le cose stanno diversamente e cerco di spiegartele, sebbene non speri che tu le capisca. Tu e il Male, con cui vai spesso a braccetto, siete nel mondo per una legge di contrasto o di armonia, in modo che la vostra presenza dia maggiore risalto alla mia e a quella del Bene. Ma ora voi, proprio come capita con le sementi velenose, cercate di invadere e di infestare il campo. Correrò ai ripari. Anche se non è possibile sradicarvi completamente, perché in tal caso verrebbe a mancare il paragone tra me e voi, vale a dire tra la luce e le tenebre, ridurrò ai giusti limiti la vostra presenza. Se vi lasciassi fare, rovinereste tutto».
PAZZIA: «Altra scappatoia! Tu fai come i preti che, per giustificare il loro Dio, scaricano tutti i mali della vita sul groppone del diavolo. Ma te l’ho già detto: nel mondo tu sei un’intrusa. Possibile che non ti accorga di quanto sia piú conveniente attribuire il mondo a me? Ora sei tu che manchi di logica».
MALE: «Siete due linguacciute e fate venire in mente quello che dicevano i greci: beate le cicale, le cui femmine non cantano mai. Se siete cosí sicure che il mondo vi appartiene, perché vi affannate a volerlo dimostrare? Io non ne ho bisogno, perché i fatti parlano da soli e tutti a mio favore. Ne è una riprova che il Bene, poverino, se ne sta lí senza fiatare, perché non ha niente da dire».
BENE: «Sto zitto proprio perché questa contesa non mi riguarda. Io sono l’Amore e ho dato agli uomini la vita, che è tutto, il massimo dei beni. Chi non apprezza la vita non è degno di viverla».
SAGGEZZA: «Giusto, ben detto!».
PAZZIA: «E io ribadisco che, senza di me, la vita sarebbe insopportabile».
MALE: «Io ce l’ho messa tutta per renderla tale: pestilenze, malattie, dolori di ogni tipo, invidie sorde, odi feroci, catastrofi, guerre e via enumerando. Ma quegli sciagurati, intendo dire gli uomini, non ci fanno caso e tirano avanti come se niente fosse. E piú io li stermino, piú essi si moltiplicano».
PAZZIA: «Allora ho ragione io. Senza la mia assistenza, chi resisterebbe alla vita? Andate a chiedere a qualsiasi persona, fosse pure la piú disgraziata, se sia contenta di morire e sentirete quello che vi risponde. “Dio non peggio”, cioé Dio non mandarmi di peggio: cosí gridava, con il poco fiato che ancora gli rimaneva, il vecchio sciancato che era caduto nel fiume e stava per essere inghiottito dalle onde. Evidentemente nella sua testa c’ero io. Ed è sempre merito mio se tutti, anche sul letto di morte, si ostinano a chiamare il medico quando sarebbe invece ora di chiamare il falegname. Per farla breve, gli uomini, dai piú giovani ai piú vecchi, inneggiano dalla mattina alla sera a me. Tutto quello che essi fanno e dicono non è altro che un’apoteosi in mio onore. È stato e sarà sempre cosí».
MALE: «Finché io non metterò fine a tutto».
PAZZIA: «Non ci riuscirai, perché il tuo potere viene neutralizzato dal mio. L’albero della vita mette capo a me. Tu puoi scuoterlo, ma non sradicarlo. Come la furia del mare non riesce a staccare i molluschi dalla roccia, cosí tu non riuscirai mai a schiodare gli uomini dall’albero della vita. Io sono un mastice molto piú tenace di quel che tu non creda».
SAGGEZZA: «Il mastice è solo nel tuo cervello bloccato. Ce ne vorrebbe un altro anche per bloccarti la lingua, che si muove a casaccio e senza connessioni con il pensiero».
PAZZIA.: «Questo è un insulto, non un argomento. Cosí intacchi anche il galateo che dovrebbe esistere almeno tra noi Superni. Io sono piú educata e t’invito solo a riflettere, senza insultarti. Non ho neppure bisogno di alzare la voce per dimostrare che la testa degli uomini è abitata da me: basta osservare con un minimo di obiettività i loro comportamenti. Di solito si dice che nella coscienza dell’uomo si specchia o fa capolino lo spirito del mondo, però si dimentica che quello spirito porta la mia divisa. Io sono cosí connaturata nell’uomo che ogni sua azione si svolge sotto il mio comando. Quella che chiamano ragione non è altro che una pazzia sistematica. Ora io vengo celebrata perfino nell’arte. Per esempio la musica, che una volta serviva a ristorare gli animi, si è trasformata in rumori che ricordano molto da vicino gli strepiti pestiferi di un petomane, il cui sfogo finale è rappresentato invece dalla pittura moderna. Però tutti applaudono e questo lo si deve a me, che pure farei volentieri a meno di simili tributi artistici».
SAGGEZZA: «Questa volta ti devo dar ragione, perché certi artisti e quelli che li applaudono si comportano come se fossero per davvero figli tuoi».
PAZZIA: «Gli artisti mi sono sempre stati fedeli, specialmente i poeti. Io li ricambio e li assisto sotto forma di ispirazione. Prendiamo per esempio l’Ariosto: come avrebbe potuto, senza la mia assistenza, scrivere tutte quelle storie di cavalli che volano o di cervelli che abbandonano la testa del proprietario e se ne vanno sulla luna? Quanto a Dante, è un bel bugiardo: ad accompagnarlo nell’oltretomba sono stata io, non Virgilio. Potrei fare altri mille esempi, ma non ce n’è bisogno. Del resto Platone, considerato il sapiente per eccellenza, esclude i poeti dalla sua Repubblica, in quanto li ritiene artefici di fantasmi e lontanissimi dalla ragione, il che equivale a dire pazzi. Ma il bello è che il piú pazzo di tutti è proprio lui, Platone».
SAGGEZZA: «Ora mi tocca di sentire che sono pazzi anche i filosofi. Da te ci si deve aspettare di tutto. Ma continua, perché mi diverti. Ogni corte ha sempre avuto, per diversivo, una testa matta. È giusto, quindi, che ce ne sia una anche in questa Corte Celeste».
PAZZIA: «Cosí, senza accorgertene, porti acqua al mio mulino. Hai forse dimenticato che a corte chi diceva la verità era proprio il matto? Lo stesso avviene nelle tragedie di Shakespeare, se le conosci. Ma parliamo dei filosofi, i quali asseriscono di ispirarsi a te e proprio per questo sono i piú pazzi di tutti. Bada che non mi ci vuole molto per dimostrarlo. Incominciamo dal tuo caro Platone: è saggio uno che teorizza la comunità dei beni anche in campo sessuale, come se lo Stato fosse una stalla? Una cosa cosí non esiste neppure fra le capre o gli stambecchi, che sanno perfettamente quando e con chi devono accoppiarsi. Invece gli esseri umani, secondo Platone, dovrebbero accoppiarsi quando e con chi stabilisce lo Stato. Se non è pazzia questa! Si dirà che la sua Repubblica è ideale, iperurania, ma anche cosí non funziona: noi Superni o Iperurani siamo forse piú sporcaccioni degli uomini? Chi si accorse che Platone era completamente sotto il mio influsso fu il tiranno di Siracusa, il quale, dopo aver sentito l’esposizione di tutte quelle idee campate in aria, minacciò di metterlo a morte».
SAGGEZZA: «È ingeneroso parlare cosí del grande Platone, uno dei miei figli prediletti. Tu non hai rispetto per niente e per nessuno, e nondimeno hai la faccia tosta di dire che sei educata».
PAZZIA: «Ho detto qualche cosa di non vero? Puoi forse negare che Platone fosse guidato da me, quando si recò a Siracusa con l’intento di illuminare il tiranno? Già questo dimostra che non conosceva gli uomini, sebbene si desse arie da sapientone. Aveva le traveggole e scambiava una cosa per l’altra. Per esempio chiama Idee quelli che non sono altro che i vari tipi di pazzia con i quali ho plasmato il mondo. Talvolta, però, come quando dice che l’umanità gli sembra una processione di sonnambuli, riconosce implicitamente che il mondo lo governo io, anche se non mi chiama per nome. Quanto al suo maestro Socrate, sappiamo la fine che fece: per tener fede alla giustizia, che esisteva solo nella sua testa, bevve la cicuta. È saggezza, questa? Se avesse avuto un po’ di sale in zucca, o avrebbe raccontato un paio di bugie ai giudici o sarebbe scappato di prigione, come i suoi amici lo pregavano di fare. E invece preferí avvelenarsi. Lo stesso discorso vale per Giordano Bruno. Che cosa gli costava fingere di dare ragione ai suoi giudici sanguinari? Il saggio non si mette a discutere con chi non è in grado di capirlo. Se può, lo evita; se non può, finge di assecondarlo per liberarsene. Visto che quei rozzi inquisitori erano fanaticamente convinti che fosse il sole a girare intorno alla terra e non viceversa, bastava dire che avevano ragione, senza che per questo crollasse il mondo. Invece Bruno, da perfetto figlio mio, si comportò da imprudente e, per difendere la verità dinanzi a chi quella verità non poteva o non voleva capirla, si fece bruciare vivo. Bella saggezza! Anche nella testa di altri famosi saggi è facilmente riconoscibile il lume della mia grazia. Buddha rinunciò alla sua vita da principe e se ne andò nel deserto, in mezzo alle lucertole e ai ramarri. Eraclito si cosparse di sterco per guarire dall’idropisia. A Lucrezio dette di balta il cervello e venne a cercare conforto fra le mie braccia. Qui dovrei forse parlare anche dei Padri della Chiesa, ma la loro pazzia è cosí evidente che non occorre spenderci sopra neppure una parola. Pensate a san Gerolamo, che non si lavava e pretendeva che non si lavassero neanche le ragazze con le quali era in corrispondenza. Un uomo cosí non doveva certo sapere di cannella o di maggiorana, eppure le gentildonne romane, evidentemente piú pazze di lui, ne bevevano gli insegnamenti e alcune lo seguirono perfino nel deserto. Ho parlato di san Gerolamo, ma potrei fare moltissimi altri esempi. È proprio in campo religioso che io ottengo i maggiori successi, i quali vanno oltre le mie stesse aspettative. Chi, se non io, muove gli eserciti di pellegrini che si recano ad adorare, che so, un pezzo di legno, un osso tarlato, una pietra o addirittura la coda di un asino? Non ridete, perché Giordano Bruno, di cui ho appena parlato, riferisce di aver visto lui stesso, in una chiesa di Genova, la reliquia contenente la coda dell’asino che avrebbe portato Gesú Cristo a Gerusalemme. Basta cosí o devo continuare?».
SAGGEZZA: «Informati meglio, perché nel frattempo quella coda, grazie a me, è scomparsa».
PAZZIA: «Però l’asino è rimasto. E se tu credi che i miei figli non siano capaci di adorare anche un asino senza coda, scambiandolo magari per un cavallo dell’Apocalisse, sbagli di grosso. E che dire delle torme di persone che, ora urlando come nei cortei e ora salmodiando come nelle processioni, seguono una bandiera o un altro pezzo di stoffa? Tutta opera mia! Ma ritorniamo ai filosofi. Il famoso Kant, che per tutta la vita era andato in cerca della ragione, pura o meno pura che fosse, finí per rimbecillirsi del tutto e per non capire piú niente. Potrei fermarmi qui e cantare vittoria, ma voglio fare qualche altro esempio. Schopenhauer, altro sapientone, veniva additato con scherno dagli abitanti di Francoforte e apostrofato con epiteti come il pazzo o l’eccentrico. A Nietzsche, cui fin da ragazzo mancava qualche venerdí, alla fine venne a mancare tutta la settimana, ma proprio per questo è stato portato in trionfo: piú si è vicini a me e piú si viene celebrati. E tu, Saggezza, provati a dimostrare, se ci riesci, che non è vero. Chi mai ha visto portare in trionfo un tuo figlio, ammesso che esista?».
SAGGEZZA: «Io non amo mettermi in mostra».
PAZZIA: «Anche se ti ci mettessi, nessuno ti degnerebbe di uno sguardo, per il semplice motivo che nessuno ti conosce. Gli uomini amano e conoscono me, non te. Essi sono figli miei, non tuoi. Sono io quella che li allatta e li alleva, non tu. Naturalmente non tutti vengono su alla stessa maniera, anche se il latte che succhiano è lo stesso. Alcuni sono piú brillanti degli altri. In pazzia, s’intende. Ma è questione di quantità, non di qualità, perché pazzi lo sono tutti. I piú brillanti in assoluto, come ho accennato prima, sono coloro che escono dal branco e si mettono a cercare te, o Saggezza. E questo è appunto il caso dei filosofi, la cui pazzia è addirittura proverbiale: l’uno va in giro con la lanterna in pieno giorno, l’altro sostiene che il piè veloce Achille non potrebbe mai raggiungere una tartaruga, l’altro ancora, sebbene passi per uno dei Sette Savi, non sa che sui fossi non si può passare e ci cade dentro. È necessario che faccia altri esempi? Io credo di no».
SAGGEZZA: «Tu vedi solo quello che ti fa comodo e ridi a sproposito».
PAZZIA: «Dovrei forse piangere? Non è nella mia natura».
MALE: «Eppure il mondo, cosí come io l’ho fatto, dovrebbe essere una valle di lacrime, perché i motivi per piangere ci sono tutti, ma proprio tutti».
PAZZIA: «È merito mio se gli uomini non si arrendono e non passano la vita a piangere. Lo capisci? Senza di me tu potresti tormentare i morti. Del resto anche tu non hai il cervello a posto, visto che ti diverti a tormentare chi non ti ha fatto niente e niente ti ha chiesto. Sei un pazzo perverso, ecco tutto. Io sono molto diversa da te, perché do agli uomini l’illusione di essere felici, anche se in realtà sono dei poveri vermi. Senza di me tutto verrebbe quanto meno a noia, e sappiamo bene che la noia è una cattiva consigliera. Perfino gli astri, che girano e rigirano come il criceto nella gabbia, verrebbero a noia a se stessi. Quanto a me, non potrò mai venire a noia per almeno due buoni motivi: primo, perché i pazzi non hanno coscienza di quello che fanno; secondo, perché io cambio aspetto a seconda delle circostanze ed esercito il mio potere sotto forme diverse. Faccio un esempio: quando dirigo un corteo, oppure una processione, non ho lo stesso aspetto di quando guido un esercito. E chi, se non io, anima le folle che vanno in delirio nel veder ruzzolare una palla? Insomma ho piú volti, come si addice alla mia natura; anzi i miei voltI sono infiniti, come infinito è il mio potere. Tutte le attività umane, anche quelle nascoste e inconfessabili, fanno capo a me. La politica, la religione, l’economia, il turismo, lo sport, l’amore, le ambizioni, i sogni di gloria, la sete di ricchezza, la mania di scrivere: senza di me si arresterebbe tutto. Ma io, che sono generosa, faccio in modo che nessuno se ne accorga. I piú ciechi di tutti, come al solito, sono i filosofi. Non ne imbroccano una, sebbene credano di avere la verità in tasca. Mi scambiano per le cose piú strane e impensabili, come Nus, Noumeno, Cosa in sé, Volontà e via enumerando. Se non girassero a vuoto e non brancolassero nel buio, a quest’ora avrebbero scoperto che il mondo è un trambusto governato da me».
MALE: «E da me!».
PAZZIA: «Ci risiamo! Quante volte devo dirti che senza di me tu non potresti esistere? Se proprio ci tieni, dirò, visto che sono in vena di liberalità, che il mondo è una specie di condominio tra il Male e la Pazzia, ossia tra te e me: tu regni e io comando. Tu sei l’ingranaggio, io il motore, anzi il Primo Mobile. Tu sei il torrente rovinoso, io la fonte che lo alimenta. Se mi prosciugassi, il che però non capiterà mai, tu stesso rimarresti all’asciutto. Insomma anche tu dipendi da me».
SAGGEZZA: «Io invece sono in vena di sarcasmo e vorrei dire che non hai bisogno di prosciugarti ulteriormente, visto che il tuo cervello è già secco abbastanza. Ma non ho voglia di litigare con te. Piuttosto, perché al posto di condominio non usi la parola duunvirato? Forse ci starebbe meglio».
PAZZIA: «Finalmente ti sento dire qualche cosa di sensato! L’importante è che tu riconosca di non avere alcuna parte nel governo del mondo. Ma ora vorrei continuare il discorso che stavo facendo. Come ho gia accennato, non c’è attività umana, per quanto piccola o magari invisibile, che non sia ispirata da me. Ma quella in cui maggiormente rifulgo è l’amore. Qui è tutto un tripudiare in mio onore, qui io raggiungo l’acme della mia gloria. Chi, se non io, poteva fare del sesso la stella polare di ogni desiderio? Considerati con distacco e senza gli occhiali rosa, gli organi del sesso sono quanto di piú buffo e ridicolo si possa immaginare. E sono anche brutti, diciamo la verità. Non per niente Leonardo da Vinci, che di bellezza s’intendeva come pochi, scrisse che l’“atto del coito e le membra a quello adoperate son di tanta bruttura che, se non fusse la bellezza de’ volti e li ornamenti delli operanti e la sfrenata disposizione, la natura perderebbe la spezie umana”. E da chi dipende, quella “sfrenata disposizione”, se non da me? Infatti io non potevo lasciare che gli organi genitali apparissero per quello che realmente sono e cosí li ho incantati. Grazie a me, essi hanno piú forza di un vulcano, piú soavità di un campo di maggiorana e piú luce del cielo empireo. Se non facevo cosí, addio riproduzione della specie, perché il maschio e la femmina, alla vista dei loro rispettivi e buffissimi armamentari sessuali, sarebbero scoppiati a ridere, anziché sentirsi reciprocamente e forsennatamente attratti».
BENE: «lnsolente! Come puoi parlare cosí dell’amore, che è la fonte della vita?».
PAZZIA: «Caro il mio bamboccio, bada che senza di me quella fonte non solo si sarebbe essiccata da tempo, ma non avrebbe neppure incominciato a zampillare. Hai mai visto come è fatto il sesso della donna? Nel migliore dei casi somiglia a un pennello da barba smesso (di quello maschile, che a seconda delle circostanze somiglia ora a una melanzana impermalita ora a una rana assetata, non voglio neppure parlare, perché mi vien da ridere solo a pensarci). E ti pare che una cosa cosí potesse essere la fonte della vita? Di qui dunque la necessità di incantarlo e di farlo apparire come un ninfeo o come la grotta delle fate. Poi ho avvolto tutto in un’aura di sacralità, il che spiega perché sia cosí difficile parlare allegramente del sesso senza incorrere nel reato di profanazione. Infine ho affatturato, sotto forma di istinto materno, la testa delle donne, sebbene non ce ne fosse bisogno, in quanto le donne sono già abbastanza pazze per natura, e ne so qualche cosa perché sono anch’io una donna. Cosí esse considerano una gioia infinita la gravidanza, il parto, l’allattamento, le cure massacranti per la prole, le continue liti in famiglia, la presenza di un marito spesso insopportabile e tutta la via crucis connessa con il matrimonio. Ma io tengo loro la mano sulla testa ed esse si sentono felici e realizzate. Non rinsaviscono neppure nella vecchiaia, quando i figli, per sbarazzarsene, le portano in qualche ospizio e le affidano a mani estranee che forse ne affrettano la fine. Ma io non le abbandono e cosí loro continuano a ritenersi contente e soddisfatte».
A questo punto è comparsa una figura ancora piú strana delle altre. È scesa a zig-zag dal cielo, sbandando di qua e di là come un ubriaco o come un falco senza coda. Si sarebbe detto che fosse cieca e andasse a tastoni, ammesso che si possa tastare nell’aria. Insomma le mancava la bussola, però è riuscita ugualmente a planare e a prendere posto nell’assemblea, dove tutti si sono messi a guardarla con stupore. Nel suo aspetto non c`era nulla di normale, come se non avesse né capo né coda. Anche il cielo non è rimasto indifferente alla sua presenza, perché si è improvvisamente riempito di nuvole che vorticavano come impazzite.
Poi la strana figura si è alzata in piedi e, con voce simile a un tuono, ha detto: «Io sono il Caso e il mondo è opera mia. Cercarvi la logica sarebbe impresa vana».
C’è stato un attimo di grande smarrimento e su quel sinedrio celeste è calato il silenzio. Tutti sembravano presi in contropiede e spiazzati. Tranne la Pazzia, la quale, dopo essersi fatta una solenne risata, si è rivolta al Caso e gli ha detto: «Non preoccuparti della logica nel mondo. Quella ce la metto io. Ma ora lasciati guidare da me, visto che sei cieco, e andiamocene via». Cosí lo ha preso sotto braccio ed è scomparsa insieme con lui tra le nubi. E a questo punto io mi sono svegliato.
Anacleto Verrecchia (Diario del Gran Paradiso)