La corda spezzata

Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia.
(Proverbio africano)

Nel 2012 la Società Storica delle Valli di Lanzo pubblicò Le belle età, un volume bellissimo e ricco di splendide fotografie di Enzo Isaia, che documenta i giorni della vecchiaia in alta Valle di Viù, nelle Valli di Lanzo.

Questo libro non contempla la nostalgia. Documenta e analizza il passato e l’odierna quotidianità di donne e uomini che testimoniano non solo la loro storia, ma quella di un paese, di una valle. Lo fanno attraverso l’intervista e lo scatto fotografico (dalla presentazione di Bruno Guglielmotto-Ravet).

Resistere è un imperativo in questa epoca e non soltanto nella parentesi epidemica. Resistere alla deriva umana e culturale soprattutto, perché se nel XXI secolo stiamo facendo spirare venti di morte, la responsabilità è solo nostra. E’ inaccettabile aver permesso ad un virus di sfogare tutta la sua letalità sui più deboli ed indifesi, sebbene circondati da scoperte scientifiche eccezionali e mirabili tecnologie che non dovrebbero solo servire per giocare e fare business, ma soprattutto per vivere umanamente e dignitosamente.

Resistere alla barbarie. Per farlo non ho altro che la cultura e allora, nelle ultime interminabili settimane di prigionia, disseminate da dolorosi ed insopportabili giorni, osservando la mia collezione dei volumi della Società Storica, ho cercato tra di loro qualche appiglio culturale ed umano, per non sprofondare in un vuoto abissale.
In Italia stanno morendo migliaia di vecchi. Migliaia di biblioteche bruciano perdendo così il legame con il nostro passato, come se avessimo spezzato la corda di un compagno di cordata. Ma una cordata forte ed invincibile è quella che si basa sull’elemento più debole.
Nella mia assoluta impotenza di cittadino italiano, che ama le periferie e la fragilità del mondo, ho scelto un capitolo di questo libro e due testimonianze di vecchi per cercare di afferrare quella corda e stringerla a più non posso. E’ il passato che ci parla ed è proprio con esso che dovremmo impostare sempre il nostro domani, con grande rispetto, anziché lasciarlo disperdere imperdonabilmente dai venti di morte.

***

D’antico stampo
di Ariela Robetto

Ho ascoltato dai vecchi di Usseglio la storia della loro vita. È possibile che a qualche orecchio il termine “vecchio” suoni stonato, stridente con i canoni moderni secondo i quali non si deve più parlare sincero e schietto come il buon vino rosso di campagna, ma è necessario esprimere con parole edulcorate, e spesso adulterate, gli aspetti sgradevoli della realtà, di fronte ai quali, impauriti, si preferisce bendare gli occhi sperando che scompaiano dai nostri sempre più contraffatti orizzonti.

Oggi usa dire “anziano”. Sostantivo che forse può funzionare per le persone mature che, nelle città, affollano le università della terza età, frequentano circoli, crociere, gite, sale da ballo, soggiorni marini loro riservati, godono degli sconti nei cinematografi e nei musei, a volte svolgono contemporaneamente tutte queste attività in modo persino un po’ compulsivo: una sorta di fontana dell’etena giovinezza alla quale attingere parvenze che la vita non può più donare, o forse una sorgente dell’oblio cui abbandonarsi per sconfiggere fantasmi troppo tetri per essere guardati in volto.

Gli uomini e le donne di Usseglio, che mi hanno accolta in casa narrando con vivace semplicità la loro vita, sono vecchi. I nostri vecchi. Dignitosi nelle loro storie di fatica, di fame e di miseria, orgogliosi di tramandare esperienze d’un mondo scomparso, amati e rispettati dalla famiglia e dalla comunità che ancora attinge alla loro saggezza e alla inesauribile sapienza di vita.

Sono i vecchi del tempo passato che consigliavano e guidavano perché, allora, a contare era l’insegnamento fornito dall’esistenza, gli anni rappresentavano un ricco bagaglio culturale che i giovani non potevano possedere. Sono i capi clan che sapevano indirizzare i discendenti nelle scelte del vivere quotidiano, stimati e onorati con ossequio, quasi con devozione; sono i senes che nella Repubblica romana erano a capo del governo, riuniti nel Senato, perché possessori della conoscenza.

Gli “anziani” sono, invece, persone attempate non più in grado di tenersi agganciate alla vita moderna: la tecnologia le ha tagliate fuori dal mondo, i giovani non hanno più bisogno dei loro consigli, anzi sono loro oggi a detenere l’insieme delle capacità e il linguaggio per avventurarsi in un universo che nel giro di pochi anni si è completamente trasformato; tutto il resto, le esperienze di vita, i rapporti interpersonali, la frequentazione dei valori etici… non contano, non trovano un mercato.

I vecchi di Usseglio sicuramente sono stati preservati dalla montagna, ambiente cui spesso si rimprovera una certa chiusura, una ritrosia nell’accogliere il nuovo che avanza. Non sempre però nuovo è sinonimo di migliore: a Usseglio ho incontrato antiche famiglie tradizionali in cui i genitori, i nonni, sono accolti, protetti, curati. Ho incontrato persone rimaste sole, senza figli, accudite dai parenti, dagli amici: si sentono sicure, aiutate dai vicini di casa, dalla borgata intera. Sono stati preservati da una vita a contatto con la natura, con i suoi ritmi che dovrebbero essere anche i nostri: la natura insegna che si nasce, si cresce, si invecchia e si muore, come tutte le creature, ed è perciò normale accettare questi passaggi senza cercare di opporsi, con serena docilità.

Sono stati preservati dalle robuste radici delle origini che hanno conferito loro una forte identità, li hanno fatti sentire a casa loro, fra la loro gente, nelle terre di coloro che li hanno preceduti costruendo il nido in cui vivere, ai quali, anche se scomparsi magari da anni, ancora si sentono profondamente legati.

Se si guarda con attenzione il ritratto che di loro ha saputo delineare il sapiente e accorto obiettivo di Enzo Isaia e lo si accosta alla narrazione delle vite, si scopre tutta la grandezza di queste persone che raramente hanno superato il traguardo della quinta elementare, ma posseggono una cultura di vita che nessuna laurea e nessun master possono conferire.

I volti rugosi, schietti, autentici, lo sguardo orgoglioso di sé, sono lo specchio di esistenze che fanno impallidire la nostra spesso ostentata sicumera. Isaia ha fotografato anche le mani di alcuni vecchi, testimonianza di lavoro, di geloni, di fatiche inenarrabili: non rispondono ai canoni estetici della pubblicità, sono mani abituate a mungere vacche, a spandere letame, a falciare fieno, a lavare bucati nell’acqua gelida. Mani “pulite” e oneste da mostrare con fierezza.

Durante il mio lavoro di raccolta e trascrizione, alcuni tra essi ci hanno lasciati prima che io riuscissi ad udire dalla loro voce le vicende che avevano da raccontare. Sono stati allora i figli, figli che hanno saputo ascoltare la storia dei genitori (molto spesso solamente dopo la morte sopraggiunge il desiderio di sapere quanto non abbiamo avuto desiderio o volontà di stare a sentire in precedenza), a ricostruire attraverso episodi e notizie uditi in casa, la trama di vita dei loro padri e delle loro madri.

Mentre questo libro era in corso di stampa, altri hanno lasciato le loro montagne per camminare lungo sentieri lontani: ad essi rivolgo il mio pensiero più affettuoso.

A tutti, veramente a tutti, va la mia riconoscenza per quanto sono riuscita ad apprendere, pur essendo ormai nonna anch’io: lezioni che nessun libro, per quanto erudito e dotto, avrebbe mai potuto trasmettermi. Senza contare l’amicizia, la disponibilità, la benevola accoglienza che ho trovato in tutte le case.

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Storie lunghe una vita

ALBINA BORLA

«Sono l’ultima di sette figli, due maschi e cinque femmine. I miei genitori nel 1905, appena sposati, emigrarono in America, a Kimberly, negli Stati Uniti [probabilmente nella zona mineraria della Contea di Grant, nell’Oregon, n.d.a.]. Il papà lavorava nelle miniere di carbone, abitavano in un paese di montagna e là nacquero i primi tre figli; nel 1911, raggranellato un gruzzoletto, pensarono di tornare a Usseglio; il fratello di mio padre, che era con loro, decise invece di trasferirsi in Alaska per lavorare nelle miniere d’oro dove si guadagnava molto bene, ma purtroppo ci lasciò la vita.

Tornati in paese acquistarono terre e una casa, dove nacqui nel 1925 e dove sono cresciuta; essendo l’ultima, posso dire di essere stata allevata dalle mie sorelle; sono stata molto coccolata, anche se non ho avuto molti giocattoli. Ricordo piccole bambole di pezza che mi costruiva una vicina di casa e una bellissima bambola con il viso di biscuit che mi aveva portato mio fratello da Nizza, in Francia, dove era emigrato e faceva il cameriere all’aeroporto: fra me e lui vi erano diciannove anni di differenza. Giocavo molto con gli altri bambini a nascondino, alla settimana… in inverno ci divertivamo a scendere con la slitta dalla riva del Molar.

Ho frequentato le elementari nella scuola di Piazzette con la maestra Camilla Belleri e un’altra insegnante di cui non ricordo il nome; la quinta classe l’ho frequentata al capoluogo con il maestro Reteuna. Percorrevo il lungo tragitto in bicicletta insieme a un altro ragazzino di Piazzette: io stavo sulla sella e lui pedalava. A quei tempi a Usseglio c’era anche la scuola al Pianetto.

La mia famiglia aveva le bestie e coltivava la terra. A giugno partivamo per la grangia di Pianfé dove restavamo sino a fine settembre: io e mia sorella Francesca dormivamo in una muanda [abitazione temporanea in alpeggio, n.d.a.], i miei genitori in un’altra più lontana; quando mia sorella si sposò, benché avessi ormai 20 anni, ebbi paura a restare sola la notte e nel buio e nel silenzio raggiunsi di corsa papà e mamma.

Allevavamo le mucche e le capre: producevamo burro e formaggio solamente per nostro consumo, con il latte ingrassavamo i vitelli che poi vendevamo. Coltivavamo segale e patate sfruttando il terreno alternando le due colture: in autunno, tolte le patate, seminavamo la segale che impiega un anno a maturare e deve essere anramà (sostenuta) con frasche di frassino duro e resistente. Coltivavamo anche l’orzo, che poi tostavamo con un apposito attrezzo, per fare il caffé, soprattutto in tempo di guerra. A proposito di caffé ricordo un singolare episodio: una delle mie sorelle era ricoverata all’ospedale delle Molinette e venne a farle visita un’altra sorella, ragioniera, la quale lavorava per i ricchissimi signori Cardill che avevano tenute in Toscana e in altre parti d’Italia. Si imbottì la giacca di caffé, nascosto fra fodera e stoffa, e riuscì a far bere all’ammalata la preziosa bevanda, fra lo stupore dei medici che l’avevano in cura: eravamo infatti nel bel mezzo della guerra e il caffé era praticamente introvabile.

I divertimenti erano pochi, però facevamo festa alle priorate: sono stata priora della cappella di San Vito, alla Madonna del Rosario, a Santa Barbara e all’Assunta presso la parrocchiale. Portavamo il pane della carità tutto decorato con stelle, cuori, mezzelune e una treccia intorno; poi veniva tagliato e distribuito ai partecipanti messa. Le decorazioni venivano conservate per anni. A Natale facevamo il cenone: i ragazzi si recavano al ristorante da Maria, la mamma di Gioanin Borla; le ragazze invece venivano a casa nostra. Un anno la mamma preparo una grossa pentola di cibo e il panettone; poi lasciò la pietanza in caldo sulla stufa e tutti si recarono alla messa di mezzanotte. Al ritorno era sparito tutto: i ragazzi, per scherzo, avevano rubato il cenone e se l’erano portato al ristorante!

Si festeggiava anche a Carnevale: si raccoglievano le uova per fare la frittata; il mercoledì delle Ceneri i maschi rincorrevano le ragazze per magninare (sporcare di nero) loro il viso con la fuliggine. Un anno Gioanin magninò tutta la faccia di Teresa con il lucido da scarpe.

La domenica delle Palme, quando veniva distribuito in chiesa l’olivo benedetto, ne davamo sempre una foglia alle capre perché restassero in salute.

Nel 1960 mi sposai con un ragazzo di Piazzette e continuai a fare la contadina. Ho sempre fatto questo mestiere e due anni fa la Federazione Provinciale dei Coltivatori Diretti mi ha premiata con una targa per i lunghi anni di fedeltà al lavoro. Purtroppo avevo solamente 47 anni, quando mio marito perì in un incidente stradale e rimasi sola con due bambine di 10 e 6 anni. La vita divenne difficile: continuai l’attività con mio cognato e mia suocera e debbo riconoscere che le mie sorelle mi aiutarono molto.

Nel 1976, quando la figlia maggiore terminò le scuole medie a Viù, volle proseguire gli studi. Abbandonammo Usseglio e ci trasferimmo in un alloggio a Lanzo. Andavo allora a servizio per mantenere la famiglia, in estate tornavamo a Piazzette e aiutavamo i parenti nella raccolta del fieno. Restammo dieci anni a Lanzo. Le figlie si sistemarono entrambe e io volli tornare al mio paese.

Io qui sto bene, ho il mio orticello, conosco tutti, se ho bisogno di qualcosa c’è sempre qualcuno che mi aiuta e spero proprio di morire qui fra le mie montagne».

 

GIANFRANCO FERRO FAMIL

Sulla facciata della piccola casa in pietra al Villaretto una scritta su legno recita “La cà d ‘la vòrp” (La casa della volpe): Franco è infatti discendente della famiglia dei Vulpot che diede illustri, ormai mitiche guide alpine alle Valli di Lanzo. Il tinello in cui mi riceve ha le pareti tappezzate di targhe, riconoscimenti, foto di escursioni, ritratti del padre Guido, celebre guida come il nonno Francesco; vecchie corde d’arrampicata in canapa decorano, come festoni, una parete della stanza.

«Sono nato nel 1931 a Torino dove la mamma faceva il mercato a Porta Pila (Porta Palazzo) e mio papà lavorava presso un commerciante di frutta e verdura; ben presto però, nel 1933, ci trasferimmo a Usseglio, paese d’origine di mio padre, ed i primi ricordi della mia vita sono legati a questo paese. Papà lavorava per la Società Ovest Ticino, era guardiano alla diga a Malciaussia e al Lago della Rossa, stavamo abbastanza bene, anche se non eravamo ricchi, poiché in famiglia eravamo cinque figli, io e quattro sorelle. Frequentavo la scuola al capoluogo, e come impegno io e mio cugino dovevamo andare a prendere l’acqua per la famiglia tutti i giorni alla fontana della Magnesia.

Alla scuola è legato un episodio che mi fece conoscere una delle prime ingiustizie della vita: la maestra ci aveva assegnato un problema, Pinu e Renzino lo risolsero a modo loro, io non volli copiare come tutti gli altri compagni e detti una risoluzione totalmente differente che risultò essere l’unica giusta. Mi fu assegnato il voto di 9+ perché nel calcolo non avevo incolonnato bene i numeri. Poi la maestra fece risolvere il problema alla lavagna, i compagni copiarono ricevendo un bel 10. Ho proprio preso a dispetto la cosa, è stato forse il primo torto subito.

Nel 1940, allo scoppio della guerra, il 13 giugno dovemmo trasferirci come sfollati a Viù, perché Usseglio era zona di confine; abitavamo alla Pieu, una frazione verso Polpresa. Tutti i giorni, sotto una fitta pioggia, dovevamo scendere noi ragazzini (avevo 9 anni) sino al capoluogo per ricevere 12 razioni di cibo; ognuno di noi portava due secchi, quando c’era il bollito, alla Pieu arrivava solamente la carne perché il brodo l’avevamo perso tutto lungo la mulattiera! Dopo la firma dell’armistizio con la Francia, il 24 giugno tornammo a Usseglio.

Nel 1941 cominciavano a sentirsi le conseguenze di una forte svalutazione e papà decise di prendere 10 pecore e affittare un po’ di campagna per la sussistenza della famiglia; il mattino andavo a scuola dalle 9 alle 13, il pomeriggio lavoravo zappando con mio padre, nei mesi di febbraio e marzo portavamo su letame nei campi caricandolo sulle spalle. Divenni poi pastore di pecore, mestiere che svolsi sino a 17 anni.

Durante la bella stagione, da aprile a ottobre, portavo il gregge nel vallone d’Arnas: era un lavoro faticoso che occupava l’intera giornata. Il mattino alle 7 dovevo mungere gli animali, portarli al pascolo, poi aveva luogo la seconda mungitura, infine bisognava ancora colare il latte. Le pecore di notte stavano chiuse in un recinto all’aperto e, quando pioveva, per mungerle mi inzuppavo tutto e restavo così sino a sera. Mio padre era molto severo: a volte mi trovavo con altri giovani pastori e giocavamo un poco, se però poi mancava qualche pecora c’era la cinghia! Nel mese di luglio lasciavamo le pecore da sole nei pascoli più alti; andavo solamente una volta la settimana a controllarle. Una volta il gregge era a 2500 metri di altezza, sotto la punta della Corna: quando salii per la solita visita, mancava un animale; mio padre mi fece tornare per cinque giorni consecutivi da Usseglio sino ai pascoli finché non trovai la pecora morta, poiché ero io il responsabile del gregge!

Posso dire che nella mia infanzia non ho quasi mai giocato, ma non avrei neanche trovato compagni di gioco perché tutti lavoravano sin dalla più tenera età.

Nel 1947 il rifugio Cibrario al Peraciaval era gestito da uno di Rivoli che era in collegamento con mio padre: mancavano dieci giorni al termine della stagione di apertura, quando questi decise di scendere a valle, per cui mio padre inviò me per far funzionare comunque il rifugio. Era il 26 agosto, avevo 16 anni e non ero mai salito sin lassù. Partii da solo; quando arrivai alla fontana della Lera calò una nebbia fittissima, non vedevo più nulla. Continuai tuttavia lungo il sentiero e, ad un bivio, decisi di scegliere la pista più battuta; finalmente giunsi al rifugio; aiutai il gestore a fare un po’ di pulizie, poi mi diede da mangiare la “zuppa mitonata” e se ne andò. Rimasi su da solo per dieci giorni.

L’anno successivo prendemmo noi in gestione il rifugio e portammo lassù anche le pecore. Stavamo su tre mesi, un po’ ero con le mie sorelle, ma per due mesi buoni ero solo. L’attrezzatura era veramente minima, ricordo un fornello a spirito che impiegava un tempo lunghissimo per cuocere il cibo.

Era un periodo storico molto travagliato: benché Togliatti avesse firmato l’amnistia, l’odio conseguente al periodo della guerra civile continuava e spesso qualcuno valicava il confine per sfuggire alle vendette covate da lungo tempo. Io avevo veramente paura perché vedevo certe facce! Una sera vidi arrivare tre uomini, il primo dei quali portava una valigia sospesa a un bastone sulla spalla e indossava scarpe dalla suola liscia. Capii subito che erano dei fuggitivi. Mi dissero che erano mandati da uno di Usseglio che conoscevo, allora mi tranquillizzai un poco, e indicai loro il percorso: scappavano in Francia.

La mia famiglia ha gestito il rifugio Cibrario sino al 1966, gli ultimi anni mio padre stava su da solo.

Nel 1953 prendemmo in gestione anche il rifugio Tazzetti al Founs ‘d Rumour: lo tenevano le mie sorelle. lo approvvigionavo entrambi i rifugi e dovevo trasportare tutto con lo zaino. Nel 1958, in estate, lavoravo anche come muratore per l’impresa Borla che eseguiva lavori alla diga della Torre per conto della Società Dinamo: fatico dieci ore al giorno, poi la sera salivo a portare le provviste al Peraciaval, un’altra ora e un quarto di marcia caricato dello zaino!

Dal 1960 gestii da solo il rifugio Tazzetti: nei mesi di luglio e settembre lo tenevo aperto solo il sabato e la domenica (negli altri giorni continuavo a lavorare come muratore), il mese d’agosto era sempre aperto. Mentre il rifugio Cibrario accoglieva clienti che si trattenevano anche 4 o 5 giorni, il Tazzetti ospitava solamente persone di passaggio, per cui riuscivo a gestirlo da solo; mi approvvigionavo di acqua al laghetto sotto il Rocciamelone, poi la lasciavo decantare per depurarla dalla sabbiolina; un anno le acque del lago furono sempre agitate e quindi torbide, dovevo perciò risalire ogni giorno, con circa una-due ore di marcia, sino ai canaloni da cui scendevano le cascate. Lassù al rifugio ho conosciuto lunghe ore di solitudine, specialmente quando la nebbia durava magari per giorni: allora leggevo e facevo le parole crociate. Naturalmente continuavo a portare nello zaino, da valle, tutte le provviste; ho tenuto il “Tazzetti” sino al 1980 e solamente negli ultimi tre-quattro anni ho poi potuto usufruire dell’elicottero.

Nel 1958, il cavalier Toniolo, responsabile del Soccorso Alpino per la provincia di Torino, chiese a mio padre di creare una stazione a Usseglio: era composta da 12 persone delle quali feci parte anch’io. Il primo intervento ebbe luogo nell’agosto di quell’anno. Ero al Peraciaval, quando mi avvisarono che vi era un infartuato sul Rocciamelone. Era notte e, per non scendere a valle e risalire verso il Tazzetti, con un altro compagno decidemmo di rimanere in quota attraversando il Col Sulé. Ci munimmo di una lampada ad acetilene e partimmo; era circa l’una dopo la mezzanotte quando la lampada si spense per mancanza d’acqua: purtroppo nel punto in cui ci trovavamo non c’era alcun ruscello e dovemmo urinare nel serbatoio per riuscire a riaccenderla, in quanto la discesa dal Col Sulé al buio è proprio impossibile. Alle 3 di notte giungemmo al Tazzetti e il mattino successivo effettuammo poi il soccorso.

L’operazione più difficile che mi sia capitata avvenne il 20 novembre del 1988. Tutta la mia famiglia era riunita qui a casa mia per un pranzo; erano circa le 4 di pomeriggio e nevischiava quando ci avvisarono che c’era un ferito nella zona del rifugio Tazzetti; con gli altri membri del soccorso ci ritrovammo presso la Cooperativa, un certo Pataca, membro della Croce Rossa. ci accompagno sino a Malciaussia con il fuoristrada. Verso le 8 di sera, nella zona del rifugio Maria Galizia, incontrammo il padre del ferito ad attenderci: l’uomo nell’agitazione non riusciva più a ricondurci dal figlio, per cui girammo a lungo prima di ritrovare il ragazzo ormai in coma dopo la caduta. Lo caricammo sulla barella (era impossibile trasportarlo con il toboga) e lo portammo giù a spalle. Il terreno ghiacciato, ricoperto ormai da una spanna di neve fresca e asciutta, era divenuto come sapone: scivolavamo tutti i momenti e la discesa diveniva interminabile. Nel frattempo ci chiamarono per soccorrere un cacciatore; ci rivolgemmo allora alla stazione di Lanzo; dopo aver provveduto al ferito, ci vennero incontro e ci diedero una mano. Giungemmo a Malciaussia alle 2,30 di notte, caricammo il ragazzo su una Campagnola dell’Enel: si trattava però di scendere a Margone lungo quella strada stretta, pericolosa, esposta sui burroni e completamente ghiacciata; a ogni curva dovevamo trattenere l’auto sulla strada con una corda. Giungemmo a Margone alle 5 di mattina, dove un’ambulanza della Croce Rossa si prese cura del ferito. Di lui non ho più saputo niente, dalla famiglia
nemmeno un grazie: rimasi alquanto dispiaciuto, ma queste sono cose che si mettono in conto in partenza.

Sono stato a capo della stazione del Soccorso Alpino di Usseglio per venticinque anni, sino al 1997.

Nella mia vita ho lavorato moltissimo, però ho avuto due grandi passioni: la caccia e la pesca. La seconda la pratico ancora, in riserva; la prima l’ho ormai abbandonata da circa vent’anni. Ho iniziato a cacciare intorno ai 16 anni; facevamo soprattutto battute al camoscio: i tiratori più bravi si posizionavano nei passaggi obbligati dove noi più giovani spingevamo gli animali con ore e ore di cammino. Mi mandavano spesso in posti che non conoscevo: una volta, sul monte Grifone, mi dissero che dovevo salire per circa due ore; ad un tratto il sentiero finì, continuai in mezzo alle drose, alcune erano alte, piegate dalla neve, ero completamente fradicio, persi addirittura le cartucce. Un’altra volta andammo sull’Ovarda: salii alle Tre Pere poi lungo lou Cinal d’l diau, da cui non riuscivo più a scendere; quando giunsi in vista del Ghicet Paschiet, mi accorsi che c’era una persona; mio padre mi aveva detto di stare attento che al di là del colle era zona di riserva, per cui posai il fucile (avevo sempre una doppietta) e mi avvicinai facendo finta di essere un escursionista; per fortuna era un ragazzo di Usseglio il quale mi informò che suo padre stava cacciando sul versante di Balme. Ritornai perciò a prendere la mia arma e aggirai tutta l’Ovarda sul versante balmese, scendendo poi lungo il Cinal rouss. Quando giunsi a casa, dopo circa 15 ore di cammino (si partiva in genere alle 3 di notte), mio padre mi fece ancora una bella lavata di capo.

Ho anche accompagnato molte persone in escursioni e ascensioni, ma non ho mai frequentato il corso da guida alpina, com’era tradizione nella mia famiglia; ho preferito dedicarmi al soccorso.

Oggi mi godo la pensione nel mio bellissimo paese che non ho mai abbandonato; sono appassionato di lettura e di sudoku, faccio ancora qualche passeggiata, ma non tanto lunga perché sono anche stato operato di protesi all’anca. Ieri ad esempio sono stato nel vallone di Servin per accompagnare il direttore del Museo alpino “Tazzetti” in cerca di una buiri (anfratto), ingresso probabilmente di un’antica miniera di rame. Una salita breve di un’ora e mezza».

Bisogna aver risalito il sentiero del vallone Servin, erto e impervio, per capire di quanto sia ancora capace Franco Vulpot all’età di 80 anni!

Tratto da Bruno Guglielmotto-Ravet (a cura di), Le belle età. I vecchi di Usseglio si raccontano, Lanzo T.se, Società Storica delle Valli di Lanzo, CXIX, 2012


…poiché ero io il responsabile del gregge!

Francesco Ferro Famil all’età di 10 anni era responsabile del gregge, e se mancava un capo, doveva occuparsi di ritrovarlo in luoghi aspri ed impervi.
Oggi si parla tutti i giorni di responsabilità, come se prima della pandemia fossimo esonerati di esserlo.
La “responsabilità” è la grande assente della nostra epoca. Non è il caso che vi segnali tutti gli ambiti in cui abbiamo assistito, nelle ultime settimane, alla mancanza di responsabilità. Ci siamo di colpo risvegliati su di un altro pianeta sul cui ponte di comando non c’è nessuno. Pensiamo a quanto è successo negli ospedali e nelle case di cura. Pensiamo a come sono stati lasciati soli i medici di famiglia, i primi che avrebbero dovuto prendersi cura dei malati.
Non voglio addentrarmi sul tema della libertà che fa il paio proprio con la responsabilità. La libertà la stiamo progressivamento perdendo, cosa assolutamente ovvia mancando una classe dirigente responsabile sui ponti di comando. Fatto questo gravissimo che rischia di spalancare le porte ai totalitarismi e alla miseria.
Nel frattempo abbiamo definitivamente spezzato la corda, quel passato in cui i nostri nonni, a prezzo di fatiche immani, hanno gettato le basi per un avvenire più libero, ricco e degno di essere vissuto.

Ringrazio di cuore tutta la Società Storica delle Valli di Lanzo per il costante lavoro di recupero culturale e storico: i paesaggi delle Valli di Lanzo non sarebbero così affascinanti se non ci fossero le “lenti” di un buon libro per poterli vedere.


[…] appena saranno sviluppati i farmaci e i vaccini contro il virus, anche l’economia ripartirà – e con essa le emissioni di CO2. Gli anziani e le persone con patologie preesistenti appartengono al gruppo a rischio covid. Questo è anche il gruppo sociale più a rischio a causa dei cambiamenti climatici nelle Alpi, ad esempio in seguito a ondate di calore. Kaspar Schuler, codirettore della CIPRA International, sottolinea: “Anche solo tenendo conto di motivi sanitari e per salvare migliaia di vite umane, dobbiamo ricostruire l’economia dei Paesi alpini in modo sostenibile ed ecologico”.

Tratto dall’articolo “Una via d’uscita dalla crisi rispettosa del clima?” sul sito della CIPRA www.cipra.org/it/notizie/una-via-d2019uscita-dalla-crisi-rispettosa-del-clima

5 pensieri riguardo “La corda spezzata

  1. Bene, mi piace molto la riflessione finale sul covid. Non ho ancora saputo il numero di telefono di Franco, ma prima o poi….. Buona festa.

    Emanuela

    Inviato da Posta per Windows 10

    Da: I camosci bianchi Inviato: venerdì 24 aprile 2020 21:18 A: emanuela.lavezzo@fastwebnet.it Oggetto: [New post] La corda spezzata

    Beppeley posted: ” Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia (Proverbio africano) Nel 2012 la Società Storica delle Valli di Lanzo pubblicò Le belle età, un volume bellissimo e ricco di splendide fotografie di Enzo Isaia, che documenta i giorni della vecchiaia “

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  2. “Con l’età mi commuovo facile. Succede quando un piccolo gesto sembra riassumere il mondo. E’ accaduto anche ieri, quando nello smartphone ho scoperto un breve filmato spedito da un’amica di Moncaco di Baviera. Era Samuel, tredici anni, suo figlio, che da una stoffa a fiori cuciva mascherine nella vecchia Singer a pedale, che Coronavirus aveva svegliato da un letargo di quindici anni in soffitta. La macchina da cucire della nonna. E’ li ho pianto, in modo incontrollato. Non riuscivo a smettere. Da vergognarsi. Non era solo per il simbolo di speranza di resurrezione contenuta in quel gesto, per il suo stupendo messaggio generazionale o per la bontà e dedizione che esso esprimeva, ma soprattutto perché dietro a quel gesto c’era una coscienza civica e un rapporto di fiducia tra cittadino e istituzioni. C’era un popolo, che un governo chiamava a raccolta per vincere una sfida comune. […]”

    Paolo Rumiz su Robinson de La Repubblica (25/04/20)

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  3. Che forza!
    ———

    Da Specchio dei tempi, lettere del 24 aprile 2020: https://www.lastampa.it/rubriche/specchio-dei-tempi/2020/04/24/news/specchio-dei-tempi-le-lettere-del-24-aprile-1.38756225

    “A 86 anni rivendico il diritto alla mia libertà”

    “Tv e giornali sono pieni di anticipazioni, molto spesso discordanti, dei provvedimenti che verranno presi nella famosa Fase 2 che dovrebbe caratterizzare la fine dei nostri indiscriminati arresti domiciliari. Nella Stampa di questa mattina, 23 aprile, scorrendo titoli e sottotitoli, leggo: “Conte: Ci sarà anche il primo via libera agli spostamenti. Ma non tra regioni”. Professor Santus : La vita all’aria aperta al mare o in montagna rafforza il nostro sistema immunitario che ci difende dal virus. Io sono di Cuneo, ma a Roma lo sanno che piemontesi e lombardi il mare non ce l’hanno e buona parte del Pil della Liguria dipende dal turismo e dalle seconde case degli abitanti di queste due regioni confinanti? Io che ho la seconda casa a Bordighera devo continuare a pagare Imu e tassa rifiuti per un bene di cui non posso usufruire. E cosa ne dicono i lettori della discriminazione contenuta nella adozione di una fascia protetta (10,30-18.00) per l’uscita degli ultra 70enni? Io di anni ne ho 86. Prima degli arresti domiciliari camminavo 10 chilometri al giorno, facevo gite in montagna, andavo a sciare. Non so cosa mi succederà stando chiuso in casa. Cosa ne faccio della fascia protetta obbligatoria? Viva l’Italia e i suoi bistrattati diritti costituzionali!”.

    Gianni Sesia
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  4. Mi ha commosso rileggere quanto scrissi dei “miei vecchi” allorché effettuai le interviste nel paese di Usseglio. Li rivedo, uno ad uno, nella loro semplice, granitica dignità. Nessuno aveva una grande cultura libresca, nessuno aveva viaggiato il mondo; la montagna era stata la loro casa, a volte unica casa. Ho sofferto molto in questi giorni, ed ho pianto molto spesso come Paolo Rumiz, nell’apprendere il numero dei vecchi scomparsi per il covid nelle case di riposo. So che sono la generazione più debole, che la natura non è mai madre, ma matrigna e seleziona i più forti a discapito dei più vecchi. L’ho imparato anche dalla montagna in tanti anni di frequentazione. La forza dei vecchi sta nella loro memoria, nell’esperienza di vita, nella capacità di vedere molto “lungo” davanti a sé, nella pratica della tolleranza,della pacatezza, nel coraggio di esimersi da giudizi troppo radicali e, proprio per questo, spesso avventati.
    I miei vecchi montanari non avrebbero mai scritto le parole di Gianni Sesia riportate da Specchio dei Tempi: essi hanno conosciuto molto bene (basta leggere l’intervista di Gianfranco Vulpot) il valore della vita perché l’hanno messa a rischio sin dalla più tenera età, non per andare nella seconda casa al mare o per compiere gite e passeggiate, ma perché lo imponeva un’esistenza dura e povera. I miei vecchi (non anziani, e la differenza l’ho esplicitata nell’introduzione alle interviste) avrebbero fatto di tutto per salvaguardare se stessi e i loro cari da un morbo che uccide più di una guerra. I miei vecchi sapevano il senso della libertà che, come cantava Gaber anni or sono, “non è star sopra un albero e non è nemmeno il volo di un moscone”; la libertà è rispetto di se stessi e degli altri e, in questo doloroso periodo, la libertà è restare in casa o uscire per cose essenziali, rispettando le norme e usando tutti gli accorgimenti per evitare il contagio. Questo prescrivono i nostri diritti costituzionali: non esiste solamente la mia libertà, essa termina dove inizia quella di tutti gli altri.
    Viva l’Italia, l’Italia che resiste e cerca di proteggere i più deboli, come deve fare una vera democrazia.
    Ariela Robetto

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