
In Diario del Gran Paradiso, libro che amo tantissimo e che qui ho avuto modo di citare sovente, l’autore, Anacleto Verrecchia, racconta la sua terribile esperienza sotto i bombardamenti nel 1943, durante i quali perse la madre.
Il 15 febbraio di otto anni fa ero sotto i bombardamenti di Montecassino. Il ricordo di quell’infamia, per giunta inutile e quindi doppiamente esecrabile, è vivissimo in me. Conservo ancora alcuni appunti presi in quell’inferno. All’alba fummo svegliati, come al solito, dall’artiglieria pesante. Il giorno si era annunciato con un mattino splendido, che consentiva la vista su tutta la valle di Cassino. Ma a un certo punto, con nostra grande meraviglia, le artiglierie tacquero e sulla valle calò un silenzio insolito. La celebre abbazia era ancora là, intatta e solenne. Pareva quasi che, con la sua maestosità, volesse indurre a miglior consiglio gli uomini che si combattevano rabbiosamente e si trucidavano ai suoi piedi. Le poche cannonate che vi erano cadute sopra avevano appena scalfito le sue mura possenti e secolari.

I monaci benedettini, frammisti a una folla cenciosa di civili affamati e terrorizzati, recitavano l’antifona mariana. L’abate Gregorio Diamare, simpatico vegliardo, sperava ancora, in cuor suo, che nessuno volesse distruggere un luogo di pace e di meditazione. «Pro nobis Christum exora»: queste furono le ultime parole della preghiera recitata in ginocchio. Subito dopo, verso le 9.30, la terra sussultò come per una violentissima scossa sismica. Le valli cominciarono a rinfrangere l’eco di boati terrificanti, mentre su Montecassino si levavano altissime colonne di fumo. Tremava anche l’aria, i cui spostamenti formavano dei cerchi concentrici simili a quelli che si distinguono sulla superficie dell’acqua quando vi si butta un sasso. Uno spettacolo da Dies irae! Per i poveri monaci, abituati a vivere nella quiete e a parlare sotto voce, quelle esplosioni furono un battesimo terribile, anche se avevano fatto l’orecchio ai proiettili che da mesi scoppiavano nei dintorni del monastero. Atterriti, s’inginocchiarono tutti insieme in un angolo e si prepararono alla morte, mentre l’abate, come un automa, impartiva loro la benedizione. Gli stormi di fortezze volanti spuntavano dai Monti Aurunci e, dopo aver sganciato le bombe sull’abbazia, facevano un ampio giro sulla valle e ritornavano indietro. Volavano a bassa quota, perché non c’era reazione contraerea. Il bersaglio, posto su uno sperone calcareo alto più di 500 metri, era difficile a colpirsi; tuttavia le bombe, che chi come me era fuori dal monastero poteva seguire con l’occhio durante la caduta, andarono per la maggior parte a segno. E io seguivo anche i successivi crolli di quelle mura secolari, che si abbattevano al suolo come giganti fulminati. Dopo ogni ondata, la sagoma dell’abbazia appariva sempre più sventrata e irriconoscibile. Ma la lotta fu dura, come è sempre dura la lotta contro lo spirito: le mura, alte una cinquantina di metri e lunghe circa duecento, avevano uno spessore, specialmente alla base, quale non si troverebbe in nessuna fortezza. Il bombardamento durò fin verso le prime ore del pomeriggio. Il lavoro di rifinitura, per così dire, fu poi fatto dalle artiglierie. Dal punto di vista strategico, quella pioggia di fuoco non serví a niente, tranne che a uccidere degli innocenti e a distruggere uno dei piú insigni monumenti della civiltà occidentale. Anzi, fu un errore tattico di prima grandezza. I tedeschi, che prima si erano tenuti rispettosamente lontani dal monastero, mettendone anche in salvo la preziosa biblioteca, vi si fortificarono dopo la distruzione, ben sapendo che è molto piú facile difendersi in mezzo alle macerie che in un edificio intatto. Questo lo sapevamo e ne facemmo lunga esperienza anche noi civili. Possibile che non lo sapessero i comandanti dell’esercito alleato? Qui parlo di tattica e non di cultura, perché sarebbe eccessivo pretendere che un generale americano o neozelandese conoscesse la storia di Montecassino. Bastava guardarne le facce per capire che quella gente non se la intendeva molto con la cultura. Quando il nembo passò, dopo tante battaglie e carneficine, l’occhio di chi guardava dall’alto di Montecassino si smarriva, tutt’intorno all’orizzonte, in un mondo silente e morto. Era come vi si fosse sprofondato il tavolato dell’esistenza. Le stesse montagne sembravano piegate al dolore, anche perché erano tutte scorticate dai proiettili di artiglieria. In mezzo alle macerie dell’abbazia affiorava, qua e là, la testa di qualche statua che pareva guardarti con occhi sbarrati. Su fianchi del monte, invece, la smorfia atroce di qualche cadavere ancora insepolto ti riempiva di orrore. Ma poi la natura pietosa incominciò a far rifiorire le ginestre, che furono a un tempo omaggio ai morti e indizio di nuova vita. E su Montecassino, luogo di culto da oltre trenta secoli, come attestano le mura ciclopiche e i resti archeologici, risorse un altare, quasi a invocare la riconciliazione tra il cielo e la terra. Ci sarebbe poi da raccontare l’orribile storia di civili che, come me, rimasero per lunghi mesi intrappolati tra i due fronti, quello tedesco da un lato e quello alleato dall’altro. Ma le grandi sventure rendono muti. Infatti io non parlo mai di mia madre, morta sotto i bombardamenti degli alleati: preferisco smaltire da solo un sí atroce ricordo. Comunque ognuno può immaginare che cosa significhi trovarsi nel bel mezzo di due eserciti che si combattono rabbiosamente e sotto un continuo uragano di fuoco. Per giunta l’inverno era molto rigido e non si poteva neppure accendere il fuoco per riscaldarsi: il fumo di giorno e la fiamma di notte avrebbero immediatamente richiamato l’attenzione di qualche pilota o di qualche mitragliere. Dall’ottobre del 1943 alla primavera dell’anno successivo vivemmo rintanati sotto una roccia come le marmotte. Alla fine fummo posti dinanzi a questa bella alternativa: o sfidare le bombe o morire d’inedia. Scegliemmo la prima soluzione e, come fantasmi, andammo verso gli alleati. I tedeschi, che erano stati sempre abbastanza umani con noi, non ci spararono addosso, come altri avrebbero sicuramente fatto al loro posto, e ci lasciarono proseguire. Ma l’incontro con gli alleati, per la precisione con le truppe francesi comandate dal generale Juin, segnò l’inizio di una nuova odissea, sotto molti aspetti peggiore della prima. Spesso i liberatori dimostravano di saper liberare la povera gente anche dalla vita. La mia fu risparmiata dal caso, solo dal caso. E qui mi fermo. Dopo un’esperienza simile si è vaccinati contro qualsiasi avversità.
Verrecchia decise di confinarsi per tre anni nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, in veste di guardaparco, per cancellare i ricordi della battaglia di Montecassino, a cui aveva assistito da ragazzo.