
Un brandello di memoria lo si può tramutare in un’escursione al limite dell’impossibile?
Ho recuperato un numero del 2015 della rivista “Panorami-Vallate Alpine”, che purtroppo ha chiuso i battenti, in un angolo buio e polveroso di uno scantinato. In quel cantuccio, uno scritto della cara amica Ariela attende di dimostrarti che il concetto di tempo (cronologico) è una pura invenzione umana. Aspetta di confermarti che semplicemente non esiste. È la coscienza l’ingranaggio del “tempo”. Sfuma in noi, lentamente ed inesorabilmente, mentre andiamo incontro alla vecchiaia. Abbiamo solo un’arma per tenerla vigile: la memoria, l’unica ed insostituibile “bomba nucleare” che possa annientare le ombre tenebrose che eclissano la coscienza.
L’articolo che segue sembra scritto oggi. Rileggerlo, dopo sette anni, mi ha provocato una forte emozione. Il 10 aprile scorso è diventato una bellissima ed appagante escursione del Club Alpino Italiano. In quei duri passi tra le montagne a solatio della Val d’Ala, c’è anche chi ha avuto la magnifica idea di leggerlo all’Alpe d’Attia, prima di toccare finalmente il nostro nido d’aquila, così cercato ed amato da Ariela. E da noi.

L’alpe Corniele: un nido d’aquila nelle Valli di Lanzo
Luoghi dimenticati, deserti di speranza
Testo di Ariela Robetto
(pubblicato originariamente sul bimestrale “Panorami – Vallate Alpine”, n. 117 di novembre – dicembre 2015).
Vi sono luoghi sconosciuti ai più, i quali godono di una bellezza particolare, riservata a quanti desiderano una montagna d’altri tempi, rude, aspra, senza velleità turistiche, desiderosa di starsene racchiusa nei suoi silenzi, lontana da tutto quanto è oggi ricercato dall’escursionista: il sentiero ben segnalato, comodo, ripulito, rintracciabile su GPS… insomma una montagna “comoda” che non sia più di tanto fonte di rischio e di incertezze.

Sono, invece, questi, luoghi di una montagna “vissuta” dai montanari, che, evidentemente, non possedevano ambizioni di escursionismo, tanto che le alte cime solamente in periodi relativamente recenti acquisirono un nome: prima non interessavano a nessuno.
Amo questi luoghi perduti, dimenticati, sovente in rovina, per raggiungere i quali non si ritrova più un sentiero. Alcuni sono ormai sprofondati nel mare del bosco da cui vengono, poco a poco, inghiottiti e riconsegnati ad una natura che li avvolge in spire e tentacoli oscuri, ridisegnandoli in tele d’Arcimboldo; altri, sorti in pascoli ad altitudini superiori, resistono più a lungo, impavidi, alle intemperie e alla memoria corta degli uomini.

Poi vi sono i nidi d’aquila, i reietti, lontani dai sentieri ancora percorsi, lontani dalla montagna dei rocciatori e dei free climbers, lontani nel tempo anche dagli uomini e dalle donne che li hanno vissuti e li hanno lasciati, eredità sconosciuta o indesiderata a discendenti che non ne vogliono più sapere.
Il versante a solatio di Ala di Stura, nelle Valli di Lanzo, impervio, scosceso e solitario, è ricco di questi poveri luoghi che si arrampicano e s’aggrappano a pascoli magri e petrosi come branco di stambecchi.
Un deserto di salvezza.

In momenti come quelli che stiamo vivendo, così cupi e gravidi di ansie, bisogna gettarsi a capofitto all’inseguimento della speranza. Ci si sente circondati su quattro lati da muri spessi e invalicabili, confinati in un angolo di esistenza dove non ci rimangono che simboli e paura.
Adesso bisogna aggrapparsi e non fuggire, ma proseguire: uno sforzo atroce, che ci consente, tuttavia, di rimanere ancorati in un mondo tanto tragico quanto meraviglioso.
Questi spazi, cosi puri, sani, incontaminati, sono mano tesa, brezza vitale per tutti noi avvolti in un’aria che si solidifica di giorno in giorno all’intorno come cemento. Le Piane, le Frere, la Rugeri, l’Alp souta la roci, Malzé, li Cugn, Malatrait, le Corniele, le Ramaje… nidi d’aquila sgranati come un rosario dall’Uja di Mondrone al Monte Doubia, luoghi d’incanto e pur quasi dimenticati.

Da donna, riesco ad immaginare le donne che hanno vissuto, lavorato, partorito in questi alpeggi d’altura oggi ridotti in rovina.
Quante ne ho conosciute nel corso del tempo! Difficile identificarle tanto erano impietosamente simili. Mi hanno impregnata della loro vita a forza di raccontarmela e di raccontarsela.
Appartenevano tutte a queste valli. Erano quasi tutte vedove, chi d’alcolismo, chi d’incidente, poche di malattia. Tutte resistettero vittoriosamente al destino sino a giungere alla grande calma della vecchiaia. Tutte assistevano alla messa la domenica, più per distrarsi che per fede. Piaceva loro sentire la campana nei giorni di festa, sempre uguali, fosse aprile oppure dicembre; potevano indossare la cuefa di pizzo nero e recarsi in chiesa a piccoli gruppi, come fosse stata la processione di San Rocco. Poi, come un gregge di capre, riconoscendo ognuna la propria stalla, sciamavano lungo i viottoli scuri verso le loro case dove ritrovavano sotto i piedi gelati il lusso di uno scaldino gonfio di tizzoni.

Scomparsi i mariti, avevano guadagnato una nuova, serena bellezza acquisita dalla razza. Una razza che affondava le proprie radici nel rigore del clima che fortifica. Tutte, in un momento qualunque della loro vita, erano state messe alla prova dalla disgrazia e l’avevano superata. Vita che, nella maggior parte dei casi, era stata banale in fatto di morti, matrimoni e disillusioni, non aveva avuto alcun rilievo. Nella disgrazia, nel maleur, come dicono da queste parti, uno può dibattersi sinché vuole, ma essa finisce sempre per non lasciare tracce, cosi come la mediocrità, nella felicità, non lascia alcun segno. Si crede sempre di aver sognato i bei giorni felici che poi si confondono con i ricordi ordinari; «Facevamo fieno quel giorno…».

Quando parlavo loro dell’infelicità d’un tempo, rispondevano alzando le spalle: «Oh, è così lontano tutto questo!» e il movimento della mano che getta dietro la schiena non si sa quale fardello, non lasciava dubbi su questa lontananza fatale. Immutabili, lungo sentieri malagevoli, seguivano le stesse vie delle loro madri e delle loro nonne; non avevano mai avuto desiderio di andare a vedere se a distanza di qualche chilometro si vivesse meglio. Le Valli di Lanzo erano tutto il loro mondo e gli bastava. Erano anime semplici, avevano solamente voglia di raccontare storie dove il reale e il presunto tale disegnavano un luccichio di colori che le stupiva; li sgnuri ‘d Türin avevano sempre detto che le valli erano belle ed esse non avevano più avuto voglia di andare a vedere se fosse vero o falso.

La loro vita bastava, non provavano alcuna curiosità per la scena del mondo: esse conoscevano istintivamente il mistero per aver frequentato queste montagne impassibili che le consolavano, in ogni momento, d’essere testimoni sulla terra del disordine apparente della natura e delle sue ingiusta incongruenze.
L’alpe Corniele da anni non è più che un’entità geografica, quattro puntini segnalati sulle cartine con un 1825 scritto accanto a segnarne l’altitudine.
Più in basso, il sentiero balcone, ripristinato anni addietro dal CAI, sempre meno percorso dagli escursionisti, è divenuto una traccia invasa da erbe: e dire che attraversa paesaggi selvaggi; offre viste spettacolari, la wilderness di cui in molti si riempiono la bocca, ma che sempre meno hanno il coraggio di affrontare per il timore di ritrovarsi faccia a faccia con se stessi.

Dal Campo della Pietra saliamo a Pianfé e a Pian Serpeis: un autunno inoltrato salta su di noi dall’alto delle montagne come una volpe. Ci eravamo abituati ad un’estate che non finiva più: poi un giorno di vento ed ecco, l’autunno con un balzo felpato è là. Quassù s’è avvoltolato nei pascoli, si è strusciato contro il bosco ed ha lasciato il suo pelo ovunque. Gli alberi sono ormai tutti nudi; qualche foglia pende ancora, come ali di un uccello morto. Tutto scivola verso l’inverno e l’immobilità del gelo, ma non ce n’è rammarico, né disperazione. Scorgo solamente fiducia nell’avvenire, nel ritorno della primavera dopo l’inverno. La linfa conosce il ritmo delle stagioni, sale più lentamente nei tronchi, oppure resta nelle radici come in una tana; o ancora, con infinita pazienza, cementa lungo i rami le piccole ferite lasciate dalle foglie cadute.

Sul pascolo galleggia un fumo biancastro, leggero, vaporoso. Ne raccolgo un grosso fiocco alzando la mano nell’aria. È freddo, e un po’ vischioso. Guardo: ho il palmo colmo di stelle bianche. Fiori! Fiori di caglio bianco, petali di achillea, peli di euforbie, stami di saponarie, cose morte, già secche e in polvere, cenere di fuochi spenti da tempo.
Iniziamo la salita nella faggeta: i fusti più giovani, alti e slanciati, non temono di affrontare il cielo, sino a sfiorarlo con braccia dritte, temerarie, ardimentose. La luce morbida del mattino esalta il terreno, ambrato di foglie cadute e pur vive, risonanti al passo, con le sue cupole, le sue terrazze, le sue strade, i suoi vicoli, i suoi viali dorati, fra colonne coperte di nobile grigio, le cortecce curate, levigate, elegante e signorile marmo vegetale. Altri faggi, annosi, arcigni, sono ombrosi quali vecchi che non credono nel futuro, lo scorgono caliginoso, tetro, inzuppato di morte: odiano ormai la vita logora come una vecchia tela, ma temono allo spasimo il passaggio in un aldilà per cui pregano rosari durante ore intere.

Usciti dal bosco, penetriamo nella Gran Coumba. Il torrente è morto, immobile, nient’altro che pietre. Gli enormi massi che erano le rotule delle sue ginocchia d’acqua, sono privi di carne, in mezzo a questo caos d’ossa secche e di pietrame. Tutto è esanime e immoto.
Dopo un breve tratto di cammino, ci ritroviamo nel ripidissimo pendio su cui l’alp Corniele sta, attaccato come un nido di vespe.
Non v’è traccia di sentiero; scorgiamo lassù tre costruzioni, ormai temerariamente sospese alle rocce, su questa gobba di montagna affiorante fra due canaloni petrosi e avvolta in un vecchio tabarro d’erbe secche, sfinite e sulle quali, qua e là, s’avvivano rattoppi verde scuro di ginepri e rododendri.
Iniziamo a salire, mi dico: «La cosa si fa difficile! Non riuscirò a reggermi in piedi!».

L’erba è dura, coriacea, legnosa e maledettamente scivolosa. Come sempre capita, cerchiamo di aggirare il nemico, affrontandolo ai fianchi ma i traversi in orizzontale, data la pendenza, sono ancora più difficoltosi, per cui decidiamo di salire a candela lungo quella che sembra una traccia di sentiero serpeggiante. L’ascesa è faticosa: attraversiamo ginepri irti di spine, scavalchiamo qualche albero caduto e piegato su se stesso, a volte mi ritrovo a salire sulle ginocchia, a quattro zampe; sbircio di sottecchi il larice posto poco a valle delle baite, ma è sempre terribilmente lontano. Eppure la fiducia è entrata in me. Mi sento lavata da tutta la sporcizia del mondo di laggiù. Man mano che arranco faticosamente, diventa sempre più difficile pensare al passato e al futuro. Diventa persino difficile soffrire.

Attorno a me il pascolo, poi, oltre l’alpeggio, ancora una striscia di abeti scuri che già s’intrufolano fra le rocce, e poi la montagna e il cielo puro, pulito come pietra di lavatoio.
Giungiamo alle baite: una di esse ha avuto da poco il tetto rifatto con una lamiera ondulate, scintillante nel sole come uno specchio. Mi domando come abbiano fatto a trascinare il materiale sino all’alpeggio, eppure qualcuno ha ancora voluto, con fatica e tenacia, mantenere in piedi un’eredità di vite lontane. Questa è la fiducia nel futuro! Non piangere su se stessi, ma rimboccarsi le maniche per continuare ostinatamente.

Stare quassù, dopo giorni di orrori provenienti dal mondo, fa star bene, è confortevole come un bel maglione morbido. Qui non guerra, non terrorismo, non umane miserie: si è costretti ad entrare nella psicologia delle montagne, nei sentimenti della pietra, dei torrenti, del bosco, del vento, nel vuoto precipite che s’abbatte sotto di noi in una china vertiginosa.
lo, qui, ridicolmente in marcia a quattro zampe, mi sento così libera che potrei mettermi a fischiare come uno stambecco.
Non ci sono più alpeggio, pascoli e rovine.
Chi ama queste terre, ama il mondo.
Il mondo intero.


Ringrazio Chiara, Clara, Ivano, Katia, Marco, Michele e Silvana per l’entusiasmante e memorabile escursione, compiuta seguendo il vostro sorriso e il genuino e profondo sguardo empatico di Ariela.



Qui non guerra, non terrorismo, non umane miserie: si è costretti ad entrare nella psicologia delle montagne, nei sentimenti della pietra, dei torrenti, del bosco, del vento, nel vuoto precipite che s’abbatte sotto di noi in una china vertiginosa.
lo, qui, ridicolmente in marcia a quattro zampe, mi sento così libera che potrei mettermi a fischiare come uno stambecco.
Non ci sono più alpeggio, pascoli e rovine.
Chi ama queste terre, ama il mondo.
Il mondo intero.
Grazie Ariela per i tuoi passi.