Le feste natalizie: presagi e auspici per il futuro

Tratto dal libro Il segno dei giorni. Ricorrenze e tradizioni nelle Valli di Lanzo di Ariela Robetto (Daniela Piazza Editore, 2002).

N.B.: cliccando sul numero delle note, si apre un file in pdf dove le trovate tutte (per comodità di lettura, potete tenerlo aperto e consultarlo quando necessario; le note sono anche rintracciabili alla fine del post).


“Tempora temporale! Avessi digiunato alla vigilia di Natale!” esclamava Bàtistëtta Droetto, classe 1848, allorché, con occhio sgomento vedeva gonfiarsi le nubi da tempesta a tramontana, là verso l’Uja, verso il passo dell’Ometto, tanto basse da coprire i pascoli del Granmont, appena sopra Mondrone1. Uomo religiosissimo (il mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo metteva a digiuno anche il suo bestiame) non sospettava certamente di rinnovare un’antica usanza pagana allorché faceva dipendere le rovine del temporale da un periodo da sempre considerato foriero di presagi come quello del solstizio d’inverno, riconvertito dalla cristianizzazione nelle festività per la nascita di Gesù Cristo.

Ma si sa: la religiosità dei nostri montanari (e delle genti delle campagne in generale) da sempre è intrisa di paganesimo, di superstizione, di magici riti propiziatori e scongiuratori che si fanno rientrare, attraverso vie anguste e buie come le chintane dei villaggi, nei culti più strani rivolti a santi dell’impossibile, a Madonne nere come la madre primigenia, i quali indicano con caparbietà tutta montanara il luogo in cui desiderano siano eretti i loro santuari. Quando la sopravvivenza di un intero anno può dipendere da un temporale è ovvio che tutte le pratiche protettive siano messe in atto per esorcizzare l’evento funesto: la lòsna2 può incenerire il bosco, gli uomini e le bestie, la tempesta può distruggere i campi di segale, una pioggia violenta e copiosa può dilavare i piccoli appezzamenti terrazzati (ricordiamo che essi erano specie di grandi cassoni dove ogni anno si riportava il terreno fertile dal basso verso l’alto del pendio); infine le terribili alluvioni seminano da sempre distruzione e morte in tutte e tre le Valli tanto che sono entrate nelle leggende come opera del demòni o di personaggi giganteschi e perversi.

chintane

Si ricorre allora ad una sequela di “parafulmini” cui il montanaro si rivolge fidente, giacché il male che giunge dall’alto si può contrastare solamente con l’intervento di chi sta in alto: la preghiera a San Grato (Sancte Grate libera nos a fulgure et tempestate si legge sul frontone della cappella di Lities in Val Grande); la supplica a Santa Barbara e San Simone (Santa Barbara, San Simon dio difend da la lòsna e da o tron, da o fiò e da la fiama e da la mòrt subitana3 si recita in Valle di Viù); si suonano le campane per disaggregare la nuvolaglia (a Ritornato di Corio il prete, suonando le campane di San Lorenzo, scongiurava la grandine4); si accendono i ceri della Candelora, si brucia l’ulivo benedetto alla Ramauliva5 oppure con esso si tracciano croci nell’aria.

Quando tutta la litanìa di pratiche religiose non funziona, non rimane che attribuire alle proprie mancanze la furia del cielo: “Tempora temporale! Avessi digiunato alla vigilia di Natale!”.

Venivano chiamati Tempora i periodi di tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato) all’inizio di ogni stagione in cui la Chiesa prescriveva il digiuno. I racconti relativi a castighi divini venuti a colpire coloro che non si erano attenuti a questo precetto sono diffusi; nella Valle Artogna (Vercelli) si racconta di una donna che, immemore della regola, allattò il suo bambino nella tempora di Natale, ragion per cui morì improvvisamente ed il suo fantasma fu spesso visto aggirarsi con il bambino tra le braccia presso la cascata del Tinàcc di Campertogno, cantando: “Témpuri tempurai /ch’i eisà djunà ai témpuri d’Dinà/ ‘ntu custi péini sarìa mai6.

Mentre Batistëtta collegava al mancato digiuno il maltempo estivo, in molti paesi europei il ceppo bruciato a Natale veniva conservato e usato come talismano contro le procelle, pratica in uso anche nella Val Soana, a Campiglia, dove “il cepperello che si mette sul focolare il giorno di Natale, dopo averne lasciato ardere una parte, si ritira per conservarlo e metterlo poi fuori dall’uscio ad ogni temporale, nella fiducia che abbia la virtù di allontanarne gli eventuali disastri”7. Nella castellanìa di Fontenay (Cher) i resti del ceppo, che doveva provenire da una quercia, erano gettati nel camino in occasione dei temporali per scongiurare i fulmini.

Le credenze meteorologiche collegate al Natale cristiano risalgono alla festa pagana di Mitra, così come alle Feriae Sementinae ed ai Saturnali in onore di Saturno, divinità agricola, feste anch’esse celebrate presso i Romani nel mese di dicembre. Esse rivivono nelle nostre terre dove li Calandre8, cioè i dodici giorni intercorrenti fra il Natale e l’Epifania, predicono il tempo dei mesi del nuovo anno. Ogni giorno, a partire dal 26 dicembre, corrisponde ad un mese dell’anno; ad esempio se il 26 il cielo è coperto, gennaio sarà prevalentemente nuvoloso e piovoso, se, invece splende il sole, il mese sarà sereno. In Puglia vengono chiamate Calénnule: comprendono un periodo di 25 giorni, da Santa Lucia all’Epifania, di cui i primi dodici e gli ultimi dodici sono da contrapporre come verifica uno dell’altro, mentre il giorno di Natale, che è nel mezzo, vale come pronostico generale per l’intera annata. “Intre Tsalende et le Rei le dzor marquon le mei9 si usa dire in Valle d’Aosta; qui il Natale è chiamato Tsalende (Calende) ad indicar che nel passato il 25 dicembre era ritenuto il primo giorno dell’anno.

Saturnalia (1783) di Antoine-François Calle (crediti: Wikipedia)

Il Natale ha preso, verso la metà del secolo IV, nella Chiesa d’Occidente, il posto della festa di Mitra, Natalis solis invicti, cadente secondo il calendario romano il 25 dicembre, ritenuto erroneamente solstizio d’inverno al posto del 21.

Mitra era una divinità iranica, il cui culto fu diffuso nel II-III secolo d.C. dai soldati delle legioni romane che lo avevano conosciuto nelle campagne d’Oriente. Era identificato con il Sole e veniva adorato nei mitrei, santuari che in Roma erano circa in numero di duemila: si trattava di sale sotterranee in cui gli adepti consumavano il pasto comune, uno degli atti solenni del culto che richiama il banchetto eucaristico della tradizione cristiana. Nei mitrei si svolgeva un servizio quotidiano rivolto alla statua, un altro settimanale per santificare la domenica, infine la grande festa annuale del 25 dicembre, anniversario della nascita del dio solare, immaginato uscente da una rupe. A sostegno di tutto vi era una dottrina centrata sui benefici scaturiti dalla vittoria divina sul male (identificato con il toro), ricca di contrapposizioni dualistiche tra angeli e demoni, tra bene e male. ll banchetto mitraico ripeteva quello celebrato da Mitra vittorioso con i suoi alleati all’origine del tempo e anticipava quello finale quando, secondo le credenze, Mitra avrebbe suscitato i morti dal sonno e separato i giusti dai malvagi.

Tauroctonia di Mitra (crediti: Wikipedia)

La Chiesa fissò la data del Natale al 25 dicembre (prima si festeggiava il 6 gennaio insieme al battesimo di Gesù) con lo scopo di combattere il mitriacismo, diffusissimo nell’Impero Romano, ma anche l’eresia manichea secondo la quale Gesù non sarebbe realmente esistito10.

Come già si è detto, si riteneva che il 25 dicembre corrispondesse al solstizio d’inverno, così come il 24 giugno, festività di San Giovanni Battista, era indicato erroneamente come solstizio d’estate. Erano entrambe date cariche di presagi, giorni liberi dai malefizi, in cui non si era soggetti agli influssi delle forze negative. Per questo nelle Valli di Lanzo il pane si cuoceva solamente due volte l’anno, nella luna di Natale ed in quella di San Giovanni. Lo pàn do Natal si conservava per tutto il semestre: poiché diventava durissimo, per l’uso, si avvolgeva in un telo e poi lo si batteva con un martello di legno per frantumarlo e consumarlo con il caffelatte a colazione. Non si usava negli altri pasti dove era sostituito dalla polenta. Veniva preparato con la farina di segale a volte mista a quella di castagne; a Viù in occasione della festività del S. Natale si cuoceva un pane di pura farina di castagne, il quale era denominato la micaci e veniva consumato come un dolce tradizionale; nella bassa valle si seminava un po’ di grano, ma era usato, tostato, in sostituzione del caffè, così come l’orzo e la segale abbrustoliti; in seguito si usò il caffè olandese, mentre il caffè vero si vedeva di rado… Lo si adoperava solamente quando qualcuno si sentiva male. Il cuocere il pane in questi due giorni ritengo avesse anche un intento propiziatorio per una futura abbondanza: era uso, infatti, in diverse regioni d’Europa, ricorrere a riti per favorire la prosperità: era diffusa la consuetudine che quando il ceppo era messo nel fuoco, la donna anziana vi spargesse sopra frumento affinché si avesse una annata abbondante; in Bulgaria le donne, un tempo, preparavano ciambelle natalizie con disegni significanti l’aia con numerosi covoni, il pastore con il gregge, l’aratro nel solco…11.

Solstizio di inverno nelle Valli di Lanzo

La novena di Natale era anche il periodo giusto per conservare le mele an compòsta: si stivavano le mele rugginose, i pom rusnent, in un recipiente ad imboccatura larga, poi si ricoprivano con àiva dla novòina ‘d Natal (acqua della novena di Natale) e si ricopriva l’imboccatura del recipiente con una manciata di paglia; sul vaso si appoggiava poi una pietra in modo da tenere le mele ben sommerse nell’acqua. Dopo un mese la frutta fermentata poteva essere consumata12.

ln alcuni paesi delle Valli di Lanzo il giorno di Natale era deputato per fare il bucato: le lenzuola diventavano più bianche e la tela si rovinava meno con il lavaggio. A Cantoira qualche donna conservava lo lisiass (la saponata del bucato) per darlo da bere alle mucche quando si ammalavano13. Come possiamo notare l’acqua di Natale aveva poteri particolari come nella notte di San Giovanni, poteri magici e curativi che derivavano evidentemente dal momento solstiziale.

Altra pratica propiziatoria era quella in uso la notte dell’ultimo dell’anno: a Lities (Cantoira) ai bambini veniva consegnato un cavagnet (cestino) pieno di trifolin (le patate piccole, che non hanno raggiunto la grandezza sufficiente); essi dovevano sgranarle come un rosario recitando un Pater per ogni giorno dell’anno, impetrando dal cielo abbondanza nel raccolto, salute, prosperità per il bestiame…14.

Arrivava così il Capodanno:
Bondì bon an, domme carcòsa për lo prim di ‘d l’an
Bondì bondì bondì no po’ ‘d strèina à mi15.
Con queste parole i bambini di Chialamberto (Val Grande), radunati in gruppetti, passavano di casa in casa a porgere gli auguri: “o j’ alavo al bondì” (andavano al buongiorno). In compenso il capofamiglia distribuiva loro mele noci, nocciole, castagne ed anche, talvolta, una pagnotta di pane bianco che, a quei tempi era una vera ghiottoneria16. Anche in Val d’Ala al principio dell’anno i fanciulli passavano di casa in casa per raccogliere la strenna: “Bondì, bondì, bondì/ ‘n po’ ‘d strèina a mi!17, recitavano i bambini lungo le vie di Ala di Stura, mentre in Balme il ritornello d’li magnà (bambini) risuonava cosi: “Boun di, boun an, an po da streina per lou prim di dl’an”; in cambio ricevevano castagne, mele e qualche soldino18.

L’uso delle strenne era diffusissimo già nel mondo classico, tanto che Augusto ed i suoi successori, al capodanno, assisi nell’atrio del Palazzo, ricevevano i cittadini che sfilavano loro davanti deponendo una moneta d’argento, ricevendone il contraccambio. Le Strenia e le Calendae facevano parte di una sequenza di feste che nel calendario romano si avvicendavano tra i primi di dicembre ed i primi di gennaio. Tutte erano caratterizzate da canti, strepiti, gozzoviglie, mascherate con pelli di animali contro cui si scagliava la Chiesa. Sant’Ilario tuonava: “Sunt qui Kalendis januarii auguria observant, diabolicas etiam strenas et ab aliis accipiunt et ipsi aliis tradunt”; il canone I del Concilio di Auxerre (anno 758) affermava: “Non licet Kalendis januarii vetulo aut cervolo facere vel streneas diabolicas observare”.

Abundance (Abundantia) – Peter Paul Rubens

Sappiamo che ancora a metà Settecento l’Arcivescovo di Torino, Monsignor Rorengo di Rorà, dovette minacciare di scomunica gli abitanti di Purcilli, ora Villa, frazione di Lemie, poiché il giorno di Capodanno molestavano le sacre funzioni con bastoni, maschere, scherzi di cattivo gusto, inscenando sul piazzale della chiesa una finta cerimonia densa di significati volgari e scurrili19.

Alta Valle di Viù

Il primo gennaio, a Viù, il parroco, dopo la S. Messa, distribuiva una pagnotta di pane in segno di buon anno e di prosperità20.

A Bonzo, in Val Grande, la tradizione voleva che i ragazzini girassero per le case vestiti di abiti sdruciti, con in testa vecchi cappellacci ed il volto reso irriconoscibile dalla fuliggine inscenando lotte furibonde: rappresentavano l’anno nuovo che, forte di nuove speranze, scacciava a suon di botte l’anno vecchio e con esso tutti i dispiaceri e le delusioni. In cambio della rappresentazione augurale ricevevano poveri doni (frutta, dolci…) che rinchiudevano in un sacco di iuta21.

Pare interessante notare come nella maggior parte dei casi fossero i bambini ad essere i protagonisti nella ricorrenza della fine e dell’inizio d’anno: non a caso essi rappresentavano il trionfo della Vita sulla Morte in quelle manifestazioni da cui dipendeva la prosperità dell’intera collettività.

Val Grande di Lanzo con il villaggio di Bonzo in basso a sinistra

Arrivava infine il 6 gennaio. Ancora oggi nelle Valli la notte dell’Epifania è uso porre una scodella colma d’acqua fuori di casa: il mattino successivo si è formato il ghiaccio e dagli arabeschi che compaiono sulla sua superficie si traggono gli auspici per il nuovo anno. La signora Droetto di Mondrone (Val d’Ala) spiega che possono leggersi figure di fiori, di stelle… significazione di una buona annata; racconta che, l’anno in cui morì il suo nonno, sul ghiaccio apparve tristemente la sagoma di una bara. Bertolotti riporta un’usanza simile a Campiglia Soana dove, però, essa è appannaggio delle ragazze da marito le quali “dalla congelazione formatasi cercano di presagire la professione od il mestiere del futuro loro sposo”22.

Strano rito questo dell’acqua che acquista nella notte tra il 5 e il 6 gennaio poteri divinatori, ma non si bollerà la cosa come superstizione priva di fondamento se risaliamo alle origini della festa dell’Epifania. Essa pare abbia avuto origine nel II secolo per celebrare la venuta di Gesù sulla terra. Poiché non si conosceva la data della sua nascita si decise di scegliere quella del suo battesimo nel fiume Giordano come manifestazione al mondo del Figlio di Dio. Essendo sconosciuta però anche quest’ultima, seguendo la consuetudine di cristianizzare le feste pagane, la Chiesa scelse il 6 gennaio, giorno in cui, nelle religioni di Dioniso e di Osiride, si benedicevano le acque dei fiumi e delle sorgenti. In seguito, sempre nella data del 6 gennaio, la Chiesa festeggiò il ricordo del primo miracolo di Gesù, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana, miracolo che consentiva di collegarsi al culto pagano delle acque.

Nozze di Cana – Giotto (crediti: Wikipedia)

Poiché si riteneva che il Cristo fosse stato battezzato in tale data, le acque, in quel giorno, erano santificate e possedevano proprietà meravigliose, cosa che spiega il miracolo della loro conversione in vino a Cana: “più tardi si ebbe la consacrazione liturgica della benedizione delle acque. Quest’usanza… trova riscontro in credenze pagane. Plinio nella sua Historia Naturalis (II, 106 e XXXI, 13) dice che in Ovidio, nel tempo del Padre Libero, alle none di gennaio, l’acqua di una fontana acquistava sapore del vino. Ora Libero era Dioniso, nelle cui feste dei Thya nell’Elide, l’acqua contenuta in vasi posti nel tempio si cambiava in vino. L’uso dell’acqua alla festa dell’Epifania può essere stata una concessione necessaria ai primi cristiani, in fondo rimasti pagani… (La Chiesa) se ne servì per mettere in luce gli effetti meravigliosi dell’acqua battesimale23.

“La festa pagana del 6 gennaio comportava un altro aspetto: vi erano delle tradizioni relative a delle fontane o a dei fiumi e l’usanza di attingervi acqua, che si credeva dotata in quel giorno di proprietà meravigliose. Quest’usanza si continuò nel popolo dopo la sua conversione al Cristianesimo, ma le si diede un’altra interpretazione: gli uni l’attribuivano all’anniversario delle nozze di Cana, altri all’anniversario del Battesimo”24.

Ancora una volta dobbiamo annotare come pratiche, che oggi appaiono di superstizione, siano in realtà reminiscenze di culti religiosi antichissimi i quali, dimenticati ormai nella stragrande maggioranza dei paesi, sopravvivono nelle vallate chiuse tra le montagne, sotto forme affini ai riti originari.

Altra pratica divinatoria legata alla notte dell’Epifania nella zona di Lanzo era quella per cui le ragazze da marito il mattino del 6 gennaio con il piede lanciavano una ciòcola25 fuori dalla porta di casa: se ricadeva con la punta rivolta verso l’esterno, la cosa era foriera di un matrimonio entro l’anno26.

Una tradizione non dimenticata è il consumo della focaccia che nasconde, al suo interno, una fava: chi la trova deve pagare da bere a tutta la compagnia. Questa usanza, comune a molte regioni in tutta l’Europa, pare risalire ai festeggiamenti dei Saturnali romani, di cui l’Epifania è una scheggia cristianizzata, come abbiamo visto in precedenza: “i Romani, imitando i Greci che con fave eleggevano i magistrati, eleggevano con fave il re del festino. Nei primi secoli del Cristianesimo i Canonici eleggevano un Re cui offrivano presenti all’altar maggiore e che, in seguito, presiedeva un banchetto come re della festa. I fedeli nelle loro case fecero altrettanto mediante una fava introdotta in un dolce”27. Un’altra suggestiva ipotesi attribuisce questa consuetudine all’usanza in uso presso molti popoli europei secondo la quale “i convenuti al rito facevano pasti di carattere molto antico, gettando in terra parte delle vivande in segno di libagione e mangiando focacce di carattere consacrato aventi segni nascosti in un punto, che ricordano la fava, e che esponevano colui al quale toccava quel pezzo, ad essere la vittima da sacrificare sul fuoco, sacrifizio poi sostituito da una sberteggiatura”28.

La notte dell’Epifania mostra sicuramente però tutto il suo carattere magico nella presenza della Befana. È questa una figura fantastica che a volte oscilla fra due connotazioni antitetiche e, a volte, le unisce in una sola: vecchia brutta ma buona, che porta doni ai bambini, oppure strega cattiva e orribile a vedersi; in entrambi i casi essa usa il camino come via d’accesso alle case, particolare che l’accomuna sicuramente alle streghe, le quali, così come i demoni ed i revenants non possono servirsi della porta d’ingresso delle dimore umane, credenza derivante molto probabilmente da una nozione relativa al genio tutelare delle soglie”29.

Nelle Valli, un tempo, la notte tra il 5 e il 6 gennaio, si lasciavano sui tetti doni per le masche: era evidentemente una notte ad esse dedicata in cui i montanari cercavano di ammansire la loro crudeltà con offerte propiziatorie. Come non menzionare, in merito a tale usanza, le leggende, presenti nell’arco alpino ed in numerosi paesi nordici, che ricordano la dea Bercht o Percht, la quale ebbe culto esteso nell’antichità e fu ricordata da Tacito; esse, secondo quanto riportato da Maria Savj Lopez “…narrano che, specialmente da Natale all’Epifania, la dea, splendente di viva luce, passa sulle montagne e col suo seguito di fate e di streghe, va raccogliendo le offerte che gli alpigiani depongono sui tetti delle case. Molte di queste fate sono orribili nell’aspetto ed hanno lunghi bastoni e sacchi ove mettono i doni”30. Ancora non molti anni or sono in Baviera e nel Tirolo si offrivano cibi alla Percht.

Maschera di Perchten (crediti: Wikipedia)

ln quasi tutta Europa il periodo tra Natale e l’Epifania è tempo proprio delle streghe ed in molte regioni è diffuso l’uso di produrre fumo acre, atto a scacciare streghe e spiriti maligni, oppure un gran rumore per spaventare tutti gli esseri negativi e indurli alla fuga: ecco quindi in Svizzera il baccano provocato con corni, campanacci e fruste, nella Francia meridionale con campanacci, sonagli ed urla poderose. In altre regioni, alla vigilia di Natale e Capodanno, si sparavano gran colpi con mortaretti o armati di fucile contro le streghe: di qui ci è giunta l’usanza dei botti di mezzanotte che svuotati del loro significato primitivo, persistono tuttavia nella tradizione.

Pare interessante rilevare come l’usanza dello sparo dei mortaretti nelle Valli di Lanzo fosse collegata a tutte le festività, soprattutto alle feste patronali. Tale costume fu spesso condannato dalla Chiesa motivandolo anche con l’eccessivo sperpero di danaro. Nella Relazione Parrocchiale del 1902 il teologo Domenico Brusa, prevosto di Usseglio, scrive: “…che non sparino i mortaretti per il ballo … che non sprechino il denaro in tanta polvere…”31. Don Natalino Drappero cita un elenco-programma per lo sparo dei mortaretti all’epoca di don Brusa: “Al Corpus Domini se ne sparano: 12 alla sera della vigilia, 12 all’Ave Maria, 12 alla Benedizione del Santissimo Sacramento, 18 alla Processione (cioè 6 alla partenza, 6 al Cortevicio, 6 sotto l’Ala). Due poi alla benedizione della Carità all’Assunta. Quattordici durante la Messa: uno in principio, 3 al Sanctus, 6 all’Elevazione, 3 all’Agnus Dei, uno alla Benedizione”. Continua Don Drappero: “ln un resoconto scaricamento del 1781 entro una sola pagina per 4 volte sono segnate spese per ‘polvere dei mortaretti’”. Dal 1773 al 1781 la somma sborsata dal Municipio e dalle Confraternite al riguardo fu di lire 152. Nella stessa pagina sono segnate “lire 12 a parecchi convertiti, lire 182 per granaglie somministrate ai poveri…”. Nel 1805 sono registrate “lire 15 pagate a Perotto Battista Marmotin per lo sparo dei mortaretti in ragione di soldi 30 per ciascuna festa …”32.

Notte di streghe, dunque, quella dell’Epifania: un certo Antonio Galosna, accusato di eresia catara nella zona del Chierese durante la seconda metà del XIV secolo, testimonia sull’operato di una tale Bilia la Castagna di Andezeno la quale durante il sabba aveva il compito di coordinare le streghe; ella “…ai presenti offriva una bevanda” che, a detta del Galosna, risultava preparata “alla vigilia dell’Epifania, alla sera presso il fuoco”, “…in vigilia Epiphania in sera circa ignem33. Date le sue caratteristiche tale bevanda era senza dubbio un filtro magico: questo a maggior riprova di come tale notte fosse un periodo di tempo carico di magia negativa.

La Befana riassume nella sua figura, così affine alle streghe e alle masche, la connotazione di queste figure temibili e paurose, esorcizzata nella trasformazione avvenuta man mano con l’allontanamento nel tempo dal periodo medioevale; essa tuttavia rivela la sua vera origine negli appellativi che si sono conservati a livello dialettale in alcune regioni: essa è la Stria in Veneto, la Strina in Sicilia; l’appellativo maggiormente significativo è senz’altro quello attribuitole in Istria di marantega, contrazione di Mater antiqua, il che la dice lunga sulla derivazione della sua figura dalla divinità primitiva della Grande Madre, evolutasi sotto varie forme e denominazioni presso tutte le religioni, sino ad assumere valenza negativa nei primi secoli del Cristianesimo.

Grande Dea Madre – Collezione Mainetti, New York (crediti: Wikipidia)

Nelle Valli a Monastero di Lanzo, il Carnevale si festeggia il 6 gennaio e vede come maschere tipiche le barbòire34: legate ad una leggenda di masche che danzano sul Colle di Pera Scrita, sono impersonate da uomini travestiti da donna e da donne camuffate in abiti maschili. I costumi quanto mai stravaganti nonché le maschere ed il trucco spaventosi non debbono assolutamente permettere il riconoscimento della persona che li indossa. Le barbòire fanno la loro comparsa il mattino dell’Epifania sul sagrato della chiesa di Chiaves, frazione di Monastero, nel momento in cui i fedeli escono dall’edificio al termine della S. Messa: li accolgono con lazzi, scherzi e coriandoli: un tempo era uso che le barbòire scivolassero o rotolassero lungo la ripida scalinata che adduce alla chiesa, ricoperta di neve e ghiaccio in questo periodo dell’anno35.

“La leggenda vuole che due baldanzosi giovani, avendo sentito i racconti dei loro nonni i quali narravano che in una zona chiamata Pera Scrita esistevano le vere masche – e non trovando modo migliore per stare insieme – si travestirono per rendersi irriconoscibili ed infiltrarsi nel gruppo chiamato barbòire. Cominciarono allora a fare grandi schiamazzi tanto da spaventare l’intero gruppo che si disperse; rimasti così soli sotto la luna poterono coronare il loro sogno d’amore”36.

Barbòire a Chiaves 2008 (Marco Morella)

Ancora una volta rinveniamo la presenza delle masche collegata alla data del 6 gennaio ed alla necessità di produrre schiamazzi per allontanare le presenze indesiderate. Ricordiamo che Pera Scrita è un colle posto a 2155 metri di altezza, collegante la Valle del Tesso con la Valle dell’Orco. Esso trae il nome da un enorme masso su cui ab immemorabili sono incise centinaia di segni, date e nomi. Come sovente accade, i luoghi in cui giacciono pietre incise diventano, nella tradizione, frequentati da esseri negativi.

Tratto dal n. 3 della collana “Quaderni di Archeologia del Piemonte” (Torino, 2019). Cliccare sull’immagine per scaricare il documento completo (pdf 780 KB)

Poiché l’Epifania chiude i 12 giorni sacri dello spazio tra antico e nuovo anno, gli spiriti maligni mettono in atto tutta la loro potenza prima che essa cessi: l’avvenimento è ricordato con intenzioni scaramantiche in tutta la zona alpina. Se a Monastero di Lanzo le barbòire sbeffeggiano e mettono in atto scherzi contro i fedeli, nelle Alpi Bavaresi ed austriache, specialmente nella zona di Salisburgo, i giovani vanno in giro travestiti da Perchten con pelli nere di pecora e maschere di animali: essi sono sempre ben accolti dalla popolazione poiché la loro comparsa scaccia gli spiriti della sterilità e garantisce un buon raccolto. Nella Svizzera si fanno rumorose processioni contro le streghe Strudeli e Stratteli, nocive ai raccolti della frutta e nel Tirolo giovani mascherati vanno di casa in casa cantando, bevendo e bastonando un fantoccio che impersona la causa di ogni male: queste tradizioni lasciano chiaramente trasparire i propositi apotropaici e propiziatori ai fini della fertilità della nuova annata.

Perchten a Bodenmais (Baviera)

Dopo l’Epifania i giorni iniziano lentamente ad allungarsi, L’Epifania ‘n pas ëd na furmìa37 recita un proverbio di Traves: gli animi sono ormai volti all’attesa della nuova stagione e di nuovi raccolti, si è concluso un ciclo e ne inizia uno nuovo, nuovi giorni in cui si ripeteranno in date prestabilite riti antichi, segni di generazioni passate, si racconteranno (ancora per quanto?) storie di un tempo lontano: I avìt an bòt

Ariela Robetto


Ringraziamo di cuore Ariela Robetto e Daniela Piazza Editore per la gentile concessione.

I Camosci bianchi augurano a tutti i lettori un sereno Natale ed un felice Anno Nuovo.


Note (si possono aprire comodamente in un altro file in pdf, cliccando sul numero in apice nel testo):

  1. Informazione orale del sig. Battista Titta Droetto di Mondrone.
  2. Il fulmine.
  3. Santa Barbara e San Simone devono liberarci dal fulmine e dal tuono, dal fuoco e dalla fiamma e dalla morte improvvisa.
  4. ‘L Turnà 1997, p. 127.
  5. Domenica delle palme.
  6. “Tempora, temporali/ se avessi digiunato alla tempora di Natale/ non sarei in queste pene”. Jorio 1999, p. 9.
  7. Bertolotti 1965, p. 149.
  8. Le Calende. Nel calendario romano era chiamato Calende il primo giorno di ogni mese.
  9. Tra Natale e i Re Magi i giorni segnano i mesi.
  10. Le notizie sul culto mitraico sono tratte da Archeo 1997, pp. 86-91.
  11. Cfr. Pola Falletti 1942a, pp. 47, 48.
  12. Majrano, Cane 1985, p. 106.
  13. Informazione orale della sig.ra Maria Perotto di Cantoira.
  14. Informazione orale della sig.ra Lena Perotto di Lities (Cantoira).
  15. Buongiorno, buon anno, datemi qualcosa per il primo giorno dell’anno/ Buon giorno buon giorno, buon giorno, un po’ di strenna a me.
  16. Chialamberto ieri e oggi 1996, p. 25.
  17. Solero 1955, p. 28.
  18. Lou calendari in Barmes News n. 1, dicembre 1993.
  19. Informazione orale di don Caccia, parroco di Lemie.
  20. Armanach 1986.
  21. Capello 1992.
  22. Bertolotti 1965, p. 149.
  23. Pola Falletti 1942a, p. 79.
  24. Ibid., p. 80.
  25. Zoccolo.
  26. Cane, Santacroce 1997, p. 84.
  27. Pola Falletti 1942a, p. 83.
  28. Pola Falletti 1939, p. 291.
  29. Lecouteux 1996, p. 93.
  30. Savj Lopez 1993, p. 17.
  31. Drappero 1968, p. 273.
  32. Ibid., pp. 273-274.
  33. Centini 1995, p. 84.
  34. Nella zona barbòira significa maschera così come a Pugnetto (Mezzenile) vestirsi da barbujri significa andare in maschera; il termine con tale accezione è diffuso anche nelle valli canavesane: a Forno Canavese ambarboiràsi corrisponde a mascherarsi.
  35. Informazione orale del sig. Domenico Cabodi di Monastero.
  36. Comitato Carnevale s.d.
  37. L’Epifania il passo di una formica.

3 pensieri riguardo “Le feste natalizie: presagi e auspici per il futuro

  1. Desidero ringraziare Beppe per aver riportato alla luce un mio scritto pubblicato vent’anni fa, frutto di lunghe ricerche, studi, testimonianze di genti che ormai da anni guardano il nostro mondo dalla parte delle radici. Molto belle e scelte con intelligenza le immagini, interessantissimo il video finale che ai vecchi montanari ricorderà i carnevali pervasi dal chiasso infernale dei “rudun” oppure, a Balme, il suono delle conchiglie dei Giudei il Giovedì Santo.
    Chi avrà la pazienza di leggere, potrà scoprire come, nel corso della storia, tutto si leghi e quanto sia importante conoscere il passato e le tradizioni per poter immaginare un futuro, sì tecnologico (e come sarebbe possibile altrimenti?), ma non disgiunto da umanità, dal nostro essere, comunque, inseriti profondamente nel mondo della Natura da cui, volenti o nolenti, ancor sempre derivano le nostre ansie, paure, speranze e, perché no, anche illusioni che aiutano talvolta a vivere.
    Ariela Robetto

    Piace a 1 persona

  2. Ho letto con molto interesse l’articolo e, nata ai piedi delle Alpi marittime, mi sono tornati alla mente i racconti di mio padre (classe 1891) dove le ‘masche’ avevano un ruolo rilevante. Grazie

    Piace a 1 persona

Commenta

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.