Nel Vallone del Rio Saulera

Ad inizio novembre, alla fine di una interminabile e rovente estate, sono in bilico su di un’esilissima linea rossa, risucchiato in un profondo ed oscuro vallone, da forze che non controllo.
Nel selvaggio West delle Alpi c’è puzza di bruciato. A novembre. Proprio quando un tempo l’acqua, dopo le consuete piogge ottobrine, si cristallizzava in attesa del disgelo primaverile.
Da pochi passi ho lasciato alle spalle due minuscoli ma incantevoli laghetti. Così giacevano nella mia memoria. Ora sono completamente in secca e spettrali come due orbite a cui hanno cavato gli occhi. Occhi esausti di guardare verso il cielo in attesa della pioggia.
A poche decine di chilometri in linea d’aria dal Vallone del Rio Saulera il fuoco infuria sulle montagne della Val Susa, alle pendici del Rocciamelone. E l’angoscia avanza imperterrita come la prepotente siccità che dura da mesi.
Attratto, da sempre, da ciò che nella vita barcolla ma resiste, da ciò che i distratti esseri umani consegnano all’oblio, mi faccio sedurre dal misterioso e discosto Vallone del Rio Saulera. Il suggerimento è una misera traccia sulla carta, in parte tratteggiata. In parte spezzata. Quindi un cammino incerto, senza riferimenti, senza segnaletica. Un viaggio nell’ignoto.
Dal profondo solco del Rio Saulera, che si spalanca a miei occhi dopo un pilone votivo, ultima flebile presenza umana, si ode il rumoreggiare delle acque che arriva dagli abissi. Da qui lo sguardo si perde nei fitti boschi che fingono l’autunno disseminati sulla terra arsa e secca. Tappeti infiniti di foglie ingiallite e scrocchianti sotto il peso dei passi.
Ho la tecnologia con me che tenta di rassicurarmi di fronte alle incognite. Quel tratteggio rosso mi martella la mente. Posso immaginare cosa mi attende: zero tracce di sentiero. Zero segnaletica. Rinselvatichimento, abbandono, rii assetati da guadare, alberi che sbarrano la via. Quale via? Devo chiudere questo anello per ritornare alla partenza, passando da Bogliano. Lì umani. Lì asfalto, case, campanili, auto… Tutto stretto nel silenzio e nel grigio del “maltempo” che finalmente è previsto in arrivo. Ho solo voglia di proseguire lasciandomi alle spalle il percorso dell’andata che non voglio ripercorrere. Se succederà, qualcosa sarà andato storto. Avrò sbagliato. Ma questa è la mia libertà.

Dal pilone il tuffo verso il Rio Saluera è entusiasmante. Qui non ho sbagliato ad osare. Vado veloce in discesa, con la forza sconosciuta che mi attrae e il filo di Arianna del gps. Da qui in poi è l’ignoto. Non so nulla di quanto mi sta aspettando. Anche questa è la mia libertà. Ho deciso sul campo di tentare questo giro, senza programmare alcunché, senza acquisire tutte le informazioni disponibili per ridurre il più possibile i rischi oggettivi. Senza studiare il percorso a tavolino. Sapendo che è in arrivo la pioggia che potrebbe complicare il tutto se qualcosa non va per il verso giusto. Sono consapevole che sto rischiando. Potrei attardarmi e farmi sorprendere dall’oscurità, le batterie dei gps potrebbero esaurirsi prima dell’arrivo a Bogliano dove mi aspettano i rilassanti segnavia bianco rossi del Cai. Potrei aver bisogno di soccorso. Un lampo nella mia mente, come un fantasma. Titolato Cai, abilitato ad accompagnare in montagna, anni di militanza con centinaia di uscite si perde nei boschi delle Valli di Lanzo durante l’arrivo della prima perturbazione autunnale. No, oggi me ne infischio altamente di tutti quelli che ti dicono come devi vivere la montagna. Di tutti quelli che la pensano e basta. Con grande sforzo mentale caccio via questi demoni e mi aggrappo alla linea rossa come ad un precario mancorrente proseguendo nella foresta fino a quando si tratta di guadare, lungo un buon sentiero. C’è l’acqua miracolosa del Rio Saulera che scorre sotto una rustica passerella in legno molto malconcia e cosparsa di muschio e foglie, per nulla tranquillizzante. Qui bisogna solo fidarsi, sperando che le assi non siano troppo marce. Dall’altra parte mi attende una baita in pietra sfinita. Senza tetto, e con il colmo sprofondato in un cumulo di foglie secche, sembra volermi chiedere il pedaggio per l’imminente viaggio nell’oblio. Una tacca arancione mi infonde speranza. Ne troverò altre? Dove portano?


Ad ogni passo i miei scarponi spariscono sotto un infinito tappeto di foglie senza sapere cosa calpesteranno, se inciamperanno o scivoleranno. Non c’è più sentiero, né un’esile traccia che sappia indicarmi la direzione e ben presto le tacche spariscono. Ora tocca alla tecnologia, quella buona, che oggi dovrà erigersi a mezzo per aiutarmi a navigare tra i fantasmi del selvaggio West delle Alpi. Attivo il gps dello smartphone e carico la carta della Fraternali con la sua traccia che mi ha stregato, mentre quello nello zaino tesse il filo per un eventuale dietrofront, con la pioggia, con il buio, con la fame e la sete… Pronto a tutto per tentare di proseguire. Con la mano sinistra tengo i bastoncini da trekking, mentre la destra la uso alternandola incessantemente con fotocamera e gps. E forse qui comprendo che la mia è solo una lotta estenuante e titanica contro l’oblio. Mi fermo un attimo a pensare a come sono ridotto, qui in mezzo alle dimore del Selvatico, dopo ore di cammino, preoccupato di trovare la giusta via con la stanchezza che avanza ad ogni passo. Sovente mi ritrovo stretto da alberi, grandi e piccoli, che mi disorientano. Alcuni, enormi, sono distesi, crollati per vecchiaia o sfiancati dagli eventi meteorologici. In questo caos devo camminare facendo combaciare il più possibile la freccia del gps con la sottile linea rossa che non so nemmeno se sia affidabile. Vedo avvicinarsi sempre di più il tratto spezzettato della traccia e monta la mia preoccupazione. Ma quale forza mi ha spinto, proprio oggi, che mi sono tirato giù dal letto con strisciante fatica, a ficcarmi in questa selva, così distante dagli uomini? Così vicino al maltempo? Non è sempre facile continuare a credere in se stessi. Escursionismo non significa seguire percorsi perfetti, sicuri e segnalati a prova di scemo. Mi chiedo però se avrei trovato il coraggio di sprofondare nell’oblio delle Alpi piemontesi senza la tecnologia. Non credo, perché trovare la via sarebbe stato assurdo, impossibile. Pericoloso. Soprattutto quando è tardi e il cielo è sempre più grigio ed umido. Ha voglia di piovere finalmente.


La freccia del gps mi dice che sono a monte della probabile traccia di circa cinquanta metri. Sto sbagliando. Il terreno è ripido e non so cosa pestano i miei piedi. Devo fare il massimo dell’attenzione a non finire in qualche buco nascosto dalle foglie o a scivolare. Non posso aiutarmi con i bastoncini perché le mani servono per controllare il gps che funziona solo se mi muovo. Il gps non serve a nulla se stai fermo. E’ un oggetto inutile con quella freccia ballerina che ti confonde le idee. Le macchioline marroni, che sulla carta rappresentano delle baite, sono punti fondamentali per l’orientamento. Devo incontrarle e lasciarmele alla mia sinistra. Si chiamano Giacù e le ritroverò nella loro maestosità decadente che ti fanno sorgere mille interrogativi… Ma chi viveva qui? E fino a quando? Per quanto tempo all’anno? Che lavoro facevano in questo Vallone? Ma sicuramente allora non c’era nemmeno un albero… sicuramente era tutto coltivato, pulito. Addomesticato. Il Selvatico lontano dagli uomini, nascosto chissà dove. Ora è tornato, da decenni, per riabitare queste montagne. E ora cammina al mio fianco. Pretende ascolto, devo parlargli se voglio concludere questa escursione evitando errori che complicherebbero una situazione già ampiamente al limite di un escursionismo possibile. Il mio compagno selvatico mi suggerisce che sto vivendo un’esperienza estrema. Chissà perché ho difficoltà ad accettarlo, poco incline io ad etichettare le mie esperienze sulle Alpi. Lo sento strusciarsi sui miei indumenti tecnologici, mi afferra le braccia, mi punge le mani, mi insozza i pantaloni in tessuto antipioggia e antivento. Cosparge di elementi organici gli scarponi in Gore-Tex. L’inquietante sottile linea rossa tratteggiata è la dimora dell’uomo selvatico. Che puzza. Di secco. Di arsura. Di terra e piante assetate. Quando invece il suo odore dovrebbe essere, almeno qui, almeno lungo il Rio Saulera, di fresco, di umido. Di ghiaccio, a novembre.

Sulle pietre di un muro a secco di una baita leggo in rosso “1000 m – Boison”.  Qui il selvatico e il domestico si avvinghiano in un amplesso. I tetti in losa di numerose baite, alcune di notevoli dimensioni, sono cosparsi di foglie e muschio, le porte di legno, aperte, annunciano l’abbandono delle dimore, piante di ogni tipo e dimensione contornano le mura delle case. I passi sono incerti. Lo stupore misto ad angoscia è ingovernabile. Non posso soffermarmi a curiosare e ad immaginare. Due impulsi contrapposti mi pervadono. Una tensione verso il ritorno, il prima possibile al domestico con l’auto parcheggiata a Monti, e la tensione a fermarmi. Non è semplice fare i conti con queste sensazioni in luoghi ove serpeggiano fantasmi, dove inaspettatamente un linea rossa mi ha condotto negli abissi dell’oblio.
Il tempo sfugge ed io voglio salutare al più presto il Selvatico che mi attende al guado. Forse l’ultimo passaggio obbligato carico di incognite perché qui c’è acqua che scorre, al di là di tutto.
Il Rio Saulera fluisce dove sud e nord si baciano. Mi avvicino cautamente con il gps che mi fa seguire un percorso umano, ora immerso in un intrico di rami contorti, alberi e felci. Al mio fianco un muretto a secco emerge dal nulla e mi accompagna fino alla vista delle pozze d’acqua. E’ come una picchiata; devo mettere il gps in tasca, afferrare con decisione i bastoncini e compiere gli ultimi delicati e ripidi passi prima di attraversare il torrente. Il Servadjiou mi attende sulla riva opposta sussurrandomi, mentre compie i suoi giochi tra i massi del Rio, che mi accompagnerà fino a quando non lo lascerò definitivamente al suo destino, verso il suo percorso nel mondo addomesticato, che so non raggiungerà mai, tenendosi ben a distanza. Lontano dalle turbine che trasformano il selvatico senz’anima in energia per alimentare mondi apocalittici.


La vista improvvisa di un ometto mi scioglie la tensione. Il sentiero è quello giusto, e quel monticello di pietre ne è un indizio. Alla mia destra il Rio Saulera scenderà verso valle con me. Sono sorpreso di trovarlo in buona salute, con abbondante acqua nonostante la siccità prolungata. Mi sto abituando a chiacchierare con questo mondo selvatico che continua ad stupirmi. Sebbene ci siano pesantissime compromissioni degli ambienti naturali, a causa delle attività umane, qui la natura sa ancora essere prodiga. E’ un mistero quest’acqua che sgorga dalla pancia di Rocca Moross mentre gli incendi spadroneggiano sulle Alpi. Acqua stipata in montagne che superano a mala pena i duemila metri. Forse anche per questo il Vallone è stato densamente abitato. L’acqua non mancava mai qui, anche dopo mesi senza piogge.
Dopo il guado e un paio di ometti, la traccia diventa intuibile, serpeggiante sotto il mare di foglie secche. Non me ne ricordavo così tante in autunno. L’assenza di eventi meteo importanti, come pioggia e vento, devono favorirne la persistenza. Ma poi, non sarebbe già ora di neve?
Duecentocinquanta metri sopra di me giace la Cappella del Giardino. Ora il cammino è stretto tra il ripido versante valanghivo e il Rio Saulera. La marcia è in bilico tra passaggi arditi e alberi da scavalcare, senza alcuna segnalazione, a parte qualche sparuto ometto. La linea rossa da qui in avanti non è più tratteggiata. Il cammino migliora ma le incognite persistono. Sono un po’ più rilassato ma sento aumentare la stanchezza e la fame. Sono già le due ma ho stabilito che mangerò solo quando arriverò a Bogliano. La priorità ora è uscire da qui. Avanzando.

Il prossimo riferimento sulla carta è lou Roc, un gruppo di baite sul versante sud, poco a monte del il Rio mentre le riflessioni costanti che mi suggerisce il Selvatico è sull’abitare, verbo sconfinato ed urgente. Una parola bellissima, ricca di relazioni con il pianeta. I vecchi montanari abitavano qui, da dove io voglio scappare. Nel corso dei secoli hanno punteggiato questo Vallone con toponimi alieni: la Piènchi, Pra Neu, la Fuzina di Arvoout, li Guiai, il Foun ‘d la Purua, il Jacou, li Bouizoun, lou Pas Brut… Ogni angolo del territorio alpino era codificato, costituendo una formidabile mappa dell’abitare. Questa straordinaria e ricca alfabetizzazione ambientale e culturale mi lascia sgomento di fronte alla povertà linguistica del mio abitare metropolitano. E totalmente disarmato nei confronti degli sconvolgimenti ambientali di cui l’umanità deve occuparsi urgentemente. Ma con quale linguaggio? Con quale semantica?
Il linguaggio tecnologico mi sta avvisando che tra pochi passi devo attraversare il Rio Saulera e portarmi sul versante destro, prima di raggiungere il Roc. Una passerella in legno in più punti rabberciata alimenta il senso di abbandono del Vallone. Mi tocca nuovamente riporre fiducia. E se cedesse sotto il mio peso? Mi sentivo quasi al sicuro, liberato dalla presenza del Selvaggio, mentre mi trovo di nuovo ad assaporare un lieve senso di panico. Che faccio, torno indietro? Ripercorrendo tutto il percorso dell’andata, con il buio e sotto la pioggia che sento arrivare? Passo lento e determinato. Si va avanti. Anche questa densa sensazione di aver sbagliato qualcosa se ne va con il Selvatico. Mi viene incontro un ometto mummificato di muschio e poco dopo scorgo, sul versante opposto, tra la folta vegetazione le case de lou Roc. Una di queste ha ben quattro piani! E’ tutto assurdo qui. Poso il mio sguardo cittadino su questi ambienti che non sono come li hanno lasciati i montanari. Qui tutto doveva essere diverso da come lo trovo io adesso. Ma perché consegnare tutto all’oblio? Quando nella nostra drammatica epoca abbiamo urgenza di rialfabetizzarci per immaginare come venivano intessute le relazioni culturali delle genti alpine con l’ambiente? Che non ci hanno lasciato in eredità l’apocalisse. Solo questo conta. Non hanno spezzato gli orizzonti dell’avvenire, nel loro duro ed estremo abitare le Alpi. Sentieri e saperi.


Consulto la carta. Bogliano è vicino, giusto un bivio a cui fare attenzione. Mi sento rinfrancato. Manca poco alla sosta, al panino e al piccolo riposo prima di abbandonarmi ai segni bianco rossi del sentiero 204C. Che so esistere per riportarmi a casa. All’incrocio, subito dopo l’ennesimo guado, devo prendere a destra. Un’altra passerella, dall’aspetto più solido ma anche più essenziale, mi fa attraversare il Rio Begone che scorre parallelo al Rio Saulera. Il Selvatico si dilegua nelle foreste mentre mi accorgo, verificando il gps, che non sono sul sentiero di destra. La voglia di domestico mi fa errare. Me ne accorgo subito, torno indietro e intravedo una traccia di foglie tra gli alberi. E poi un bollo, inglobato nel muschio verdissimo, attanagliato su di un masso. Poco più avanti, su di una corteccia, ecco finalmente un bollo bianco rosso! Non mi sembra vero. Sto rientrando e forse non mi toccherà fare i conti con i miei sbagli e con coloro che pensano la montagna.
No, oggi è solo fortuna. O forse solo coraggio di aver trovato la forza per dialogare col Selvatico guardandolo diritto negli occhi.
La carta mi segnala anche un pilone votivo, su questo sentiero. Lo dovrei incontrare sulla mia destra. Cosa che avviene dopo aver risalito una maestosa scalinata in pietra ricoperta di muschi e foglie secche. Eccolo il pilone. Ed è proprio qui che il Selvatico mi lascia al mio destino metropolitano. La sua presenza, senza accorgermi, è comparsa sul pilone di migliaia di passi fa, prima di abissarmi nel Vallone.
E’ ora di porre attenzione al secondo cervello per prospettargli qualche pezzo di pane con del prosciutto. Chissà da quale paesaggio arriva questo cibo che mi attende nel mio zaino. E la barretta di cioccolato?

Dopo il pilone votivo compare all’orizzonte un campanile. E’ sempre così quando si entra in un villaggio alpino delle Valli di Lanzo, arrivando dalle dimore del Selvatico. Due potenti ma discreti simboli della sacralizzazione del territorio. Due simboli che mi fanno ripiombare nel mondo degli uomini. Addomesticati.
L’auto mi attende al parcheggio di Monti dopo aver ricevuto un bellissimo regalo sulla mulattiera che arriva da Bogliano: un giovane montanaro si appresta a caricarsi sulla testa il garbin che straripa di foglie secche, tutte in attesa sulla mulattiera. Nelle mie innumerevoli escursioni nelle Valli di Lanzo, questo attrezzo l’ho solo visto e fotografato inerme ed in agonia negli angoli oscuri delle baite diroccate. Ora è una sorpresa immensa trovarlo in vita, pronto a servire i bisogni dell’allevatore. E ad aiutare la mia mente a visualizzare come sono state costruite le Alpi.
Non se ne trovano più, purtroppo!“, mi dice. Lo guardo e mi chiedo se in verità non sia il Selvatico, lo stesso che ha chiacchierato con me durante l’immersione nell’oblio. In fin dei conti, penso, le infinite distese di foglie secche, che hanno reso problematico ed insidioso il mio cammino, non dovrebbero esistere in un ambiente alpino abitato. Il selvatico, fuori e dentro di noi
A Monti, salito in auto, sento una gioia profonda, densa. Totale e incontenibile. Ho camminato attraverso l’ignoto accompagnato dal Selvatico. Ce l’ho fatta. Tante cose potevano andare storte. Ma ora sono qui a felicitarmi di aver trovato il coraggio di seguire quella traccia evanescente.
Dopo aver percorso poche centinaia di metri sull’asfalto vedo le prime gocce di pioggia sul parabrezza, dopo lunghissimi mesi di siccità. Penso alla Val di Susa, e a tutte le altre vallate piemontesi incendiate e bisognose di tanta acqua. La gioia si moltiplica.

Chissà se i laghi di Sumiana torneranno in vita in breve tempo… Anche loro ecosistemi, nel loro piccolo, esteticamente irresistibili. Sapevo che ogni tanto sparivano, ma mai mi sarei aspettato di vederli completamente asciutti in tardo autunno anche perché li ho sempre trovati in ottime condizioni, addirittura in agosto!
A casa contatto Ezio Sesia, grande appassionato di cultura alpina e Presidente della Società Storica delle Valli di Lanzo. Vengo a sapere che i piccoli insediamenti del Vallone erano abitati tutto l’anno, fino agli anni Sessanta, ed erano presenti anche delle fucine. I bambini, per andare a scuola, facevano due ora di marcia sul lungo per raggiungerla a Mezzenile, percorrendo mulattiere arditamente intagliate nella roccia e a rischio valanghe. Numerose le vittime. E poi due ore per ritornare a casa con quasi cinquecento metri di dislivello in salita, mentre a Sumiana si insegnava la musica. Era una conquista la scuola, per quei giovani montanari. Se oggi dovessimo fare due ore di cammino per scolarizzarci – su sentieri dove si moriva senza Artva ed elisoccorso -, saremmo tutti quanti pesantemente analfabeti. E l’obesità infantile della nostra epoca? Poi ti chiedi come hanno fatto ad edificare le montagne…

Camminavano.

Sembra una banalità ma invece è una grande verità.

9 pensieri riguardo “Nel Vallone del Rio Saulera

  1. …che emozione qs viaggio…direi nel passato..dove sei passato con il ‘filo rosso che ti legava alla tua libertà.. al coraggio di andare avanti..e scoprire cosi chi prima di te ha vissuto con amore la montagna… Grazie Beppe….

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    1. Grazie.
      I sentieri sono un prodotto culturale e fare il possibile affinché non muoiano è un mio compito.
      Spero che la Ragione Piemonte, con le sue squadre forestali, oppure il Cai, possa presto intervenire affinché questo itinerario, dalle grandi valenze ambientali-culturali, sia reso accessibile agli escursionisti.

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  2. Ezio Sesia scrive:

    I metri di dislivello per e dalla scuola, per quelli che abitavano più lontano, al Ciampas (1324 m.), erano quasi 700 fino a Mezzenile (654 m.): solo che allora mulattiere e sentieri erano quasi autostrade, non esili, evanescenti tracce come adesso. Si capisce comunque che la vita era davvero dura: come rimproverare chi, appena ha potuto, è andato in cerca di condizioni migliori? Però, come mi racconta mia madrina (101 anni al prossimo febbraio), riuscivano a vivere su di lì famiglie numerose: nella seconda metà dell’800 suo nonno, residente al Taluc (900 m., di fronte a Rambochiardo), aveva la sua casa, con intorno alberi da frutta, castagni, l’orto, qualche campicello, una o due mucche, qualche capra, andava a caccia e pescava, e poi aveva la fucina che faceva la differenza. Così, poveramente ma non miseramente, riusciva a mantenere la sua famiglia senza la necessità di emigrare, e come lui molti nel vallone del rio Saulera e generalmente intorno a Mezzenile. Quasi come oggi, con i giovani che spesso rischiano di essere precari a vita e non riescono a mettere su famiglia e a fare figli per paura di non vedersi rinnovare i contratti a termine…
    A volte mi chiedo se, incredibilmente, non stessero meglio allora: certo che non morivano a 90 anni, ma si consumavano quasi nelle fatiche, e a 40 erano già bell’e che frusti. E’ sbagliato anche essere troppo nostalgici: però riflettere un po’ a volte fa bene.

    Ezio Sesia

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  3. Che bello scritto! Bravo Beppe: hai veramente saputo rendere l’atmosfera di quei luoghi abbandonati che pure ancora sanno comunicare tante emozioni!
    Mi hai fatto tornare alla mente una camminata effettuata, anni or sono, in un giorno di cielo plumbeo da cui poi iniziò a scendere una pioggerella sottile. Dalla Cappella del Giardino scendemmo lungo la Purua sino ai Giacù (e la passerella sul rio già allora era instabile e terribilmente scivolosa), visitammo i resti della fucina, poi salimmo a Boison, a Sumiana e ai laghi. Io ero influenzata da un racconto riportato da Ezio Sesia in cui si narrava che, spesso, chi percorreva la Purua incontrava un’ombra che seguiva il viandante e scompariva poi presso il rio Saulera.
    Purtroppo non avemmo la fortuna di incontrarla. Pensai, tra me e me, che queste cose succedevano solamente in tempi lontani e che lo scetticismo dei giorni presenti ci aveva privati della possibilità di scoprire un mondo di mezzo, tra realtà ed immaginazione. Al ritorno, mentre risalivo lungo la Purua, mi venne scattata una foto. Quale non fu la mia sorpresa quando, scaricate le immagini sul computer, vidi alle mie spalle una sagoma di nebbia chiara che nessuno dei miei compagni di cammino aveva notato.
    Sicuramente fu un effetto della luce, un evento comunque razionalmente spiegabile.
    Ma a me, ancora oggi, piace pensare di avere avuto la ventura di essere seguita dall’ombra della Purua. Solamente in questi luoghi si possono pensare storie evanescenti, ambigue e terribilmente affascinanti, di cui la tecnologia ci rende orfani, senza fantasia e senza il sapore dell’immaginario.
    Ariela

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    1. Grazie Ariela, mi fa molto piacere sapere che hai apprezzato il mio post.
      Credo che ci sarebbero ancora mille cose da scrivere su quest’escursione ma è difficile. La montagna così risulta sempre, non solo quando è alta e impervia, ma anche quando richiede profondità. Per comprendere. Ad esempio sull’importanza dell’immaginario per le popolazioni alpine di un un tempo. E per i cittadini di oggi?
      Oppure mi piacerebbe approfondire il concetto di povertà in relazione alla nostra epoca. Cosa abbiamo di tanto e cosa di poco rispetto ai vecchi montanari? La speranza, ad esempio? Un orizzonte? Un avvenire? Il senso dell’eterno?
      Noto con simpatia che non sono stato l’unico ad aver avuto la sensazione di essere seguito. Tu avevi paura di un’ombra, io del Selvatico… Forse erano la stessa cosa?
      Comunque spero che presto tutto l’itinerario del Vallone del Rio Saulera venga ripristinato. Che siano gli operari forestali della Regione Piemonte, il Cai, o i volontari migranti (http://www.lastampa.it/2017/11/19/cronaca/contro-gli-incendi-puliamo-i-sentieri-migranti-al-lavoro-nei-boschi-del-canavese-fntDFp16lYNOotGvEnahSP/pagina.html) – che aspettiamo? – ritengo che non si debba perdere un sentiero di grande valenza culturale-ambientale. Sarebbe davvero imperdonabile ed una tremenda sconfitta per la nostra epoca tecnocratica (non può essere questo l’unico linguaggio che ci condurrà nel domani).
      Grazie ancora per i tuoi commenti su questo blog: sono sempre graditissimi!

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  4. Rispetto ai vecchi montanari a noi manca sicuramente la stessa loro solida sicurezza. Erano persone aduse a cavarsela sempre e in ogni caso da sole, senza ricorrere all’aiuto di alcuno. Vivevano in un ambiente difficile, talora addirittura ostile, in cui occorreva essere autonomi, aperti ad ogni soluzione, pronti ad affrontare qualsiasi situazione con determinatezza, coraggio, grande senso della realtà, insomma con i piedi ben piantati per terra.
    Erano, inoltre, completamente autosufficienti nei confronti della sopravvivenza, tutte cose che a noi mancano del tutto.
    Spiegavano le difficoltà del vivere mediante l’influsso di esseri “altri”, masche, fantasmi, selvatici e, in tal modo, esorcizzavano sensi di colpa, tristezze generate nel profondo, depressioni che assillano e, a volte, annegano la nostra esistenza.
    Portavano la medaglietta sacra, appuntata con la spilla da balia, alla maglia intima di ruvida lana di pecora, magari lo scapolare con la reliquia del santo e con queste benedizioni affrontavano la vita aspra, ma colma solamente di certezze.
    Noi siamo ricchi di materialismo, abbondiamo dell’inutile, ma navighiamo nel buio del tempo alla disperata ricerca del senso dell’esistere.
    Hai ragione: a noi manca un orizzonte, difetta la speranza (quanto è dilagante il senso della morte e della distruzione tra i giovani!) e abbiamo perso la concezione dell’eterno.
    Le mie non sono constatazioni allegre, me ne rendo conto. Forse è il pessimismo (realismo?) di chi ormai ha raggiunto una certa età.
    Una lama di luce nell’ombra: resta la consolazione della Natura, una medicina atta a lenire qualunque pena, a colmare il vuoto che tormenta i nostri giorni.
    Ciao Beppe, Ariela

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