
Domenica 24 luglio siamo a Plan Borgno (2700 m circa), durante una memorabile escursione organizzata dal Cai di Lanzo per festeggiare i 100 anni di vita del Parco Nazionale del Gran Paradiso. Alle spalle di Mara, intenta a farsi un selfie da fine del mondo, i ghiacciai del Massiccio del Gran Paradiso. Oggi lo zero termico è sui 4600-4800 metri mentre la vetta dell’unico 4000 interamente in territorio italiano non supera i 4061 metri di altitudine. Sapessero scalare, questi ghiacciai si innalzerebbero di altri 2000 metri per poter sfuggire alla fine inesorabile inflitta dall’uomo. E per poter ancora donare, alle prossime generazioni, un selfie da fine del mondo.
Questo scatto (spontaneo) mi coinvolge empaticamente trasmettendomi felicità. Mara si immortala dentro un paesaggio emozionante che fa stare bene e rassicura perché quelle lingue scintillanti, ancora maestose, sanno di eterno, di tempi incalcolabili. Sanno di futuro, di vita e di prosperità. Immaginare il Gran Paradiso senza ghiaccio è come immaginare la Gioconda senza occhi: un’opera preziosa sfregiata.
Il mio dolore per quanto stanno subendo i nostri ghiacciai (espressione di potenza ed eternità della natura, elementi che appartengono intrinsecamente all’umanità, da tempo immemore) è compensato dal sorriso di Mara, dai sogni del Club alpino italiano (siamo qui perché i padri fondatori, oltre 150 anni fa, ci hanno immaginato così, felici tra le montagne) e dal Parco che ci ha fatto conoscere una gemma naturalistica, proprio di fronte ai sogni degli alpinisti.
Chissà però se Mara è consapevole che quel fotogramma appartiene ad un’epoca mitologica?

Gli scienziati hanno messo in rilievo che il sistema Terra, il fondamento stesso di ogni forma di vita, è prossimo al collasso. Le principali ideologie del XX secolo erano basate sul presupposto che la natura fosse un giacimento inesauribile di materie prime a basso costo. Ci siamo comportati come se l’atmosfera potesse assorbire all’infinito le nostre emissioni, come se il mare potesse inghiottire tutti i nostri rifiuti, come se il suolo potesse produrre sempre di più grazie a dosi crescenti di fertilizzante, come se le specie animali potessero spostarsi un po’ più in là ogni volta che gli esseri umani occupavano nuovi spazi.

Se le previsioni degli scienziati sul futuro del mare, dell’atmosfera, del clima, dei ghiacciai e degli ecosistemi costieri di tutto il mondo si rileveranno esatte, mi chiedo con quali parole potremo descrivere una questione di tale portata. Quale ideologia potrebbe abbracciare eventi come questi? Che cosa dovrò leggere? Milton Friedman, Confucio, Karl Marx, l’Apocalisse, il Corano, i Veda? Come potremo dominare i nostri desideri e ridurre il nostro consumismo, che secondo ogni previsione sembrano destinati a mettere in crisi il sistema Terra?
Questo libro è sul «tempo e l’acqua» perché nei prossimi cent’anni si verificheranno dei cambiamenti fondamentali nelle caratteristiche dell’acqua del nostro pianeta. Molti ghiacciai al di fuori delle calotte polari si scioglieranno vistosamente, il livello degli oceani si innalzerà, la temperatura della Terra salirà causando periodi di siccità e inondazioni, e il grado di acidità dei mari cambierà più di quanto sia avvenuto negli ultimi cinquanta milioni di anni. E tutto succederà nell’arco della vita di un bambino che nasca oggi e arrivi ai novantacinque anni, l’età che ha adesso mia nonna.

Gli elementi fondamentali della Terra non seguono più i tempi geologici, ma si stanno modificando al ritmo dell’uomo: ormai si verificano in un secolo evoluzioni che prima avvenivano in centinaia di migliaia di anni. E’ una velocità che ha la forza del mito: non solo coinvolge ogni forma di vita sulla Terra, ma è il fondamento stesso di ciò che pensiamo, scegliamo, produciamo e crediamo. Riguarda tutte le persone che conosciamo e amiamo. I cambiamenti che abbiamo davanti sono molto più grandi di quelli cui la nostra mente è abituata, più impegnativi di qualsiasi nostra esperienza precedente, più complessi del nostro linguaggio e delle metafore che utilizziamo per orientarci nella realtà.

Succede qualcosa di simile quando proviamo a registrare i suoni prodotti da un’eruzione vulcanica. Oltre un certo livello, quasi tutte le apparecchiature non distinguono più i singoli suoni e non registrano altro che un ronzio. Ecco, per molti di noi l’espressione «cambiamenti climatici» è come quel ronzio, rumore bianco. E’ più facile farsi un’opinione su questioni di minore portata, per esempio quando si rompe qualcosa che vale milioni, quando qualcuno spara a un animale o quando un’iniziativa si rileva troppo costosa. Ma quando si tratta di qualcosa di infinitamente grande, di sacro e che oltretutto è il fondamento della nostra esistenza, non abbiamo una reazione proporzionata. E’ come se il cervello non riuscisse a comprenderne le dimensioni.
E’ il ronzio che ci inganna. Sui giornali leggiamo espressioni come «scioglimento dei ghiacciai», «temperature record», «acidificazione degli oceani», «aumento delle emissioni» e crediamo di capirle. Ma se gli scienziati hanno ragione, queste parole dicono qualcosa di più grave di tutto quello che è accaduto fino a oggi nella storia dell’uomo. Se le capissimo fino in fondo, dovrebbero avere un impatto immediato sul nostro comportamento e sulle nostre decisioni. E’ probabile invece che il 99 per cento del loro significato si perda in un ronzio.

Forse però la metafora del ronzio non è quella giusta: il fenomeno assomiglia di più a un buco nero. I buchi neri possono avere una massa grande mille volte quella del nostro sole e inghiottire ogni luce. Nessuno ne ha mai «visto» uno. Per rilevare un buco nero si può solo guardarci intorno, osservare le nebulose e le stelle circostanti. Allo stesso modo, quando parliamo di tutta l’acqua, tutta la superficie e tutta l’atmosfera del nostro pianeta, la portata del discorso è tanto grande da risucchiare ogni significato. Per parlare o scrivere di simili argomenti posso solo girarci intorno, dietro, di fianco, di sotto, spostarmi avanti e indietro nel tempo, andare sul personale e insieme essere scientifico, e usare la lingua del mito. Devo scrivere di queste cose senza scriverne, devo retrocedere senza avanzare.

Viviamo in un tempo in cui il pensiero e la lingua si liberano dalle catene dei concetti. Viviamo nel tempo di una maledizione: «Che tu possa vivere tempi interessanti» potrà anche essere un detto erroneamente attribuito ai cinesi, ma di sicuro ci calza a meraviglia.
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Da un ghiacciaio in recessione emergono ghiaccio, ghiaia e sabbia, una terra nuova, rimasta congelata sotto una grande mole per centinaia di anni, e sull’orlo del ghiacciaio bisogna stare bene attenti a dove si mettono i piedi, perché è come se il suolo non fosse né ghiaccio né acqua né sabbia, ma tutt’e tre le cose insieme. La trasformazione comporta uno stadio intermedio di caos, come narra la Völuspá descrivendo l’inizio della creazione: «il sole non sapeva dov’era la sua corte, le stelle non sapevano dov’era la loro dimora, la luna non sapeva qual era il suo potere.»

Il caos non è confinato al bordo di un ghiacciaio. Nessuno saprà come ripristinare un equilibrio dopo che il nostro stile di vita avrà trasformato i ghiacciai di tutto il mondo in acqua, i litorali di sabbia in mare e i terreni coltivati in deserti.
Quando compirò novant’anni, su una tenda a rullo proietterò per mio nipote trentenne le immagini dello Skeiðarárjökull, un ghiacciaio che, prima della sua scomparsa, tre generazioni della mia famiglia avranno avuto la possibilità di conoscere. Quando scatto una foto a un ghiacciaio, è come se registrassi il canto di un’anziana per conservarlo. Tra mille anni, qualcuno studierà quelle foto come si studia un antico manoscritto, cercando di capire cosa stavamo pensando.
Dal libro Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason (Iperborea, 2020).
Il libro che fa parlare i ghiacciai, soprattutto quelli più piccoli (ma non per questo meno importanti), è quello scritto da Giovanni Baccolo (qui il post). L’estratto “Custodi delle terre selvagge” è certamente molto sul pezzo.
Grazie a tutti i partecipanti alla magnifica escursione a Plan Borgno. Grazie in particolare a Ivana Grimod e a Enrico Mosquet.
Un sentito ringraziamento va al Parco Nazionale del Gran Paradiso per averci dato l’opportunità di scoprire un nuovo approccio alla frequentazione e alla conoscenza degli straordinari habitat delle nostre montagne.

Il bello di trasmettere felicità inconsapevolmente
Nell’articolo viene posta alla domanda:
“Chissà però se Mara è consapevole che quel fotogramma appartiene ad un’epoca mitologica?”
Sinceramente non so rispondere. Però una cosa è certa: vivevo il momento con felicità, spensieratezza e consapevolezza dell’unicità del posto. Sono contenta che questo tratto sia stato colto.
Un articolo interessante, la natura non è un giacimento inesauribile di materie prime a basso costo.
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Me l’hai trasmessa. E mi piace pensare che il Gran Paradiso ti abbia “usata” per parlare al mio cuore.
Grazie per aver partecipato!
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