Domenica 7 febbraio a Mezzenile (provincia di Torino) ci sarà il giro del brënlou, ovvero il Carnevale di questa vivace comunità alpina delle Valli di Lanzo.
Dello storico brënlou ne abbiamo parlato lo scorso anno in questo post, presentando il bellissimo lavoro di Ariela Robetto sui carnevali delle Valli di Lanzo (Una maschera sul volto – Carnevale e Quaresima fra trasgressione e ordine), pubblicato dalla Società Storica delle Valli di Lanzo.
Qui trovate la locandina con il programma.
Tra le varie maschere che sfileranno, ce ne sono un paio animalesche che trovo particolarmente trasgressive, soprattutto pensando alla nostra epoca in cui si fatica non poco a trovare il corretto rapporto tra natura e cultura.
Vi invito a conoscerle proprio grazie ad un capitolo del libro appena citato.
L’antiumano. La rivincita del selvatico e dell’animale
di Ariela Robetto
Molte sono le maschere che rappresentano il mondo animale: tra esse la più enigmatica è certamente quella dell’Orso, presente un tempo in molti Carnevali alpini: nelle Valli di Lanzo compariva a Cantoira, Chialamberto, Forno Alpi Graie, Usseglio e Mezzenile, dove ancora oggi fa parte dello storico brënlou.
L’orso, animale misterioso, dalle origini nebulose, è sempre stato sinonimo di forza bruta, di bestialità; esso è simbolo della natura che prorompe con irruenza dopo il letargo invernale, per annunciare la primavera imminente, ha un atteggiamento aggressivo, ma, alla fine, viene domato e balla con le altre maschere.
A parte il suo valore simbolico, la figura dell’orso è quasi d’obbligo fra queste montagne, dove il plantigrado era assai diffuso, tanto che nei “conti” della castellania di Lanzo del XIV secolo si legge che a Coassolo e Monastero, nello spazio di tre anni, si catturarono 42 orsi: una parte dell’animale andava al principe oppure, in sua vece, al castellano(1). La caccia all’orso era ampiamente praticata nelle Valli da parte dei duchi di Casa Savoia: i valligiani erano costretti a prestare corvées gratuite, sia per la riparazione delle strade su cui doveva transitare Sua Altezza, sia per contribuire alla caccia vera e propria: infatti, le battute alla belva richiedevano la partecipazione di un gran numero di uomini; l’ultima caccia pare abbia avuto luogo nel 1703(2).
Animale familiare dunque, sicuramente ben conosciuto un tempo dai montanari, ma anche un animale del tutto speciale: esso, infatti, scompare per tutto l’inverno e ricompare all’inizio della bella stagione. ll fenomeno non dovette naturalmente passare inosservato: la belva poteva essere raffrontata alla luna e alla terra, che ciclicamente dormono e stanno deste, e il risveglio dell’orso coincide emblematicamente con la rinascita della natura.
Un animale così particolare da aver indotto nel mondo contadino il suo accostamento a sant’Orso, il santo agreste di Aosta, festeggiato il primo febbraio; un detto popolare, assai diffuso anche nelle Valli di Lanzo, trae, infatti, auspici sull’arrivo o meno della bella stagione dal tempo che si ha in questa data ed è usanza credere che, se il giorno di Sant’Orso piove e l’orso non può far asciugare il pagliericcio su cui ha dormito durante l’inverno, il freddo e il maltempo siano quasi finiti; se invece splende il sole, per quaranta giorni si ritornerà nella cattiva stagione.
Evidentemente si è apposto un valore di sacralità cristiana a un complesso apparato simbolico, incentrato sul risveglio del plantigrado, che la civiltà contadina da lungo tempo aveva approntato per pronosticare la futura stagione agraria(3).
Julio Baroja ipotizza anche che le rappresentazioni invernali dell’orso, parimenti a quelle di altri animali predatori, rinviino alla preoccupazione per la preservazione del bestiame, con l’intento di propiziare la salvaguardia delle greggi(4).
Nel Carnevale di Monastero di Lanzo compariva la maschera del Caprone: una barbòira (maschera) si rivestiva con la pelle del becco e sul capo teneva posato il teschio dell’animale con il suo trofeo di corna; dapprima aggressivo e selvatico, fingeva in seguito di star male, arrivava allora una barbòira medico che, con un coltellaccio, fingeva di aprirgli il ventre da cui estraeva interiora di animali gettandole sugli astanti; alla fine esso si rialzava risanato e ballava con le altre maschere(5).
Questa tradizione, il più delle volte riferita all”orso, si ripete in diverse aree del Piemonte Nord-Occidentale e in alcune rappresentazioni carnevalesche dei Pirenei francesi: qui l’Orso compare in coppia con l’Uomo Selvatico, essi si dimostrano particolarmente aggressivi, soprattutto nei confronti delle donne; vengono poi catturati e rasati da un barbiere-cerusico e, dopo una morte simbolica, risorgono a nuova vita perfettamente inseriti nella società.
A Castellero d’Asti aveva luogo una farsa simile: qui il barbiere e i suoi garzoni sbarbavano con colpi feroci alcuni uomini che si mettevano a strillare e poi, a causa delle ferite provocate dal rasoio, svenivano. Accorreva il medico il quale praticava loro la respirazione artificiale tramite un soffietto da fuoco e, dopo aver tastato bene il malato, estraeva dai loro pantaloni metri di corda, a raffigurare il verme solitario; dopo di che gli ammalati guarivano fra l’esultanza di tutti e il suono della musica(6).
Le pantomime rappresentano chiaramente il passaggio da uno stato selvatico alla civiltà, dove la rasatura del pelo, così come l’estrazione delle interiora o della tenia (l’animale immondo che ha pervaso l’uomo), corrisponde alla perdita della ferinità ed a una rinascita nel contesto civile; esse dimostrano il transito dell’umanità dallo stato selvaggio a quello civile, dalla “bestialità” alla cultura; ma vi si potrebbe intravedere anche una forma di esorcismo della paura che il selvaggio nascosto nell’inconscio (il doppio) suscita in ogni uomo.
Secondo un’altra interpretazione, l’Orso (così come il Caprone di Chiaves) costituirebbe un’identificazione dell’inverno, ormai giunto al termine, fatto oggetto di scherno collettivo secondo un rito liberatorio da cui si potrebbe anche inferire la vittoria del bene sul male: si tratterebbe insomma di una «espressione del capro espiatorio affermatosi all’interno di una tradizione caratteristica di una comunità che per affrontare la nuova stagione agraria deve rigenerarsi simbolicamente» (7).
In molte rappresentazioni carnevalesche dell’arco alpino, l’Orso è abbinato all’Uomo Selvatico, rivestito con elementi vegetali e animali che ben denotano la sua separatezza, il suo vivere isolato, in disparte dal consesso civile: la sua figura, è destinata a porre ulteriormente in rilievo le prerogative selvagge tendenti a esprimere la natura contro la cultura, l’animalità contro la civiltà.
Si riscontrano sue tracce nei Carnevali di Monastero, dove egli si ricopriva con pelli di coniglio, di Chialamberto, allorché i ragazzini si mascheravano con ricci delle castagne, trucioli e foglie, di Mezzenile, quando compaiono costumi ottenuti cucendo su vecchi abiti foglie secche di castagno, muschio, erica, ricci…
L’Uomo Selvatico ha una lunga frequentazione delle Valli di Lanzo: sono molteplici le leggende che collocano il suo rifugio in grotte isolate, separate tramite un torrente dall’abitato; egli non incontra quasi mai gli umani, anche se pascola le loro capre in cambio di un po’ di cibo lasciato sospeso alle corna degli animali. In queste narrazioni il Selvatico è la rappresentazione dell’uomo dei primordi, non ancora contaminato dalla malvagità, rappresenta la bontà della natura vergine, in cui la cultura e solamente volta al bene e al progresso delle tecniche per una vita migliore nell’ambito del consesso umano(8).
Ma l’uomo villoso, che può vivere allo stato di uomo “selvatico”, tema iconografico di moda nel XIV e principalmente nel XV secolo, appartiene anche, con una connotazione negativa, all’mmaginario medievale in cui i mostri sono onnipresenti; la deformazione e assimilata al disordine e al peccato: il corpo non smette di essere in movimento, di manifestarsi rompendo gli schemi preordinati. In quest’epoca deformità e anormalità sono tanto diffuse quanto diffusamente sono disprezzate e tali rimarranno sino ad epoche a noi assai prossime: l’immaginario del corpo mostruoso trova libero sfogo anche nella rappresentazione del demonio che assume aspetto deforme per terrorizzare l’uomo. A questo filone appartengono altre figure presenti nei Carnevali valligiani: sono i gobbi e gli storpi della manifestazione di Viù, mostruosi per le loro anomalie fisiche(9) (ma anche la Vecchia di molti Carnevali ostenta una vistosa gobba); sono gli uomini travestiti da donna e viceversa, figure nelle quali la commistione dei sessi produce androgini che incarnavano i fantasmi sessuali dei cristiani del Medioevo; sono anche i colori a essere reputati anomali, così i visi cosparsi di nera fuliggine, presenti in molti Carnevali delle Valli di Lanzo e nelle patoilles(10) valdostane, lasciano intravedere tendenze razziste connesse al colore della pelle (gli uomini di pelle nera erano considerati mostruosi nel Medioevo)(11) oppure possono essere assimilati alle anime dei morti propiziatrici della primavera e del sole: secondo Vladimir Propp il viso impiastricciato di fuliggine è connesso «alla rappresentazione agricola della discesa sotto terra della divinità che favorisce la fertilità» nel periodo compreso tra semina e raccolto(12).
L’Uomo Selvatico, sotto le specie di troglodita scatenato, era spesso presente nelle farse medievali ed era ben noto a Tristano Martinelli, il comico della Commedia dell’Arte che, alla fine del Cinquecento, creò in Francia la maschera di Arlecchino. Infatti, l’Arlecchino primordiale si muoveva con zompi e gutturalità da scimmia triviale e aggressiva; le maschere della compagnia che agivano con lui sul palcoscenico esprimevano simpatia per la sua figura così come il pubblico di corte, compresi re e regine, che accolsero con grandi risate e applausi i suoi lazzi scurrili e surreali. Pian piano, però, il “selvatico” si addomesticò, si trasformò in un essere più umano, quasi civile: a questo punto, allorché si presentò educato, con idee proprie, originali, venne preso a pedate da ognuno e scaraventato fuori dalla scena(13).
È, ancora una volta, la rivincita dell’antiumano, della bestialità contro la civiltà con le sue regole costrittive e i suoi lacci soffocanti.
NOTE.
(1) L. CIBRARJO, Le Valli di Lanzo e d’Usseglio ne’ tempi di mezzo, in ID., Studi storici, Torino, Stamperia Reale, 1851 (rist. an. Lanzo T.se, Società Storica delle Valli di Lanzo, XXXIV, 1982), p. 312.
(2) M. SAVJ-LOPEZ, Le Valli di Lanzo. Bozzetti e leggende, Torino, Libreria Editrice Brero, 1886, pp. 457-479; MILONE, Notizie delle Valli di Lanzo cit., p. 277.
(3) P. GRIMALDI, Tempi grassi. Tempi magri. Percorsi etnografici, Torino, Omega Edizioni, 1996, p. 46.
(4) J.C. BAROJA, El Carnaval, Madrid, Taurus Ediciones, 1989, trad. it. Il Carnevale, Genova. Editore Il Melangolo, 1989, p. 256.
(5) Testimonianze orali di Giuseppe Micheletta (1922) e Pierino Micheletta (1936), Chiaves (Monastero di Lanzo).
(6) POLA FALLETTI-VILLAFALLETTO, Associazioni giovanili cit., vol. lll, p. 166 sg.
(7) Cfr. M. CENTINI, L’Uomo Selvaggio, antropologia di un mito della montagna. Ivrea. Priuli & Verlucca Editori, 2000. pp. 67-74.
(8) Per ulteriori approfondimenti sulla figura del Selvatico nelle Valli di Lanzo cfr. A. ROBETTO, Archetipo, mito, leggenda della caverna. Frammenti della memoria nelle Valli di Lanzo, in B. GUGLIELMOTTO-RAVET (a cura di), 2ª Miscellanea di studi storici sulle Valli di Lanzo, in memoria di Ines Poggetto, Lanzo T.se, Società Storica delle Valli di Lanzo, 2007, C, pp. 219-237.
(9) Recita un proverbio di Viù: a j’a gnon pi gram che li geub, li stropià e ‘l fumeless san magnà (non c’è nessuno più cattivo dei gobbi, degli storpi e delle donne senza figli); i mostri del Medioevo collegati alle deformità fisiche o alle anomalie quali la sterilità continuano a essere sottoposti alla condanna della collettività che li accusa di cattiveria: l’aspetto fisico e riflesso di una interiorità maligna e corrotta.
(10) Durante le due settimane precedenti il Carnevale gli abitanti di Bosses, paese della Coumbe Freide, in Valle d’Aosta, si mascherano, si anneriscono il viso con fuliggine e polvere di carbone e, in piccoli gruppi, chiamati patoilles, irrompono nelle case e nei locali pubblici per spaventare la gente con scherzi di ogni genere, divertendosi a spese dei malcapitati che, per giunta, li devono poi anche invitare a bere e a mangiare. Cfr. GALLO PECCA, Le maschere, il Carnevale cit., p. 108.
(11) Per la concezione della mostruosità nel Medioevo cfr. C. KAPPLER, Monstres, démons et merveilles à la fin du Mayen Âge, Paris, Éditions Payot, 1999.
(12) V.J. PROPP, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Boringhieri Editore, l972 (I ed. 1946), p. 215.
(13) Cfr. Fo, Mistero Buffo cit., p. 147
Un interessantissimo articolo scritto da Annibale Salsa sulla figura dell’Uomo Selvatico si trova sul n. 122 (Dicembre 2002) di Piemonte Parchi: L’Uomo Selvatico. Guardiano della natura d’altri tempi (pag. 26 del file in pdf).
Un altro post sul Carnevale di Mezzenile lo trovate qui, con le le foto dell’edizione 2015.
Buon Carnevale!
Un bellissimo articolo, ben documentato.
È bello quando un blog serve a trasmettere anche la Memoria e, pertanto, anche l’identità.
Buon Carnevale anche a voi !
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Grazie Lilia!
Complimenti per il tuo blog 🙂
Buon Carnevale!
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Grazie a te 🙂
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Un articolo utile, che ci ricorda che il Carnevale è in realtà cosa seria, e che la convivenza della Cultura-Civiltà-Domesticazione con Natura-Animale-Selvaggio è una costante nella storia dell’Uomo, in ogni epoca. Bella lezione per i tanti adoratori acritici del Progresso, della Tecnica, delle cravatte e degli smartphone, incapaci perfino di correre in spiaggia senza scarpe o di percorrere un sentiero senza navigatore palmare. Francesco Paolo Mancini
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