Elinor Ostrom ha vinto il premio Nobel per l’economia. Sono stati premiati i suoi studi in merito alla gestione – la governance – delle risorse di cui non si riesce ad identificare la proprietà (boschi, suoli, acqua…) proponendo soluzioni alternative alla gestione centralizzata.
Cercando su Internet ho scoperto che nell’anno 2006 è stato pubblicato un suo libro: “Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità“. Mi sono chiesto se questo testo potesse in qualche modo aiutarmi a capire se esistono soluzioni alternative alla gestione privata di un bene pubblico così importante, come quello rappresentato dall’acqua, di cui ho tentato di trattare nei vari post scritti in merio al progetto di sfruttamento del Piano di Vassola. In attesa di leggere questo libro, ordinato via Internet (sperando sia sufficientemente divulgativo), ho iniziato a fare qualche ricerca con Google per trovare qualcosa in merito che potesse essere interessante e sufficientemente accessibile anche a chi non è addetto ai lavori (come il sottoscritto). La scelta, personalissima, è caduta su un interessante articolo pubblicato da Lavoce.info e scritto da Antonio Massarutto che riporto in questo spazio per comodità.
ELINOR OSTROM E LA RIVINCITA DELLE PROPRIETA’ COMUNI
Il premio Nobel a Elinor Ostrom riconosce l’importanza di aver ipotizzato l’esistenza di una terza via tra Stato e mercato. Quella di Ostrom è una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Una lezione di particolare importanza oggi a proposito dei beni collettivi globali, come l’atmosfera, il clima o gli oceani. Ma molto significativa anche per l’attuale crisi finanziaria, che si può leggere come il saccheggio di una proprietà comune: la fiducia degli investitori.
Uno dei dogmi fondativi della moderna economia dell’ambiente è la cosiddetta “tragedy of the commons”, risalente a Garrett Hardin. Secondo questa impostazione, se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una tendenza a sovrasfruttarlo. L’individuo che si appropria del bene comune, deteriorandolo, infatti, gode per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo (in quanto questo costo verrà socializzato). Poiché tutti ragionano nello stesso modo, il risultato è il saccheggio del bene. Analogamente, nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il bene, poiché sosterrebbe un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi che in parte.
UNA TERZA VIA TRA STATO E MERCATO
Il ragionamento di Hardin partiva dall’esempio delle enclosures inglesi, precondizione della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni, in questa visione, costituiva il necessario presupposto di una gestione razionale ed efficiente: mentre in regime di libero accesso il pascolo indiscriminato stava portando alla rovina del territorio, il proprietario privato, in quanto detentore del surplus, aveva l’interesse a sfruttare il bene in modo ottimale e a investire per il suo miglioramento.
Quando non vi sono le condizioni per un’appropriazione privata, deve essere semmai lo Stato ad assumere la proprietà pubblica. Solo i beni così abbondanti da non avere valore economico possono essere lasciati al libero accesso; per tutti gli altri occorre definire un regime di diritto di proprietà privato o pubblico.
Il merito di Elinor Ostrom è stato quello di ipotizzare l’esistenza di una “terza via” tra Stato e mercato, analizzando le condizioni che devono verificarsi affinché le common properties non degenerino. Ostrom prende le mosse dal lavoro di uno di quei precursori-anticipatori, troppo eterodossi per essere apprezzati nell’epoca in cui scrivevano: lo svizzero tedesco, naturalizzato americano, Ciriacy-Wantrup, che ancora negli anni Cinquanta osservava che vi sono nel mondo molti esempi di proprietà comuni che sfuggono al destino preconizzato da Hardin, come ad esempio le foreste e i pascoli alpini. Distingueva appunto le “common pool resources” (res communis omnium) dai “free goods” (res nullius): nel primo caso, pur in assenza di un’entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi, a fare la differenza è l’esistenza di una comunità, l’appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune, ma anche determinati doveri di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione, sanzionati dalla comunità stessa attraverso l’inclusione di chi ne rispetta le regole e l’esclusione di chi non le rispetta.
Su queste fondamenta poggia l’edificio concettuale della Ostrom, la cui opera più importante, Governing the Commons, sviluppa una teoria complessiva che identifica le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Analisi che intreccia con grande profondità e intelligenza la teoria delle istituzioni, il diritto, la teoria dei giochi, per lambire quasi le scienze sociali e l’antropologia.
Il campo di applicazione delle ricerche sviluppate in questo filone può far storcere il naso: dalle risorse di caccia degli Indiani d’America alle comunità di pescatori africani, o alla condivisione delle acque sotterranee in qualche remoto sistema agro-silvo-pastorale nepalese. Ma come spesso succede, applicare il concetto di base a un oggetto semplice consente di mettere a fuoco concetti e teorie di portata molto più generale.
Non a caso, la lezione della Ostrom è di particolare importanza oggi, a proposito dei global commons, come l’atmosfera, il clima o gli oceani. Per applicare la ricetta di Hardin a questi beni, infatti, ci mancano sia un possibile proprietario privato, sia un soggetto statale in grado di affermare e difendere la proprietà pubblica. Il diritto internazionale, in questa prospettiva, altro non è che un sistema di governance applicato a un bene comune, e non vi è soluzione alternativa alla cooperazione tra i popoli della Terra per raggiungere un qualsiasi risultato in termini di lotta ai cambiamenti climatici.
Ma è importantissima anche in quei casi – si pensi alla falda acquifera sotterranea e più in generale alla regolamentazione delle fonti di impatto ambientale diffuse – in cui un principio di proprietà pubblica è in astratto possibile e nei fatti esistente, almeno sulla carta; ma la sua attuazione effettiva si scontra, da un lato, con l’enormità dei costi amministrativi (in Italia ci sono centinaia di migliaia di pozzi privati che bisognerebbe monitorare per applicare la norma), dall’altro con la difficoltà politica di vietare comportamenti che sono prassi consolidate percepite come diritti.
UNA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA
Il lavoro di Ostrom trova punti di contatto con la teoria dei giochi, in particolare con quei filoni di ricerca che attraverso il concetto di gioco ripetuto mostrano come gli esiti distruttivi e socialmente non ottimali (equilibri di Nash, di cui la stessa “tragedy of the commons” è in fondo un esempio) possano essere evitati se nella ripetizione del gioco gli attori “scoprono” il vantaggio di comportamenti cooperativi, che a quel punto possono essere codificati in vere e proprie istituzioni. È interessante anche notare come il “comunitarismo” della Ostrom trovi qui un punto di contatto con “l’anarchismo” antistatale; ma Ostrom enfatizza piuttosto l’importanza della comunità, della democrazia partecipativa, della società civile organizzata, delle regole condivise e rispettate in quanto percepite come giuste e non per un calcolo di convenienza.
Non mi risulta che Ostrom si sia mai occupata di finanza, ma è quanto meno singolare la coincidenza del premio con la ri-scoperta dell’importanza del capitale sociale e delle regole condivise per il buon funzionamento dei mercati. Forse anche la crisi finanziaria che stiamo vivendo altro non è che un esempio di “saccheggio” di una “proprietà comune”, la fiducia degli investitori, per ricostruire la quale servirà qualcosa di più di una temporanea iniezione di capitale nel sistema bancario.
Antonio Massarutto – Lavoce.info
Proprio in questi giorni sul Piano di Vassola si incontrano l’Amministrazione del Comune di Chialamberto e la società Clear Energy per decidere sul progetto dello sfruttamento (o saccheggio?) dell’acqua del Rio Vassola e del Rio Paglia.
Come semplice cittadino sto solo tentando di capire qualcosa di più nei confronti di tematiche così delicate e importanti per tutti noi. Si parla di acqua, di futuro e di ambienti straordinari che meritano sicuramente una tutela speciale. Spero vivamente che il potere pubblico, in questo caso il Comune di Chialamberto e anche la Provincia di Torino, sappiano prendere in considerazione proprio tutti quei cittadini, in fin dei conti pur sempre elettori, che hanno profondamente a cuore il bene pubblico e vorrebbero per esso la massima cura. Anche perché non sarebbe male lasciarlo in eredità a chi viene dopo di noi il più possibile intatto, magari migliorato.
Beppeley
La fiducia e’ un cardine importante: nell’amore, nell’amicizia, nell’economia, nella comunita’…ovunque.
Mi viene in mente la figura del "mansia" (capo-frazione ancora oggi eletto in ogni frazione di Pragelato e retaggio degli Escartons) e la sua importanza all’interno della comunita’.
Ricordiamoci anche che economia, leggi, regolamenti, sono creati dagli uomini stessi.
E che Elinor Ostrom e’ la prima donna a ricevere il premio Nobel per l’economia.
Serpillo
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mi ricorda un libro di Mario Rigoni Stern sulla vita nella comunita’ dell’altipiano dei sette comuni.
Comunita’…. che parola.. racchiude tutto il senso di appartenenza a un "noi" che e’ allo stesso tempo responsabilita’ personale e collettiva, senso del dovere e del mutuo soccorso, rispetto del prossimo, della cosa privata e pubblica.
La fiducia degli investitori in un mercato senza regole non esiste, perche’ alla fiducia si instaura un regime di sospetto.
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troppe volte alle roboanti dichiarazioni di una gestione ottimale del territorio e delle sue risorse ci si e’ trovati poi a un dato di fatto scandaloso.
e da qui si inizia il cammino sul sentiero del muro contro muro che da proporre e opporre diventa imporre e contestare, che frattura sempre piu’ la posizione di chi sul territorio e col territorio deve e vuole vivere, lavorare, crescere e invecchiare..
Abbiamo smarrito il senso profondo della parola "nostro", siamo divisi tra il mio e il non mio, quindi impossessabile, sfruttabile, esauribile e infine, nello stereotipo moderno, sostituibile.
Almeno finche’ ci sara’ un altro vallone da colonizzare, sfruttare, deturpare e uccidere. E poi? e poi basta, sara’ la parola fine al libro della vita di montagna, della montagna e per la montagna.
E pensare che basterebbe tornare a usare il territorio come si faceva pochi decenni fa. usare e non sfruttare, capire e non stravolgere, rispettare e non depauperare.. Comprendere che il mondo e’ nostro, e come tutto cio’ che ci appartiene abbiamo il dovere di mantenerlo funzionale a noi, a chi ci seguira’ e a chi seguira’ ancora dopo.
Io sono favorevole allo sfruttamento ambientale, a patto che sia uno sviluppo e non un’invasione in armi. penso che dalla notte dei tempi l’uomo abbia usato per il proprio beneficio le potenzialita’ ambientali, ma con cognizione di causa, e senza dubbio con obiettivi diversi da quelli attuali. un tempo si prendeva quel che serviva, oggi resta solo cio’ che e’ invendibile o insfruttabile.
Scusate il commento spezzato ma ho pasticciato col computer..
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anche a me è venuto in mente mario rigoni stern e le cose che cita marco.
peso poi alle roide per tenere puliti i fossi, o in ordine le mulattiere, i sentieri, beni di tutti, che permettevano la vita della comunità. chi fa ancora queste cose? dove?
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solo oggi ho avuto modo di approfondire il post. Ricco di significati, di idee, di proposte e di speranza, perché forse una via alternativa esiste, alla faccia del "pensiero unico" che ci tappa occhi e bocca.
A proposito di alternative attacco il link ad un documento relativo al consumo del terriotrio, in attesa di un mio post più corposo
Fai clic per accedere a DOMENICO-FINIGUERRA-Terra-un-bene-comune-da-preservare.-Lesperienza-di-Cassinetta-di-Lugagnano.pdf
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@marcopolacco: ti ringrazio del tuo prezioso contributo che condivido in pieno. Mi piacciono molto le parole che hai scritto: "usare e non sfruttare, capire e non stravolgere, rispettare e non depauperare".
@gpcastellano: ho letto tutto. Ho visto anche il flimato della trasmissione di Report il cui link è nel documento che hai postato. Ti ringrazio davvero molto per l’importante contributo cha hai lasciato in questo spazio e invito tutti a prendersi 15 minuti di tempo per leggere cosa dice di così "ricco" per il nostro cervello il Sindaco di Cassinetta di Lugagnano. Sai che sono davvero felice? E sai perché? Perché mi hai offerto l’anello di congiunzione tra quello che ritengo importante, ovvero la nostra crescita culturale, e l’espressione di esso attraverso una scelta politica (il voto). E allora, dopo aver letto lo stupendo documento del Sindaco Finiguerra, che tu ci hai suggerito, dobbiamo davvero sperare che quel 62,1% di cittadini del Comune di Cassinetta di Lugagnano non sia solo una maggioranza in una minoranza a livello italiano, del nostro Paese. C’è davvero un segnale formidabile di salute mentale da parte di quei cittadini che hanno scelto il ben-essere invece del ben-avere. E questo benessere passa proprio dal rispetto del nostro territorio da non devastare con l’invasione barbarica del partito del cemento. Ma sai qual è il mio dubbio atroce? E che quel 62,1% potrebbe determinare la fine della mafia, se ci fosse anche a livello nazionale per l’elezione del Parlamento Italiano. Le associazioni a delinquere mafiose detengono una buona fetta dell’economia italiana che “passa” molto attraverso il settore del cemento. Ho il grosso timore che senza quella immondizia umana, crollerebbero interi settori della nostra economia. Ma queste sono cose che in fin dei conti sanno più o mento tutti. E allora è la solita storia della scimmietta, no?
Grazie ai cittadini di Cassinetta di Lugagnano che hanno creduto in una persona così speciale come il Sindaco Domenico Finiguerra.
E mi raccomando, fai il post ! Se no ci penso io. So già il titolo.
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