Nel Vallone di Unghiasse

Il Gran Lago d’Unghiasse (2494 m)

Sotto quanti punti di vista si potrebbe “esplorare” una valle da favola?

Dal cielo alla terra, potremmo compiere un viaggio senza fine: dagli astri ai fiori disseminati su questi pascoli alpini, potremmo sguinzagliare la nostra curiosità e viaggiare per secoli, effettuando un pellegrinaggio alla ricerca dell’uomo e del suo mondo.

Mi sono proiettato qui, catapultato dalla metropoli, grazie a dei compagni di viaggio che hanno bussato alla porta di un viandante chiedendogli se aveva voglia di partire.

E adesso quest’anima vagabonda ed inquieta, tenta di offrirvi uno sguardo verso la montagna che non sia solo quella creata dalla “civiltà” padrona del mondo, quella che vive stipata negli alveari cittadini.

Nel Piano delle Riane una baita in pietra compare all’improvviso come partorita dalle rocce.

Come poter iniziare nel modo migliore questo viaggio con voi se non affidandomi alla recensione di un libro bellissimo che parla di monasteri e spaesati dintorni? Perché, cosa c’entrano i monasteri d’Italia con le escursioni tra le Alpi?

Sarà il Silenzio?

E’ una droga, il racconto di un’esperienza spaesante“, scrive Ferdinando Camon nella recensione, scritta per l’inserto TuttoLibri del quotidiano La Stampa, del libro di Giorgio Boatti (Sulle strade del silenzio).

Spaesante vuol dire che ti porta fuori dal tuo paese, dentro un altro paese, fuori dal tuo tempo, dentro un altro tempo, fuori dalla tua vita, dentro un’altra vita. Fuori dalla tua civiltà, dentro un’altra civiltà“.

E poi:

Nei monasteri impari l’importanza di due cose, la solitudine e il silenzio“.

Succede anche in montagna…

Malga nei pressi dell’Alpe Lajetto (2298 m)

Rubo questi pensieri per parlarvi di un Vallone distante anni luce da noi, dal nostro paese, dalla nostra vita, dalla nostra civiltà. Dal nostro tempo. Ma per cercare di compiere questa complicata impresa devo necessariamente resettarmi, come quando capita che un virus infetta irremidiabilmente il nostro pc.

E allora ci provo. Cancello il software “danneggiato” nella mia anima e la lascio veleggiare dove la terra cerca il cielo.

Si parte da Alboni, in Val Grande di Lanzo, a quota 1384 metri, più di mille metri di dislivello e di spaesamento dalla pianura torinese, poco più di un’ora di auto.

“Spaesante vuol dire che ti porta fuori dal tuo paese, dentro un altro paese, fuori dal tuo tempo, dentro un altro tempo, fuori dalla tua vita, dentro un’altra vita. Fuori dalla tua civiltà, dentro un’altra civiltà”.

So già cosa mi attende. Catapultarsi giù dal letto alle sei del mattino, “cliccare” sul programma “escursione fuori dalla tua vita”, disattivando per qualche ora quello “cittadino consumatore”, è un’esperienza spaesante.

Lo capisci appena molli l’auto davanti a delle baite perfettamente ristrutturate dallo sguardo di chi ha visto la montagna dietro i lori tetti di lose. Lo capisci quando il tuo movimento nel mondo non sarà, per oggi, prodotto da mezzi meccanici che ti portano, giorno dopo giorno, negli stessi luoghi, mese dopo mese, anno dopo anno. Negli stessi nonluoghi.

Baite della borgata Alboni da dove parte il sentiero per i Laghi d’Unghiasse

Bisogna aver voglia di silenzio e di solitudine.

Quando cammini sui sentieri sei solo anche quando sei in compagnia. Sarà l’ambiente, sarà la natura prepotente, quasi “invadente”. Di colpo le strutture di cemento ed acciaio dell’orizzonte metropolitano si  disintegrano lasciandoti solo con te stesso. Cosa vuol dire? Vuol dire che dialoghi con quello che ti circonda senza alcun “intermediario” artificiale senza delegare ad altri la comunicazione tra la nostra anima e il luogo che le ha dato la vita. Il paesaggio naturale penetra nei tuoi pori e lo respiri come l’aria. E così sei pienamente consapevole che quel paesaggio è parte di te. Ti appartiene da tempo immemore, ancora prima di venire al mondo, come se fosse inciso nel tuo Dna.

La solitudine nasce anche dalle tensioni che la natura intorno a te sa trasmetterti. Per qualche spazio di tempo non ci sarà più alcun artifizio in grado di assicurarci le comodità della nostra vita programmata – il software “cittadino consumatore” – del “tutto subito”, del “tutto pronto a soddisfare ogni tuo bisogno”.

E allora mi lascio catturare da questa solitudine particolare che questo Vallone sa trasmettere ponendoti di fronte ad interrogativi abissali.

Osservo questo pianoro – il Piano delle Riane, lungo quasi un chilometro – e la cascata d’acqua che lo innaffia.

Piano delle Riane (1800 metri circa)

“Come si sarà formato?” si domanda un compagno di viaggio.

[…] “Fuori dal tuo tempo, dentro un altro tempo” […]

Provo a recuperare dalla mia memoria il bellissimo post di Marco Blatto che parla del Vallone di Vassola e allora per qualche secondo entro nella macchina del tempo e viaggio fino a 12 mila anni fa, quando i ghiacciai cominciarono a ritirarsi consentendo così all’uomo di iniziare a percorrere queste montagne per poi abitarle.

Qui? Ma da dove è arrivato l’uomo? Dalla pianura?

Me lo posso domandare adesso grazie al fatto che qualcuno mi ha tappato buchi di ignoranza che mi facevano dare per scontato che l’uomo avesse conquistato queste zone partendo dalla pianura, perché è dalla pianura che tutto nasce, non è così? La civiltà, la tecnologia, le grandi conquiste… Siamo talmente immersi nella nostra realtà e ci crediamo così tanto che siamo convinti che tutto nasce e muore nella pianura. I comuni, l’economia, la politica, la religione…

E invece l’ipotesi più accreditata è che la montagna sia stata “conquistata” dall’alto. Me lo racconta il Piano delle Riane. Il clima cambia, i ghiacciai si ritirano progressivamente lasciando il fondovalle totalmente inospitale, ricco di belve feroci, di paludi e di ombre.

I ghiacciai che vediamo oggi, puntando i nostri occhi verso le vette, sono i residui dell’ultima glaciazione.

L’Uja di Ciamarella con la “est”. A sinistra si nota l’agonizzante ghiacciaio dell’Albaron di Sea (foto scattata nel settembre del 2011)

Chi aveva voglia di vivere in un fondovalle e in una pianura sconvolta dalla ritirata delle masse glaciali? E cosa ci si poteva trovare per vivere? Ma se non ci è arrivato dal basso, allora da dove sono arrivati i primi uomini, presumibilmente cacciatori e raccoglitori, che raggiungevano questi versanti?

Forse da sentieri che si perdono nei millenni prima di Cristo…

Ma neanche poi i monasteri, lungo le strade del silenzio, sono così fuori luogo qui. Alboni e tutte le altre borgate situate intorno a quota mille metri non sono nate prima degli insediamenti in quota come gli alp e i gias.

L’alta Val Grande di Lanzo

Se in fondovalle tutto era sconvolto, inabitabile, pericoloso, chi ha permesso la nascita dei villaggi che oggi incontriamo percorrendo la strada provinciale? Chi ha bonificato e dissodato il terreno terribilmente paludoso lasciato in eredità dal ghiaccio divenuto acqua?

I primi colonizzatori erano monaci benedettini, arrivati fin qui dalla pianure e lungo le loro “strade” del silenzio.

[…] “Fuori dalla tua civiltà, dentro un’altra civiltà” […].

Dentro un’altra civiltà, quella che ha modellato la montagna disseminandola di lievi testimonianze del suo passaggio su questi pascoli.

Mi fermo, ed emerge  lo spaesamento dal profondo dalla mia anima resettata. Fisso quella costruzione di pietra. Una macchiolina bigia imprigionata dalla natura alpina. Un segno umile della vita dell’uomo. Una traccia severa e dura ma allo stesso tempo esteticamente irresistibile. L’espressione dell’arte di vivere.

Gias Miandetta (2084 m)

E’  impossibile comprendere le interazioni tra l’uomo e il suo ambiente (a prescindere dal “progresso” e dalla tecnologia) vivendo compressi nelle realtà virtuali dei mondi metropolitani. Per riuscire solo ad immaginare di cosa è stato capace l’uomo, bisogna percorrerne le sue orme. Bisogna osservare con spirito umile, sentendo la fatica che attanaglia i muscoli e il sudore che bagna la nostra fronte. Poi, forse, con qualche ottima lettura, possiamo entrare nella macchina del tempo, uscire dalla nostra civiltà e provare quel senso di spaesamento – benefico – che molto probabilmente ci farà sorgere interrogativi terapeuetici.

In discesa, improvvisamente, tutte queste mie riflessioni si infrangono ineluttabilmente negli ormai noti segni della civiltà di pianura che rintracciamo anche qui, a Gias Vecchio, a 2142 metri di quota.

Gias Vecchio è una discarica a 2142 metri. Chissà chi riporterà a valle quei rifiuti?

Peccato che pastori del XXI secolo, che lavorano in questo Vallone, utilizzino un anfratto tra due malghe come discarica a cielo aperto, quasi come volessero lanciare un messaggio molto esplicito agli escursionisti che tornano dalle acque cristalline del Gran Lago d’Unghiasse. Sembra quasi che vogliano dirci:

Non pensate di sfuggire dai rifiuti della pianura per arrivare qui e sperare di non trovarne“.

Cibo e gas in scatola: dalla pianura alle Alpi la macchia oleosa del “progresso” non conosce ostacoli. Per i pasotri sarà un po’meno dura la vita d’alpeggio. Per gli escursionisti un po’ meno piacevole e meno incantata l’uscita domenicale dalle città.

D’altronde gli alpinisti si comportano allo stesso modo quando aspirano a raggiungere ambienti ben più in quota di questi. Penso agli 8000 e a tutti i rifiuti che puntualmente vengono lasciati dalle spedizioni in cerca della loro dose di divertimento: alla faccia della sacralità delle vette.

Ma se continuiamo così, con questi comportamenti, in città come in montagna, allora tutto il nostro Pianeta è destinato a diventare, in tempi molto brevi, un’immensa discarica a cielo aperto.

Un luogo così ricco di alterità, come quello rappresentato dalle Alpi, dovrebbe essere ancora in grado di parlare all’uomo, giusto per fargli intravedere una esile traccia, tra le nebbie e le ombre della nostra civiltà, che possa farlo ancora sperare in un avvenire diverso, dove la sopravvivenza del genere umano non sia un’utopia, come sembra stia accadendo in questa nostra epoca.

Planiamo sempre più giù, verso il fondovalle, verso la pianura e la civiltà dell’imballaggio eco(in)sostenibile. Ci lasciamo alle spalle il bellissimo Piano delle Riane e in breve ci troviamo a Vaccheria, a 1630 metri, dove l’uomo si confonde con le rocce mostrandoci la sua arte nella capacità di adattamento verso il mondo che gli ha dato la vita: siamo figli di questo mondo, non della tecnologia. L’evoluzione ci ha dotato di ogni capacità per resistere e sopravvivere ad ambienti difficili, duri e severi.

La pietra usata magistralmente dalle genti alpine: un dialogo ecosostenibile tra l’uomo e la natura che urge reinterpretarlo in chiave moderna.

Con l’obiettivo di sfuggire a tutta questa durezza, sperando di migliorare definitivamente le proprie condizioni di vita, l’uomo si è inventato ogni sorta di diavoleria per rendersi la vita più comoda e per risparmiarsi molta fatica. Piacciono a tutti queste diavolerie, anche al sottoscritto che sta postando grazie proprio alle innovazioni tecnologiche della nostra epoca.

Forse, percorrendo questo Vallone, è lecito chiedersi se tutto ciò rappresenta un boomerang per la nostra civiltà?

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Gran Lago di Unghiasse (2494 m)

Il Vallone d’Unghiasse è uno dei più belli delle Valli di Lanzo. Ubicato nel versante solatio della Val Grande di Lanzo, giace sospeso in “mezzo” ad altri due valloni stupendi: quello di Vassola ad est mentre ad ovest si trova quello di Vercellina. In quota ci sono numerosi laghi (il Gran Lago d’Unghiasse, con i suoi 600 metri di lunghezza e 200 di larghezza nel punto massimo, è il più grande lago naturale delle Valli di Lanzo) e un sentiero collega questi tre valloni che si possono raggiungere partendo da borgate che meritano una visita, come –  da est verso ovest  –  Vonzo, Alboni e i Rivotti. Per comprendere quale fenomeno, dal punto di vista geologico, ci ha consegnato tali gioielli, vi suggerisco di leggere questo post: “Il Vallone di Vassola: un museo del “paesaggio naturale” a cielo aperto“.

Gran Lago d’Unghiasse

Vi lascio le indicazioni per raggiungere la zona dei laghi partendo da Alboni (oltre a quelli di Unghiasse, proseguendo verso ovest lungo il sentiero 324-AVC (Alta Via Canavesana), si può toccare il Lago della Fertà).

Accesso: si risale la Val Grande fino a Pialpetta (frazione di Groscavallo). Si attraversa tutta la borgata e poi stare attenti alla deviazione verso destra (cartelli in legno con indicazioni). La strada compie alcuni tornanti e giunge ad un bivio: prendere a destra e seguire la stretta strada asfaltata fino al suo termine per giungere così ad Alboni.

Località di partenza: Alboni (1384 m – frazione di Groscavallo)

Difficoltà: E – escursionistico

Dislivello: 1200 m circa

Segnavia: 323, 324-AVC, bolli bianco-rossi

Tempo di salita: 3 h 30′ circa

Cartografia: Valli di Lanzo carta n. 8, scala 1:25.000 edita dalla FRATERNALI editore oppure carta n. 14, scala 1:25.000 Valli dell’Orco e Gran Paradiso edita da ESCURSIONISTA & MONTI editori.

In giornate con ottima visibilità, suggerisco vivamente di rientrare ad Alboni passando dal Lago della Fertà (2560 m). Dal Gran Lago si prosegue sul sentiero 324-AVC  in direzione ovest e appena in vista della propaggine orientale (cartello con indicazione per il Colle della Terra Fertà) bisogna stare attenti, voltandosi verso sinistra (SE), ad individuare gli ometti di pietra e i rari bolli rossi che ci faranno raggiungere l’Alpe Lajetto (2298 m), già incontrato all’andata (dove si osserva il bivio con i cartelli che indicano “Lago della Fertà”). Tale sentiero permette di toccare tre bellissimi alpeggi di cui uno ha richiamato la mia curiosità per molto tempo: sulle carte escursionistiche il toponimo in questione è “Alpe Becco degli Uccelli” (2530 m: forse l’alpeggio più in quota di tutte le Valli di Lanzo). Perché mai chiamare così un alpeggio? Lascio a voi rintracciare la risposta, facendovi stimolare da quella capacità di osservazione che è una delle caratteristiche fondamentali per praticare un escursionismo intelligente ed autentico.

Alpe Becco degli Uccelli (2530 m): l’alpeggio più in quota di tutte le Valli di Lanzo

Un’ultima considerazione in tema di carte escursionistiche e conoscenza del territorio: quelle “vecchie” (e anche le uniche che per anni hanno tenuto penosamente in ostaggio un territorio: chi conosce un pochino le Valli di Lanzo sa di quale parlo) non indicavano il sentiero che dal Lago della Fertà conduce all’Alpe del Lajetto, dimenticandosi così di luoghi alpini davvero favolosi e meritevoli di essere conosciuti ed apprezzati (e questo è solo un esempio di sentieri dimenticati da improbabili carte escursionistiche). La carta topografica che mi ha fatto prendere in considerazione quel sentiero è quella della Fraternali (pubblicata nel 2011). L’ho già detto più volte, ma lo ripeto volentieri: una carta precisa e ben fatta da una parte permette all’escursionista di esplorare con attenzione il territorio alpino e dall’altra offre sicurezza. Questi due aspetti fondamentali, parlando di sentieri dimenticati e privi di segnaletica,  dovrebbero essere presi in considerazioni dalle istituzioni locali per favorire quel turismo legato proprio all’escursionismo. Molto facile a dirlo, ben più complicato a farlo, in quanto, in Italia, anche in prossimità delle Alpi e degli Appennini, manca la cultura dell’escursionismo che invece ritengo dovrebbe essere molto diffusa soprattutto in quelle aree alpine che necessitano di forme di turismo lento (come l’escursionismo di qualità, molto apprezzato, di moda e ricercato dai nostri vicini d’oltralpe) che certamente possono favorire l’economia locale e che indirettamente possono anche tutelare l’ambiente, in quanto è solo chi l’apprezza che ha anche l’esigenza di ritrovarlo intatto.

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In tema di tutela dell’ambiente alpino, vi segnalo che la parta bassa del Vallone d’Unghiasse era stata presa di mira per costruirvi l’ennesima strada che l’avrebbe deturpata irrimediabilmente: l’avvocato Fabio Balocco (Pro Natura) nel 1999 era riuscito ad impedire tale scempio appellandosi alle normative vigenti nel nostro Paese.

Il post che ne parla è del febbraio del 2009. Ecco il link:

Una storia conosciuta da pochi“: https://camoscibianchi.wordpress.com/2009/02/08/una-storia-conosciuta-da-pochi/

Sembra, da alcune voci che serpeggiano in Val di Lanzo, che ci sia un nuovo progetto per costruire una strada proprio nella parte bassa del Vallone d’Unghiasse che devasterebbe un’intera zona che invece è da lasciare intatta per la rara bellezza che manifesta.

Appena avremo ulteriori e più precise informazioni, le pubblicheremo qui, su questo blog.

6 pensieri riguardo “Nel Vallone di Unghiasse

  1. Gran bel post, molto ricco di idee, considerazioni e immagini.
    Tu dici che le istituzioni locali dovrebbero favorire la conoscenza, ma sapessi quanto poco gli abitanti che stanno dentro le istituzioni conoscono i luoghi in cui ci inerpichiamo. Son buoni a rilasciare autorizzazioni per piste da sci in nome del maggior afflusso turistico. Amiamo più noi di pianura la montagna che non chi ha la fortuna di starci, e d’altronde è anche normale, noi la fatica la cerchiamo loro la vivono e cercano di evitarla.

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    1. Perfettamente d’accordo con te.

      Hai detto bene:

      “sapessi quanto poco gli abitanti che stanno dentro le istituzioni conoscono i luoghi in cui ci inerpichiamo”.

      E sovente, fatto drammatico, le istituzioni di montagna sono presidiate da persone che non conoscono i loro luoghi.

      Grazie.

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  2. Più che un volo nella geografia stavolta abbiamo volato nella storia – e preistoria – dalla colonizzazione dei monti “dall’alto” – su questo avremmo motlvo di ragionare e riflettere – e sulla importanza delle abbazie e dei monasteri nel dissodare le terre incolte a partire dal basso medio evo. Non dimentichiamo il periodo romano, in cui – anche se le montagne erano considerate un ostacolo da superare dopo opportuni sacrifici agli dei – si è operata la prima opera di dissodamente della pianura padana, almeno in certe parti del canavese.
    Post intrigante ed ispiratore…

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    1. I monaci benedettini hanno custodito la civiltà occidentale anche quando l’Europa era invasa dai barbari. Molti studiosi ritengono che è grazie a loro se ci siamo “salvati” da tali immani tragedie.

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  3. non è che fare il pastore sia sinonimo di purezza… anzi! come ho avuto modo di scrivere spesso, specie ultimamente, questo mestiere si sta snaturando, per un lungo elenco di motivi. sempre più manca una cultura della montagna e del territorio che invece gli antenati di quei pastori avevano, basta vedere con che perizia e piccoli accorgimenti avevano realizzato le loro “misere” baite.
    oggi non è più così e poi a questo si aggiunge uno dei lati del consumismo, quello fatto di progresso da una parte e di immondizia dall’altra!

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